Deriva etnocentrica
6. Posizionamenti dentro lo spazio della mediazione
Lo spazio sociale della mediazione non è statico, come abbiamo visto. Si amplia e si restringe caso per caso, in modo da indurre le mediatrici a pratiche e posizionamenti diversi. Le mediatrici stesse contribuiscono a tale dinamicità, intenzionalmente. Proviamo ad enunciarli ricorrendo anche a metafore, con l’intento di sintetizzare e chiarire quanto è emerso dalla ricerca.
mediazione linguistica
È l’esercizio di una competenza, che avviene sotto il segno dell’urgenza ed è funzionale al compiersi di un atto burocratico, compilativo. Chi pone la domanda e chi deve dare una risposta devono comunicare quanto basta per dare avvio alla procedura.
Una mediatrice ha colto pienamente il senso di questa mediazione definendola “fredda”. In effetti non lascia spazio alla relazione, non avvia un dialogo vero e proprio. È come se si trattasse di una convocazione all’istante, che impone una certa fretta, che lascia la mediazione fuori dalla porta dell’organizzazione da cui la chiamata è partita. È stata descritta bene e con una certa ironia da molte mediatrici, che si descrivono come “corrieri espressi” (l’espressione è nostra), che corrono da un punto all’altro della città, presenti provvisoriamente in più luoghi nell’arco della giornata.
In questo spazio ristretto il gioco delle parti è ridotto al minimo. Dovrebbe essere, si spera che sia, asettico, favorevole a ridurre e neutralizzare difficoltà, sofferenze, disagi, pregiudizi. Si rivela al contrario e non di rado pieno di confusioni e di clamori, proprio come se si svolgesse in strada.
In entrambi i casi non viene meno il tratto che più caratterizza questa mediazione: la dissolvenza168. La dissolvenza infatti caratterizza sociologicamente quell’interazione faccia a faccia che viene chiamata “incontro”. Alla dissolvenza dell’incontro corrisponde la fissità dell’organizzazione e della sua struttura.
167 Cfr. Sayad A., La doppia assenza, Cortina, Milano, 1999, pp. 292-294.
Non è difficile capire perché questo posizionamento rappresenti per le mediatrici la situazione più frustrante e meno accettabile.
mediazione a confine o di frontiera (culturale)
È il posizionamento di chi sta in mezzo, non solo tra i due, come più usualmente pensiamo, ma anche in mezzo ai due poli opposti, di cui abbiamo parlato inizialmente, ossia in mezzo ai molteplici e possibili posizionamenti che vanno dalla competenza linguistica a un lavoro interculturale. Pur rimanendo sulla soglia dell’organizzazione questa forma di mediazione ha a che fare e a che vedere con norme, regole, ruoli, attese, racchiuse in uno spazio sociale che perde la sua asetticità e neutralità perché tocca, anche se marginalmente, le strutture organizzative.
Rimanendo sulla soglia, la mediazione culturale è esposta di nuovo al rischio della dissolvenza, ma ha anche la possibilità di entrare dentro l’organizzazione. È ambivalente: oscilla dalla riduzione a semplice schermo a quella di risorsa adattiva per entrambi le parti in causa, per l’organizzazione, che si trova a dover rispondere a una pressione, e per l’immigrato che deve apprendere nuove regole.
Le mediatrici sanno bene quanto sia importante che la linea di confine si dilati nello spazio e nel tempo, che la mediazione non si risolva in un timbro, in un lasciapassare, che confermerebbe in pieno la situazione asimmetrica in cui la mediazione si colloca in tutti i suoi aspetti. Per questo si impegnano ad allargare l’intercapedine in cui sono posizionate, per questo i loro racconti ci hanno suggerito l’espressione mediazione di frontiera, tesa alla conquista di un territorio/terreno più ampio per poter svolgere efficacemente il proprio lavoro.
Mediazione socio-culturale (interculturale)
È un posizionamento teso a rendere possibile che le culture si mettano in gioco. Richiede alla mediatrice l’alta qualità di “interprete/traduttrice” a due livelli. Il primo richiede la capacità di intendere gli aspetti culturali che lo scambio comunicativo chiama in causa. Il secondo richiede di non omettere ma, al contrario, di fronteggiare le asimmetrie riprodotte dallo stesso contesto della mediazione.
Interpreti, anche, delle spinte molteplici e contraddittorie a cui l’attività di mediazione è sottoposta. Una spinta le vorrebbe virtuose nella conciliazione. Una spinta le vorrebbe artefici dell’adattamento dell’ultimo arrivato alla
situazione preesistente. Una spinta le collocherebbe ai margini. Una spinta consente loro di sperimentare effettivamente la centralità/necessità della mediazione.
Una mediatrice ha suggerito l’immagine del “travestimento”, che evoca la capacità di muoversi consapevolmente nelle diverse situazioni e in relazione alle due parti in gioco, allo scopo di superare le prevedibili barriere, di entrare in contatto, di potere smuovere la fissità dei ruoli e delle strutture.
“Colpire nel punto giusto” è una seconda espressione intelligente, perché riconosce che la mediazione è un rapporto di forza, sta in mezzo a conflitti e in qualche modo deve risponderne. Armando Gnisci, noto letterato, afferma in un suo recente testo sull’interculturalità, che l’espressione avverbiale “in mezzo” può significare non solo “nello spazio tra due”, “nell’intercapedine” ma proprio “in mezzo alle cose”, “in mezzo a tutti”169. È proprio a questo secondo significato che rinvia la mediazione che chiamiamo socio-culturale, ossia nella società, a contatto con la vita quotidiana e capace di produrre discorsi pubblici.
Siamo arrivati a questa ri-denominazione – mediazione “socio-culturale” – per restituire alle mediatrici le conoscenze che ci hanno trasmesso, raccontando e discutendo tra loro la propria storia professionale e di vita, la molteplicità delle loro presenze, le diverse esperienze e i diversi modi di fare mediazione.
L’immagine che corrisponde più fedelmente a questi racconti è quella che le vede situate nella società, “in mezzo a tutti” e non solo “nello spazio tra due”.