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Fronteggiamenti e resistenze

LE DONNE IMMIGRATE: I LAVORI, LA CASA, LA FAMIGLIA

7. Fronteggiamenti e resistenze

I fronteggiamenti sono i modi diversi di resistere alle determinazioni e ai condizionamenti oggettivi che il contesto d’immigrazione impone alla vita lavorativa, familiare e sociale delle donne intervistate. Sono slanci in avanti, che nel racconto prendono la forma di impulsi e di scatti impressi alla parola, per superare le chiusure e le esclusioni che punteggiano la loro quotidianità, il loro andare e venire tra casa e lavoro, tra più lavori, tra burocrazie e uffici.

Pochissimi sono stati i racconti che non hanno rivelato i modi particolari in cui ognuna riesce a resistere alla propria difficile esistenza. Anche che nel raccontare si raccontano come soggetti e come persone, e già questo è un importante modo di resistere. Non si sono lasciate espropriare della propria identità, di sé come persone, non nel senso di aver saputo conservarne l’“essenza”, ma nel senso di essere riuscite a preservare uno spazio psichico e sociale per rielaborare la propria storia di migrante. È una storia che le ha trasformate ma non forgiate, né plasmate secondo il modello dell’ospite che deve gratitudine, del povero che è stato beneficiato, del “senza lavoro” che è stato proletarizzato.

La trasformazione mette in luce un tratto d’adattamento che si riferisce al modello che il contesto locale presenta loro, adattamento a regole e credenze, a tipi di comportamento, al sistema di controlli sociali, adattamento attraverso l’apprendimento corretto della lingua, molto sentito e desiderato da loro stesse. Adattamento all’organizzazione del lavoro e ai tempi giornalieri di lavoro, che ci pare sia quello più riuscito. Non è però un adattamento passivo, ma dialettico, che fa leva sulla propria esperienza, che segue la traiettoria impressa alla propria vita dall’emigrazione e cerca di darle una direzione e una forma.

Dai racconti emergono in modo costante due tipi di contraddizioni, di dialettiche che poi danno forma a diversi tipi di azione, di comportamenti e di giudizi. La prima si sviluppa sotto la spinta di una “forza interna (interiore)” che si oppone alla rappresentazione della donna lavoratrice come lavoratrice “debole”, ancor più se immigrata. È un modo di resistere al processo oggettivo di degradazione del sé, di riduzione della persona a pura forza lavoro. La seconda lega insieme una “condotta dignitosa” sul lavoro a “lavori privati di dignità”. È una forma di resistenza alla segregazione in nicchie lavorative chiuse e l’aspirazione ad un lavoro dignitoso nell’accezione inaugurata dall’Ilo (Organizzazione Internazionale del Lavoro) nel 1999150.

150 L’espressione “lavoro dignitoso” è stata ufficializzata dall’Ilo nel 1999 in uno specifico rapporto a cura dell’Ufficio Internazionale del Lavoro dal titolo Rapporto del

direttore generale: il lavoro dignitoso, (Ginevra, giugno 1999). Nel preoccuparsi del

Abbiamo messo al centro delle azioni di fronteggiamento il lavoro, non solo perché il lavoro è stato il motivo centrale delle interviste narrative, ma anche perché costituisce l’attività giornaliera più importante, per non dire totalizzante. Questo non significa che la relazione con il lavoro dipenda soltanto dal lavoro. Vi si proietta invece l’intero ambiente esterno, quello familiare innanzitutto, così come il modo dignitoso di lavorare e la forza interiore che lo sostiene si proiettano fuori del lavoro e trasformano rapporti sociali e familiari.

