Deriva etnocentrica
4. Le condizioni di vita e di lavoro delle mediatrici culturali
È in questo quadro che si iscrivono i racconti e le riflessioni delle mediatrici culturali che lavorano presso la Cooperativa Mosaik. I loro racconti lo arricchiscono di dettagli e di esperienze, che ne rafforzano e ne precisano il senso e il valore, e che mettono in risalto la pluralità di sfaccettature e di pratiche in cui la mediazione culturale si dispiega.
Ogni racconto allo stesso tempo fuoriesce dal quadro per tracciarne uno più ampio, che rivela vite composite, in cui il lavoro di mediazione, essendo precario, si somma ad un secondo lavoro, e il doppio lavoro per il mercato deve conciliarsi con il lavoro familiare. Molte di loro, infatti, hanno una famiglia, devono prendersi cura dei figli, devono dividere la propria giornata tra il tempo da dedicare alla casa e il tempo speso sul mercato del lavoro. Quest’intreccio da un lato le accomuna, dall’altro le differenzia, così come le accomuna e le differenzia la loro storia di migranti.
Parlano, raccontano come donne immigrate la loro difficile esistenza di lavoratrici divise tra la casa e il mercato, di un’esperienza di studi superiori e di lavori qualificati avuta nel paese d’emigrazione (esperienza che riguarda in modo particolare chi emigra dai paesi dall’Est Europa o dell’Albania) che non viene riconosciuta.
Descrivono situazioni di incomprensione, appesantite da pregiudizi e offuscate da elementi discriminatori, di cui sono state sia testimoni, nelle vesti di mediatrici, sia oggetto, nelle vesti di immigrate. Vedono con lucidità il cambiamento di status che la mediazione consente. Presentarsi a scuola come mediatrici e non come madri di bambini immigrati non è soltanto motivo di orgoglio, consente anche di vedere lucidamente l’“altra” – la madre del bambino immigrato – che sta lì, in un angolo, intimidita, insicura, quasi impaurita. Un posto in cui loro stesse potranno essere sospinte quando, ad esempio, si troveranno come madri immigrate non meglio identificate in un servizio di assistenza sanitaria insieme al proprio figlio e dovranno fronteggiare un medico che si rivolge loro con un linguaggio impoverito, che imita quello di una persona immigrata con un in-volontario effetto grottesco che le ridicolizza.
Non dimentichiamo le mediatrici che sono emigrate da sole, giovani donne la cui vita per molti aspetti è non meno complicata e difficile. Non c’è per loro un sostegno coniugale, non c’è per loro uno programma sociale di aiuto. La principale risorsa a cui attingono è in loro stesse, in una particolare “combattività”, che si esprime anche nel loro modo di vivere la propria esperienza di mediatrici. C’è uno slancio emancipativo particolare che le contraddistingue e per questo un moto di ribellione, un forte accento di protesta
nei confronti di una mediazione solo adattiva, al limite della remissività. Sono particolarmente lucide nel far uscire allo scoperto questo modo di intendere la mediazione da parte dell’organizzazione in cui operano.
Alcuni potrebbero maliziosamente osservare che la lucidità, che rende trasparenti agli occhi di tutte le contraddizioni della mediazione, sia perlomeno parziale e relativa, per la posizione da loro occupata: essere parte e essere dalla parte di. Questa posizione inficia forse la validità/verità della conoscenza che essa disvela?
Ricorro, per rispondere, alle parole di Pierre Bourdieu, maestro nell’analisi delle distorsioni e della sterilità in cui incorre un pensiero che perdendo il contatto con la sfera delle pratiche manca al «compito di dire le cose del mondo sociale, e di dirle, per quanto è possibile, come effettivamente sono»:
«Nell’ordine del pensiero, come ricordava Nietzsche, non si dà immacolata concezione. E neppure peccato originale. E se si finisse con lo scoprire che chi ha scoperto la verità aveva interesse a farlo, quella scoperta non ne risulterebbe in alcun modo sminuita. Quanti amano credere al miracolo del pensiero “puro” devono rassegnarsi ad ammettere che l’amore della verità e della virtù, come qualsiasi altra specie di disposizione, deve necessariamente qualcosa alle condizioni in cui è andato formandosi, in altre parole a una posizione e a una traiettoria sociali. E per parte sono convinto che quando si tratta di pensare le cose della vita intellettuale, sulle quali è riposta tanta parte dei nostri investimenti e in cui, di conseguenza, il “rifiuto di sapere” e persino “l’odio della verità” di cui parla Pascal sono particolarmente intensi e particolarmente diffusi (magari sotto la forma rovesciata della falsa lucidità perversa del risentimento), un po’ d’interesse personale per il disvelamento (che sarà facile denunciare come denuncia) davvero non guasti»166.
