In generale sarebbe auspicabile investire sulla prevenzione e promozione del benessere, per non dover agire poi in situazioni di urgenza o di disagio conclamato.
Per fare prevenzione si potrebbe semplicemente usare lo strumento dell’ascolto e dell’osservazione, del dialogo con i soggetti considerati potenzialmente vulnerabili. Creare delle
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occasioni di scambio e confronto tra portatori delle stesse necessità o in situazioni particolarmente impegnative. Penso ad esempio agli incontri che varie realtà organizzano per i genitori di bambini in età evolutiva. Per quel che riguarda la mia ricerca ritengo che anche i corsi di preparazione alla nascita possano rientrare tra gli interventi preventivi, in quanto informano e aiutano la gestante a mettere in pratica fin da subito le buone prassi per instaurare un rapporto efficace tra mamma e neonato. A livello statistico, ma anche tra le intervistate nel mio lavoro di ricerca, si è visto come la partecipazione delle donne straniere sia molto bassa, seppur in aumento. Questo porta ad interrogarsi su questo aspetto per ipotizzarne le cause ed eventualmente creare le condizioni affinché aumenti la partecipazione ai corsi o ad altre attività che si possono considerare preventive. Leggendo a proposito dei corsi di accompagnamento alla nascita, ho trovato molto interessante un articolo che presentava i corsi multiculturali di accompagnamento alla nascita, organizzati dalla Cooperativa Sociale “Crinali. Donne per un mondo nuovo” A.R.L. Onlus, di Milano. Il senso di proporre gruppi multiculturali è quello di ridurre la vulnerabilità delle mamme facendo sperimentare loro dei legami sicuri, su cui potersi appoggiare con fiducia per trasmettere sicurezza anche al proprio bambino. A partire dall’assunto che i bambini vengono cresciuti secondo modalità che dipendono dalla visione del mondo e dalle tradizioni culturali, i professionisti socio-sanitari dovrebbero stare attenti a non svalutare i modi “altri” e non presentare, pur con le buone intenzioni, le loro modalità come le migliori (Dal Verme, Perez, Scolari, 2011). Gli obiettivi più caratterizzanti questa metodologia di corsi multiculturali tengono conto della componente culturale e del percorso migratorio di ogni partecipante; cercando di incoraggiare la trasmissione culturale tra mamma e bambino dando valore alle tradizioni e ai riti di protezione dei neonati che esistono in ogni cultura, favorendo l’uso della lingua madre. Inoltre questi corsi cercano di fare in modo che la partecipazione ad essi sia una tappa di alleanza all’interno di un percorso di cura individuale e integrato durante la gravidanza e il puerperio. Mi è sembrata una proposta interessante e utile, da proporre anche in provincia di Trento.
Come ho detto poco fa, creare occasioni di incontro e confronto agevola la conoscenza reciproca e fa diminuire il senso di insicurezza e isolamento percepito. Martinelli (1999) afferma che laddove cresce la libertà individuale di movimento e la possibilità di costruire reti sociali significative, l’emigrazione si trasforma in un’esperienza positiva nella vita quotidiana delle donne migranti, pur nelle molteplici difficoltà legate al passaggio da un contesto culturale a un altro, per sé e per la propria famiglia.
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Per far sì che la migrazione non porti necessariamente all’insuccesso o al disagio, occorre tener presente non solo il rischio, ma anche le opportunità che essa porta con sé. Se intrinsecamente la migrazione è una sfida e comporta riorganizzazioni sia pratiche che interiori, che richiedono capacità difensive ed adattive dell’individuo, essa è anche portatrice di potenzialità e arricchimento del sé. Sta agli operatori sociali, insegnanti, educatori, ecc. non patologizzare l’evento migratorio e sostenere le famiglie ed i singoli individui nelle sfide quotidiane (Martini, 2002). In questo senso io lo leggo come atto preventivo quello di cogliere e valorizzare le competenze, le abilità e le risorse di ogni persona, affinché la migrazione rappresenti una rinascita e non solo una perdita (o trauma).
Chinosi (2002) riconosce l’importanza della vita quotidiana come strumento di conoscenza e intervento con la popolazione immigrata:
“L’importanza di non isolare le tradizioni della vita quotidiana, banalizzandole o trasformandole in folklore, ma di collocarle in un percorso di pensiero scientifico per capirne il significato nella vita di coloro che le fanno proprie: l’intreccio tra la realtà psichica e quella sociale costruisce quello che Bleger (1989) chiama lo –schema di riferimento operativo- intendendo con questo termine la sedimentazione delle coscienze, tradizioni ed affetti con i quali l’individuo affronta l’esperienza del pensiero e dell’azione” (Chinosi, 2002 :29).
Durante la ricerca ho chiesto alle intervistate di raccontarmi le differenze che hanno notato a proposito delle pratiche messe in atto in gravidanza, durante il parto e nel puerperio, nel loro Paese di origine. Con l’obiettivo di farmi spiegare da loro, secondo la loro visione, usanze e modalità tipiche della loro cultura e ambiente di vita originario. Non pretendevo certo che mi dessero una spiegazione dettagliata e antropologica delle pratiche di cura materno- infantili legate a un certo luogo spazio temporale, non avevo lo scopo di trarne una descrizione oggettiva e completa da usare per omologare sotto una certa etichetta tutte le persone appartenenti a quella cultura e a quel luogo. Ho voluto aprire un piccolo varco nel passato di queste donne, nei loro ricordi, per capire anche vagamente che cosa significavano e come erano rappresentati nella loro mente, la gravidanza e il parto, prima di viverlo in Italia. Non intendevo mettere a confronto ricordi passati con l’esperienza vissuta oggi in Italia, ma porli gli uni accanto agli altri, per dare valore e riconoscimento ad entrambi. Le tradizioni legate al Paese di origine non rappresentano per queste donne il passato, ma sono il presente, come lo sono le pratiche di cura occidentali. Ho preso consapevolezza del fatto che nella mente di queste donne coesistono entrambe ed è giusto
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dare valore al mix che poi nella quotidianità si crea, evitando il più possibile di giudicare usando come metro di misura l’etnocentrismo.
Così nel lavoro sociale c’è la necessità di non cancellare il quotidiano, ma di cercare nuovi significati oltre il non detto che in genere lo accompagna, riconoscendo la complessità della sua costruzione e l’azione fondamentale dei meccanismi di identificazione proiettiva e introiettiva nel collegare il comportamento individuale con quello sociale (Chinosi, 2002).