7.1 “Forza interiore” versus lavori “deboli”

La forza interiore si configura nei racconti in modo costante come forza dei legami familiari. L’opinione comune è che le donne migranti, soprattutto le donne emigrate adulte con famiglia e figli, resistono alle difficoltà usando l’attaccamento alla famiglia e al gruppo parentale e di comunità come uno scudo protettivo. I racconti, lo abbiamo già visto, dicono qualcosa di diverso, quasi opposto: sono loro stesse a farsi scudo per la propria famiglia, sono forti per la propria famiglia. È una forza, potremmo dire, privatizzata, che in parte spiega perché risultino sottotono le esperienze o anche solo gli slanci verso forme di vita associativa, d’organizzazione collettiva, organizzazione di feste, d’incontri. La privatizzazione è l’effetto, non la causa, dei tempi di lavoro totalizzanti; quindi il privato familiare è anche uno spazio di rigenerazione e di conforto.

Per le donne sole che sono riuscite ad inserirsi e a dare stabilità alla propria vita e a quelli dei figli – a patto però di rinunciare ad una vita piena – la casa, il rientro a casa significano riposo, momento di pausa, spazio «per pensare». Citiamo:

«Ho solo contatti di lavoro, ma amicizia… perché non hai neanche tempo. Anche dai tuoi connazionali ti allontani, arriva il momento che è da anni che non li vedi. Neanche se sei nello stesso… ho due sorelle qua e ci vediamo ogni due, tre mesi, perché si lavora. La sera sei stanca, torni a casa, non hai tempo ma di posti di lavoro di qualità accettabile. La quantità di occupazione non può essere scissa dalla sua qualità. Tutte le società hanno una nozione di “lavoro dignitoso”, ma la qualità dell’occupazione può significare molte cose. Può essere collegata a diverse forme di lavoro e anche a differenti condizioni di lavoro, così come a sentimenti di valore e soddisfazione. Il bisogno odierno è di concepire sistemi sociali ed economici atti a garantire sicurezza di base e occupazione, pur restando in grado di adattarsi a situazioni che cambiano rapidamente in un mercato globale altamente competitivo.

di… però si lavora, lavorano anche loro. Lavorano. Sì, il tempo e poi, guarda, i nervi e l’età fa il suo. A soffrire così tanto per… io non ho più i nervi di stare a chiacchierare, no. Questa giornata che sono libera mi… mi sta bene a stare a casa chiusa da sola, per riposarmi, per pensare».

La forza dei legami familiari in alcuni racconti attinge a una memoria generazionale, come ci rivela una donna sposata con figli emigrata sola dal Ghana. Sopravvive confortata dal pensiero di un’appartenenza genealogica forte; racconta che i nonni materni hanno entrambi festeggiato il centenario, che sua madre ha avuto undici figli, che altri membri della sua famiglia d’origine sono emigrati in Europa. La sua famiglia è stata così forte da poter «vivere in tutto il mondo». I suoi figli studiano in Ghana, i nipoti studiano all’estero, ma non sono in fuga, «studiano, vanno avanti». L’espressione “vado avanti, lavoro”, che nel suo modo di raccontare ritorna più volte, vale per molti racconti, con sfumature diverse, che richiamano alla mente a volte la pazienza, a volte la speranza, a volte il coraggio, qualità che sono proprie dell’esperienza del migrare.

7.2 “Condotta dignitosa” versus “lavori privi di dignità”

Per la società d’immigrazione l’immigrato è colui che lavora e nient’altro che questo, senza però omettere che quest’affermazione sta anche a significare che al suo lavoro non viene riconosciuto il valore che meriterebbe, in termini di rispetto e di riconoscimento di diritti. Per l’emigrato, per l’emigrata, il lavoro, al contrario, ha un valore e non solo perché è una necessità, l’unico mezzo di sopravvivenza ma perché attraverso il lavoro e sul lavoro entrambi trovano l’unica possibilità di affermarsi, e di vivere socialmente nel paese d’immigrazione. Non è possibile separare questa volontà di affermazione in e attraverso il lavoro, dall’esistenza al di fuori del lavoro, un’esistenza che si vorrebbe ignorare o ridurre, limitando i diritti sociali e di cittadinanza, la cui rivendicazione d’altra parte rinvia a ciò che si può accedere.