La compresenza di più ruoli che caratterizza le mediatrici, il contatto quotidiano con il pluralismo culturale, la dinamica vicinanza/distanziamento, costituiscono il campo di cui loro sono parte, in cui si forma passo dopo passo la loro conoscenza delle relazioni tra immigrati e autoctoni, tra popoli e culture di diversa provenienza. Tale pluralità apre ad un punto di vista che sta non solo in mezzo tra due ma che si muove in mezzo a tutti. Storie collettive d’emigrazione e d’immigrazione, traiettorie di percorsi di vita in parte comuni in parte singolari, configurano una condizione sociale in cui si inserisce il loro operare e che contribuisce a dare “oggettività” al loro discorso.
È certo che il loro muoversi all’interno del campo d’intervento, le stesse condizioni di concorrenza che le oppongono ad altri operatori sociali e mediatori, il confronto con le organizzazioni e le istituzioni, una capacità riflessiva rafforzata dal lavoro collettivo e che può contare su livelli di istruzione superiore, consente un progresso nella conoscenza del loro campo d’azione, da cui questo testo ha tratto forti vantaggi. In particolare per quanto riguarda l’operare di “pregiudizi”, la descrizione della stratificazione sociale in cui si dispongono le diverse nazionalità presenti nella società bolzanina, il riprodursi anche in questo contesto del fenomeno della razzializzazione, di un’esclusione senza appello, attraverso i discorsi fin troppo noti per cui:
- i musulmani sono terroristi - gli albanesi sono criminali
- il nero sarà sempre nero perchè al colore della pelle non c’è rimedio.
Qui ci può essere spazio per la mediazione?
«Arriverà il tempo in cui scompariranno i pregiudizi» – dice una mediatrice – «Ci vorrà molto tempo. Per noi europei, che abbiamo un colore della pelle che non fa capire, arriverà. Per i neri ci saranno ancora problemi».
Abbiamo sostenuto che la compresenza di più ruoli tra loro incongruenti (il ruolo di mediatrice sottrae dalle situazioni più inferiorizzanti ma non risparmia dal ricaderci dentro, mantiene il contatto con i disagi, le difficoltà e le discriminazioni di cui sono oggetto gli immigrati) consente di vedere e di conoscere meglio dinamiche e meccanismi di esclusione. I pregiudizi, le barriere poste all’emancipazione (ad esempio il mancato riconoscimento del titolo di studio), le più pesanti discriminazioni (nella ricerca della casa) emergono dai loro racconti in tutta la loro verità.
Ci accingiamo ora a mettere meglio in luce quei tratti della loro storia di vita e della loro attuale posizione sociale che producono differenziazioni significative rispetto alle altre donne immigrate, differenziazioni che orientano anche il modo di pensare e di praticare la mediazione.
5. Un approfondimento
L’avanzamento sociale e lavorativo che distingue il gruppo delle mediatrici dalle altre donne immigrate, che sono dietro di loro nella scala della stratificazione, è l’esito di un processo in cui auto-attività e lotta per affermare capacità e diritti si intreccia ad un processo di selezione ed inclusione da parte
degli autoctoni. Non analizzeremo una ad una le variabili che entrano in gioco in questo processo. Ci limiteremo a evidenziare le condizioni d’emigrazione/immigrazione, ossia l’intera traiettoria migratoria, la famiglia d’origine e quella di procreazione (le mediatrici nubili e giovani sono portatrici di bisogni e di un discorso in parte diversi), le loro capacità, in particolare il livello di scolarizzazione e la conoscenza di una o più lingue.
È stata così possibile una certa mobilità lavorativa e sociale, sia orizzontale che verso l’alto, una stabilizzazione (specie per quelle mediatrici che sono sposate e hanno figli) e una particolare tensione tra “adattamento”, “adeguamento”, “inserimento”, “integrazione”, da un lato, e rielaborazione/trasformazione della loro appartenenza nazionale/culturale, del modello di relazione di coppia e familiare, e di quello educativo nei confronti dei figli, dall’altro. Le difficoltà di vita e le contraddizioni del loro status di immigrate si iscrivono all’interno di questo processo.
Il doppio lavoro, quello precario di mediatrice e l’altro più o meno stabile, fa parte della peculiare doppia presenza vissuta da queste donne e contribuisce al bilancio familiare, combinandosi con il lavoro del marito. Questa peculiarità è dovuta anche alla mancanza di sostegni parentali.
La loro famiglia è, come si usa dire, a doppio reddito e richiede una precisa organizzazione/divisione del lavoro familiare e dei tempi di lavoro per entrambi i coniugi. Il doppio reddito è indispensabile per costruire una vita familiare di livello medio, per vivere in una casa decorosa. Occorre lavorare, e lavorare tanto, sacrificando i tempi familiari ma soprattutto il tempo dell’amicizia e della socialità.
