Corbetta (1999) afferma che effettuare una buona intervista qualitativa è un’arte difficile. Il problema non è solo quello di ottenere il consenso all’intervista, ma anche quello di “far parlare” l’intervistato, fare in modo che risponda con sincerità ad una serie di domande. L’ideale sarebbe quello di provocare un racconto fluido e naturale in cui l’intervistatore si limita ad ascoltare e ogni tanto fare degli interventi per rafforzare la conversazione e per guidarla verso i temi che intende trattare. La difficoltà sta nel riuscire ad accedere al mondo delle emozioni e dei sentimenti della persona intervistata, è chiaro che nell’intervista fatta a fini conoscitivi, non è semplice neppure arrivare alla confidenza dell’intervistato, con il quale spesso non c’è stato nessun incontro preliminare. Per avere la piena collaborazione l’intervistatore deve stabilire con l’intervistato un rapporto di fiducia, il che non è facile considerando i limiti temporali ristrettissimi in cui la relazione si esaurisce in un solo incontro.
A livello scientifico sono state definite alcune indicazioni metodologiche. Fare delle spiegazioni
preliminari, (dopo aver ottenuto il consenso all’intervista e superato la diffidenza iniziale), prima di
cominciare l’intervista vera e propria è bene far capire cosa si richiede al soggetto intervistato. Specificare lo scopo della ricerca, spiegare perché è stato scelto e tra chi, chi altro vi partecipa, anticipare il fatto che saranno poste domande personali, giustificare il fatto che l’intervista sarà registrata, come sarà utilizzata la registrazione e come avverrà l’analisi del materiale di ricerca raccolto. Questo cappello introduttivo permette di entrare in relazione con l’intervistato, basandosi su di un rapporto di trasparenza e fiducia reciproca, chiarendo eventuali dubbi e perplessità. È bene inoltre definire i tempi dell’intervista, cioè ipotizzare la durata dell’intervista, chiedendo all’intervistato se va bene per lui; si lascia comunque la libertà di interrompere la conversazione se c’è bisogno di una pausa o se subentra un’emergenza per cui si deve chiudere anticipatamente, se possibile in questo caso si fissa un altro appuntamento. Per me era molto importante dedicare del tempo a chiarire questi aspetti, proprio per instaurare un rapporto di reciproco rispetto e fiducia, inoltre esplicitare che l’intervistata aveva la massima libertà di azione scioglieva un po’ di disagio e timore iniziale. Mi è capitato più volte di dover interrompere la
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conversazione per esigenze della mamma e soprattutto del bambino, è stato comunque abbastanza semplice e naturale riprendere dopo pochi minuti. In un caso l’intervistata mi ha chiesto di anticipare la chiusura dell’intervista perché si era accorta che si era fatto tardi e doveva andare via, in quel caso ho chiesto di fissare un altro appuntamento per terminare l’intervista. Si è rivelato un secondo incontro proficuo e ho notato che la donna era più sciolta e aperta nelle risposte, era più tranquilla e si era già instaurata una buona confidenza tra di noi. Forse il fatto di rivedersi per la seconda volta aveva dato maggior importanza allo scopo dei nostri incontri e soprattutto ha permesso di ampliare la nostra conoscenza reciproca. Per ragioni di tempo non ho potuto fare altrettanto con le altre intervistate, anche se potremmo ipotizzare che le interviste raccolte sarebbero andate più in profondità probabilmente.
Altre indicazioni metodologiche che ho seguito nel condurre le interviste sono inerenti i diversi tipi di domande da sottoporre. Per introdurre un argomento di discussione (domande primarie) facevo delle domande descrittive nel senso che chiedevo di parlarmi di quel avvenimento o di quella situazione in generale, poi a seconda della risposta datami stimolavo la conversazione con delle
domande secondarie che andavano più in profondità nell’argomento. Durante la conversazione
era per me importante far capire all’intervistata che ero realmente interessata a ciò che mi stava raccontando e stavo capendo il suo ragionamento, perciò sia verbalmente, con espressioni del tipo “sì, sì” o “capisco” o “ma dai..?!”, sia con dei semplici cenni del capo, dimostravo di ascoltarla attentamente. Poi se non capivo cosa volesse esprimere facevo delle domande di richiesta di
approfondimento, anche per essere sicura di aver interpretato bene il suo ragionamento o
semplicemente perché mi interessava saperne di più a tal proposito.
