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Thomas Hobbes e Arthur Schopenhauer teorici della vulnerabilità della vita

Nel documento Vulnerabilità. Etica, politica, diritto. (pagine 84-90)

Sandra Rossett

2. Thomas Hobbes e Arthur Schopenhauer teorici della vulnerabilità della vita

La delimitazione di questa ricerca agli ultimi quattro secoli della storia dell’Occidente è una conseguenza del fatto che la nozione di vulnerabilità comincia ad avere pregnanza filosofica nel momento in cui la “vita”, nella sua carnalità e materialità, è diventata oggetto di riflessione accanto ai tradizionali temi di metafisica ed ontologia. Alla vita in questa accezione è stato

dedicato un intero capitolo del libro di Hannah Arendt, The

Human Condition1, in cui l’autrice, nel fare il punto sulle novi-

tà e sui cambiamenti affermatisi nell’età moderna, ha messo al centro del suo discorso il nuovo significato a partire dal quale essa è stata investita. In quanto sfera d’essere che accomuna l’umano agli altri viventi, la vita, osserva Hannah Arendt, è sta- ta generalmente guardata con sospetto e, nella Grecia antica, è stata addirittura disprezzata, ma a partire dal XIV-XV secolo ha acquisito un’importanza crescente che le ha consentito di trionfare su tutti i valori precedentemente utilizzati per con- ferire senso alle azioni. Nella mappatura delle cause respon- sabili della svolta, l’autrice individua nel dogma cristiano, che ha concepito la vita come sacra, il punto di partenza di tutto il processo. È evidente, come la stessa Arendt sottolinea, che la vita a cui la religione cristiana si riferisce è quella eterna, ma, quando, nell’epoca moderna, i processi di secolarizzazione han- no aperto il varco all’ateismo e al materialismo, la fede nell’im- mortalità individuale è venuta meno, lasciando come unica su- perstite la vita terrena priva dei suoi significati trascendenti e metafisici. A metà del Novecento Hannah Arendt è stata una delle prime intellettuali che ha compreso la portata e la perva- sività delle forme di potere che si sono venute formando in re- lazione a questa svolta. Biopotere è il concetto con cui saranno nominate qualche decennio più tardi da filosofi come Georges Canguilhem2, Michel Foucault3, Giorgio Agamben4, Toni Ne-

1 H. Arendt, Vita activa. La condizione umana (1958), Bompiani, Milano, 2005, pp. 233-237.

2 G. Canguilhem, Il normale e il patologico (1943), Einaudi, Torino, 1998.

3 M. Foucault, Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France

(1978-1979), Feltrinelli, Milano, 2005; Id., Storia della sessualità, I. La vo- lontà di sapere (1976), Feltrinelli, Milano, 2005.

4 G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino, 1995.

gri5, Roberto Esposito6 che, dagli anni Settanta del Novecento

ad oggi, hanno dato continuità alla riflessione arendtiana sulla centralità assunta dalla vita nel pensiero moderno e contem- poraneo.

Le modalità e gli approcci attraverso i quali i filosofi han- no rivolto la loro attenzione alla vita sono stati molteplici, ma, se nell’indagare questo tema vogliamo tenere in primo piano, così come è nelle intenzioni di questo saggio, il problema della vulnerabilità, dobbiamo cominciare col prendere in conside- razione due filosofi tra i più cupi e pessimisti di tutta la tra- dizione di pensiero dell’Occidente, Thomas Hobbes e Arthur Schopenhauer, che devono questa loro triste fama proprio alla lucidità con cui hanno colto e denunciato i livelli di vulnerabi- lità presenti entro il fenomeno della vita e le forme di insicu- rezza e di precarietà che ne derivano. Hobbes, nel Leviatano, ha prodotto una filosofia radicalmente materialista in cui ha voltato le spalle alle nozioni tradizionali di bene e di male, di giustizia e di ingiustizia, lasciando in primo piano soltanto la vita umana con la sua esposizione a ciò che può violarla e fe- rirla7. Homo homini lupus è la celebre frase attraverso la quale

il filosofo ha fornito una metafora della sua visione della vita; visione secondo la quale l’unica regola universale che può es- sere rinvenuta nella società degli uomini è quella relativa al de- siderio di sopraffazione reciproca. Questa metafora ha trovato corrispondenza in un’altra altrettanto celebre figura, il “levia- tano”, che rappresenta la soluzione prospettata da Hobbes al problema della guerra di tutti contro tutti: quella di uno stato

5 A. Negri, Il mostro politico. Nuda vita e potenza, in U. Fadini, A. Negri, C.T. Wolfe (a cura di), Desiderio del mostro. Dal circo al laboratorio

della politica, Manifestolibri, Roma, 2001, pp. 179-210.