Il valore del lavoro di mediatrice è solo in minima parte economico. Si colora di vari significati: vocazionale, di solidarietà, di prestigio. Sono proprio questi significati che accentuano l’insoddisfazione per il suo carattere precario, che rende impossibile trasformarlo in una vera professione, arricchirlo con una formazione permanente, farlo diventare più efficace. La precarietà ne complica l’organizzazione a livello personale e da parte della Cooperativa. Nei casi in cui la mediazione costituisce l’unica fonte di reddito il vantaggio di una più semplice conciliazione con i tempi familiari non riesce a compensare l’aumento di incertezza e di preoccupazione per l’immediato futuro.
Il ruolo di mediatrice, pur precario e incerto, ha un valore identitario la cui base è più volontaria che materiale, ed esercita un’influenza riscontrabile nei loro discorsi. Esso segna in modo visibile che c’è stato un “inserimento”, che ci sono state continue prove ed esperienze di adattamento e di adeguamento, che ci sono stati conflitti e ribellioni.
Quest’esperienza, che non ha prodotto nulla di totalmente e definitivamente acquisito, può accompagnarsi a due opposti discorsi. Il primo predica tutto ciò
che l’immigrato dovrebbe fare, i suoi doveri e i suoi obblighi: lavorare bene e molto, imparare bene le lingue usufruendo di tutti i corsi offerti a questo scopo, comportarsi bene; dà un po’ per scontato che per lui, per lei, per loro, davvero tutto andrà per il meglio se l’impegno all’adattamento e all’apprendimento delle buone maniere sarà sincero e totale. Parallelamente, e contraddittoriamente, procede l’altro discorso che guarda ai diritti e al mancato riconoscimento dei diritti, e riconosce le aspettative disattese: «infine ho imparato la lingua, ma non sufficientemente bene per poter ottenere quel lavoro o per non essere segnata a dito…»; «infine ho fatto quel corso di formazione, e poi un altro e poi un altro ancora…». Infine non c’è fiducia, e alla fine si ricomincia sempre all’inizio. Parlando di sé parlano anche delle immigrate che rappresentano e viceversa.
Su questa delicata questione relativa al percorso delle mediatrici, denso di contraddizioni, dentro e verso la società d’immigrazione, è opportuno fare riferimento a “il peso delle parole” adattamento, assimilazione, inserimento, integrazione, espresso da Sayad, il quale rivolge il suo discorso e pensiero alla storia dell’immigrazione algerina in Francia, che per il suo carattere esemplare può essere oggetto di una seria riflessione.
«Il punto di vista dell’osservatore esterno, un osservatore sicuro di sé e della propria visione del mondo, conferisce un ruolo totalmente passivo agli individui di cui constata l’adattamento o il non-adattamento, l’assimilazione e la non-assimilazione. In questo caso il vocabolario testimonia tale decisione: è la società francese che “assimila”, e a coloro i quali sono l’oggetto di questo processo richiede soltanto di lasciarsi assimilare, di accettare l’assimilazione di cui sono l’oggetto, o almeno di non ostacolarla (…). Ci si ricorda di questi altri solo per criticarli duramente quando il processo di assimilazione fallisce. Allora la colpa ricade su di essi, mentre se l’assimilazione riesce il merito e il credito vanno alla società che assimila (…).
In mancanza di un termine migliore e più appropriato, la parola “integrazione” riguadagna la nostra approvazione. Ci piace distinguerla dalla parola “assimilazione” in quanto l’integrazione presuppone l’integrità della persona fusa ma non dissolta nel gruppo, mentre l’assimilazione equivale alla negazione e alla scomparsa di questa integrità, come si vuol credere.
Poiché ne va dell’integrazione dell’insieme stesso e non soltanto dell’integrazione, nell’insieme, di qualche individuo estraneo ad esso, il discorso sull’integrazione è necessariamente un discorso appassionato, simbolicamente sovraccarico (è un discorso sempre in ritardo sulla realtà sociale (…) poiché le trasformazioni sociali più profonde che coinvolgono tutto l’essere della società, come in questo caso, esigono sempre una relativa incomprensione, una relativa cecità collettiva, mentre si compiono e per potersi compiere. (...). Uno dei grandi disagi causati dal discorso sugli “integratori”
(assimilazionisti o meno) e sugli “integrabili” (integrati o meno), dipende in gran parte da questo squilibrio: il discorso sull’integrazione non può essere ascoltato né accettato da coloro a cui viene principalmente rivolto – il pubblico oggetto di integrazione – ma solo da chi è già ben integrato».167