Il valore del lavoro per chi emigra, infine, deriva dal fatto che le capacità lavorative sono qualità personali, non trasmissibili, e trasportabili, “al di là delle frontiere e delle proprietà”151. Nel lavoro chi emigra trova la possibilità e

151 Non pochi autori, fortunatamente, iniziano il loro discorso sulla vita dell’immigrato da qui, dal valore del lavoro e ne traggono onestamente e logicamente le conseguenze. Qui e altrove si fa riferimento in particolare all’opera di Sayad, già citata, e al testo di Kristeva J., Stranieri a se stessi, Feltrinelli Milano, 1990.

l’opportunità di esprimere tutto ciò che lo ha spinto ad emigrare e tutto ciò da cui si è separato fisicamente per portarlo con sé mentalmente e moralmente.

Occorre partire da queste semplici verità per capire poi il suo rovescio, le situazioni e le esperienze in cui il lavoro diventa pura necessità perché mortifica le capacità e umilia la persona. È quest’esperienza che ha trovato spazio nelle storie raccolte, dove è testimoniato che la lotta per ristabilire la verità e per “liberare” la propria personalità dai limiti che le sono imposti non cessa mai.

L’immigrato per parte sua non si è mosso per perdere il suo tempo. Pronto a buttarsi, secondo le capacità e le circostanze, accetta tutti i lavori e si sforza di eccellere nei più rari. In quelli di cui nessuno vuol sapere ma anche in quelli cui nessuno ha pensato. Uomo o donna tuttofare, ma anche pioniere delle discipline d’avanguardia, specialista improvvisato dei mestieri insoliti e di punta, si investe e si spende. E se è vero che con questo egli mira come chiunque altro al guadagno e al risparmio per i tempi che verranno e per la famiglia, la sua economia (per raggiungere questo obiettivo, e più di quanto non accada negli altri) passa attraverso una prodigalità di energia e di mezzi. Dal momento che non ha niente, e che gode di poca considerazione, può sacrificare tutto. E il sacrificio comincia dal lavoro, solo bene esportabile fuori dogana, valore rifugio universale in stato di erranza. Che amarezza quindi, che disastro quando non si ottiene il permesso di lavoro!152

Dal punto di vista delle donne lavoratrici immigrate il valore del lavoro per il mercato recupera il suo pieno senso e “valore” se lo si considera alla luce della storia del lavoro femminile e alla luce della doppia presenza. Insistiamo nel sottolineare che la doppia presenza esprime la conquista da parte delle donne del diritto al lavoro con quelle contraddizioni messe prima in luce e che qui riprendiamo.

La prima contraddizione è l’inferiorizzazione di questa conquista, la sua segregazione. I modi di fronteggiarla sono diversi ma, non a caso, mirano allo stesso fine di restituire dignità al proprio lavoro. Lavorare bene, fare bene il proprio dovere, come se con questo comportamento si richiamasse il datore di lavoro al rispetto del dipendente e ai doveri che ha nei suoi confronti, è la modalità più diffusa. Sono consapevoli di essere svalorizzate in tutti i lavori, anche quello di pulizie, eppure dicono che: «Ci vuole occhio, tutti puliscono ma non tutti puliscono allo stesso modo… perché è una cultura». Le donne che portano con sé un bagaglio secolare di culture domestiche, di saperi che

riguardano lo spazio domestico, fronteggiano la loro dequalificazione anche così153.

La seconda contraddizione nasce dal parallelo avanzamento di due processi: l’inserimento stabile nel mercato del lavoro e la scolarizzazione ed intellettualizzazione femminile che non ha riguardato solo l’Occidente. È noto, ad esempio, che le donne provenienti dai paesi dell’Est hanno avuto accesso alla scuola dell’obbligo più e prima di quanto non sia stato per le donne dell’Europa occidentale. Quest’ultima contraddizione apre ad un discorso che in parte abbiamo omesso e che riguarda soprattutto le giovani donne immigrate, le nuove generazioni che emigrano da sole. Lo faremo nel prossimo capitolo parlando delle giovani infermiere e delle assistenti socio sanitarie, un caso di migrazione femminile altamente professionale.

153 Il breve pensiero che riportiamo è espresso da una donna diplomata in tecnologie chimiche ed emigrata dall’Albania.