6 R. Esposito, Bíos. Biopolitica e filosofia, Einaudi, Torino, 2004. 7 Cfr. soprattutto il capitolo “La condizione naturale dell’umanità ri- guardo alla sua felicità e alla sua miseria”: Th. Hobbes, Il leviatano, Editori Riuniti, Roma, 1976, pp. 70-76.

“assoluto” che, per tutelare la vita dei cittadini, mette a morte la loro libertà e la loro autonomia.

Anche Arthur Schopenhauer, ne Il mondo come volontà e

rappresentazione8, ha elaborato una filosofia pessimistica e

lontana dalle tradizionali soluzioni che la metafisica ha indi- viduato in risposta al problema dell’essere. L’essenza della vita è infatti da lui concepita come un’energia cieca, incausata e senza scopo, la “Volontà” che vuole soltanto se stessa. Questo fa sì che miliardi di esseri viventi si affannino per sopravvivere venendo esposti costantemente alla possibilità di essere violati e feriti: dal fiore che appassisce per mancanza d’acqua, all’ani- male ferito, all’essere umano che si ammala e muore. Dietro l’illusione dell’amore attraverso il quale cerchiamo di rende- re più sopportabile il mondo, si cela quindi un’arena di esseri angosciati e tormentati i quali esistono solo a patto di divo- rarsi l’un l’altro. A differenza che in Hobbes, in Schopenhauer questa guerra intestina di tutti contro tutti non riguarda i soli rapporti umani, ma viene universalizzata, resa cosmica sino a coinvolgere la vita nelle sue molteplici manifestazioni:

Studieremo perciò nell’umana esistenza l’intimo ed essenziale destino della volontà. Ciascuno ritroverà facilmente nell’ani- male le stesse condizioni, soltanto più deboli, espresse in gradi diversi; e, guardando anche la sofferente animalità, avrà di che convincersi abbastanza che sostanzialmente ogni vita è dolore9.

Diversa è anche la risoluzione fornita al problema della vulne- rabilità, da lui affrontato con un’etica della compassione che prescrive ad ogni essere umano di fare proprio il dolore di tutti gli esseri passati e presenti, di evitare di arrecare altro dolore e di promuovere la volontà positiva e attiva di fare del bene a tutti i viventi.

8 A Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione (1819), Laterza, Roma-Bari, 1993.

È evidente come nel pensiero di Hobbes e Schopenhauer venga alla luce un’ontologia molto diversa da quella messa a punto dalla tradizione occidentale sia antica, sia moderna; un’ontologia che non individua più il suo centro nell’essere come uno stato dato, di natura oggettiva o soggettiva che sia. Nel loro discorso, infatti, l’essere appare come mera possibilità da strappare al suo contrario, il non essere, dato che la vita non è qualcosa di scontato ma una lotta continua per continuare ad esserci. Questa ontologia ha dato origine, nella modernità, a due diversi filoni. Da un lato, la corrente di pensiero, dominata dal pensiero hobbesiano, che ha fronteggiato il problema della vulnerabilità della vita attraverso la messa a punto di strategie securitarie, disciplinari e immunizzanti, culminate nelle “tana- topolitiche” naziste del Novecento10; politiche della morte che,

per tutelare le forme di vita ritenute più qualificate, hanno de- viato il problema della vulnerabilità su altre vite umane, trasfor- mate in vittime da immolare e sacrificare11. Dall’altro, fondato

sulla riflessione schopenhaueriana, il filone che, pur partendo dal dato della vulnerabilità, ha trovato invece il proprio comun denominatore in un’etica della responsabilità intersoggettiva capace di farsi carico della vita e delle sue contraddizioni attra- verso modalità positive di apertura e di “simpatia” del soggetto umano verso l’Altro da sé12. Obiettivo del secondo paragrafo

10 Anche Francesco Viola (“Totalitarismo e irrazionalismo nella te- oria morale di Hobbes”, Rivista internazionale di filosofia del diritto, 44 (1977), pp. 76-132) ritiene che vi sia una linea di continuità tra la modalità con cui Hobbes ha messo in collegamento la sua concezione della vita con la sfera della politica e le strutture politiche attraverso cui i totalitarismi novecenteschi hanno investito il fenomeno della vita.