A parte tutto questo mi rendo conto di quanto sia determinante il ruolo dell’intervistatore nello svolgimento dell’intervista. Secondo l’approccio costruttivista nella ricerca sociale, l’intervista viene costruita assieme da intervistatore e intervistato: il suo esito dipende largamente dal legame empatico che si è instaurato tra i due interlocutori (Corbetta, 1999). L’intervistatore è chiamato a svolgere un ruolo attivo di orientamento dell’intervista dirigendo la conversazione secondo quelli che sono i suoi obiettivi di ricerca; nello stesso tempo deve fare attenzione che i suoi atteggiamenti di incoraggiamento o scoraggiamento non si trasformino in alterazioni del pensiero dell’intervistato o meglio della sua espressione. La funzione dell’intervistatore, soprattutto nelle interviste semi o non strutturate, è quella di portare “conforto e comprensione”, nel senso di dare all’intervistato un certo calore in un rapporto empatico e dimostrare che tutto quello che
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l’intervistato sta dicendo è per l’intervistatore di massimo interesse proprio perché lo sta dicendo in quel modo (Livolsi, 1964).
Come la ricerca qualitativa richiede, ho svolto le interviste faccia-a-faccia con le donne intervistate, ricreando il più possibile un setting adeguato, accogliente e riservato, registrando la conversazione.
In alcuni casi le ho svolte al Consultorio per il singolo, la coppia e la famiglia di Pergine Valsugana, utilizzando una stanza libera in quel momento. Altre volte le ho condotte nella struttura di accoglienza delle donne, gestita dalla Fondazione “Casa Padre Angelo” di Trento, altre volte presso l’abitazione privata delle intervistate. Sicuramente nei casi in cui sono andata a casa delle intervistate si creava fin da subito un rapporto particolare tra di noi, lei mi accoglieva a casa sua dimostrandomi già una certa apertura e fiducia nei miei confronti. Essere a casa propria le permetteva allo stesso tempo di sentirsi più a suo agio perché in un ambiente che conosceva molto bene e le permetteva di muoversi come meglio credeva anche in relazione alle esigenze del bambino. L’ho trovata la soluzione migliore per svolgere interviste di questo tipo, che richiedono un certo periodo di tempo e una certa predisposizione di animo soprattutto nella donna intervistata. Per quanto mi riguarda, dopo un’iniziale momento di imbarazzo nell’entrare nel privato di una persona fondamentalmente sconosciuta prima, rispondevo con profonda gratitudine e rispetto e ne approfittavo per catturare sentimenti e atteggiamenti dell’intervistata utili per la mia ricerca, cercando sempre di non essere troppo invadente. Inoltre penso che avere la possibilità di bere una tazza di tè assieme contribuisca a rendere più naturale e rilassata la situazione, rende più sottile la distinzione di ruolo e fa abbassare le difese create dall’imbarazzo, permettendo di entrare più facilmente in confidenza ricevendo delle risposte più sincere e personali. Fare l’intervista in un setting che rimanda ad un ruolo terapeutico o di aiuto, come può essere un ambulatorio, un ufficio, semplicemente avere una scrivania che divide intervistato e intervistatore, modifica la relazione tra i due e ricrea un’atmosfera non molto naturale e leggera, così da rendere faticoso l’entrare in sintonia e confidenza con l’intervistato. In questo caso risulta importante specificare i propri obiettivi e mission della ricerca che si sta svolgendo.
Per quanto riguarda la durata delle interviste, mediamente l’incontro durava tre quarti d’ora. Alcune interviste sono durate più di un’ora, altre una trentina di minuti, ma la maggior parte si assestava sui quarantacinque minuti. Ovviamente la presenza della mediatrice ha fatto allungare i tempi proprio per il doppio passaggio che la comunicazione doveva fare; anche eventuali interruzioni causa i bisogni dei bambini potevano far aumentare i tempi dell’incontro.
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