11 Cfr., per un’analisi approfondita dei processi di vittimizzazione, il famoso libro di René Girard, La violenza e il sacro (1972), Adelphi, Milano, 1992.

12 Questa duplice lettura delle politiche attraverso le quali è stata in- vestita la vita, trae spunto dalla riflessione degli autori che nel Novecento si sono occupati del biopotere. Tra quelli già menzionati abbiamo infatti, da un lato, coloro che si sono concentrati unicamente sugli aspetti mortiferi di

di questo intervento è di seguire le tracce lasciate nella recente

questa forma di dominio e sono andati alla ricerca di strumenti di contrasto attraverso il recupero di istanze premoderne: le istituzioni democratiche della polis e della Roma repubblicana, come nel caso di Hannah Arendt (Vita activa, cit.; Ead., Che cos’è la politica?, Edizioni di Comunità, Mila- no, 1995); i modelli antichi, greci in particolare, di problematizzazione del desiderio e di costruzione etica del corpo, della vita e dei piaceri, come nel caso di Foucault e di Agamben (M. Foucault, La volontà di sapere, cit.; G. Agamben, L’aperto. L’uomo e l’animale, Bollati Boringhieri, Torino, 2002). Dall’altro lato, vi sono però anche autori che, pur riconoscendo la stru- mentalizzazione politica in termini di dominio e di violenza del primato assunto dalla vita, hanno interpretato la svolta che si è realizzata nella mo- dernità come la possibilità che la vita, nella sua eccedenza e nello statuto sovversivo del suo essere, si affermi sul comando politico, imponendo le proprie leggi e le proprie logiche. Coerentemente con questo approccio, Antonio Negri vede nell’intreccio tra vita e politica un dispositivo il quale, lungi dall’essere destinato a funzionare contro la vita, può porsi nei con- fronti delle tanatopolitiche come un contropotere della vita stessa, capace di esprimersi attraverso il lavoro, il linguaggio, i desideri, per dare luogo a forme di soggettività autonome e libere (A. Negri, Il mostro politico, cit.,). Nel discorso di Negri risuona e trova amplificazione tutta la costellazione dei significati biopolitici che ha contraddistinto il marxismo, ideologia la quale, con la sua esaltazione del lavoro, è stata una delle forme di azione e di pensiero più espressive della nuova emergenza che la vita ha assunto nella modernità. Pur a partire da una prospettiva più critica rispetto alla sua celebrazione quasi euforica compiuta da Negri, anche Roberto Esposito ri- tiene che ai dispositivi mortiferi della biopolitica, con i loro poteri di «nor- malizzazione assoluta della vita» e di «segregazione del bíos dentro la legge della sua distruzione», da lui analizzati a partire dal paradigma dell’‘immu- nizzazione’, vada contrapposto non qualcosa da rinvenire al di là della vita, ma il loro esatto contrario, cioè la «vitalizzazione della norma eccedente rispetto a tutte le attuali filosofie del diritto, il motivo, già fenomenologi- co, della carne come ciò che resiste ad ogni incorporazione presupposta e da ultima una politica della nascita intesa come produzione continua della differenza rispetto a ogni pratica identitaria». Nel suo saggio Biopolitica,

immunità, comunità (R. Esposito, Terza persona. Politica della vita e filoso- fia dell’impersonale, Einaudi, Torino, 2007) la nascita viene infatti definita

dall’autore a partire da un ragionamento sul corpo materno che nella gra- vidanza tollera la formazione di un’altra identità e di un’altra vita, quella del figlio, senza determinare fenomeni immunitari di negazione della vita

filosofia da questo secondo filone di pensiero, per comprende- re quali siano i filosofi e le filosofe che vi si sono impegnati, i contributi che ne sono emersi e i punti di contatto presenti tra due riflessioni riconducibili a questa corrente: quella “umani- stica”, che ha considerato la vulnerabilità nella sola relazione con il soggetto umano, e quella “post-umanista”, tesa invece a superare i limiti del discorso specista. Come vedremo, infat- ti, anche alcune espressioni dell’etica ecologista ed animalista del Novecento hanno utilizzato la categoria della vulnerabilità per definire regole e norme di un più corretto rapporto tra gli umani e gli altri esseri viventi.

Nel documento Vulnerabilità. Etica, politica, diritto. (pagine 84-90)