Ci sono molti modi di essere padre e madre, tantissimi studi di sociologi, antropologi, psicologi, lo hanno dimostrato. La difficoltà per chi a vario titolo lavora con i genitori risiede nel fatto di lasciare spazio affinché le loro capacità emergano, evitando ogni giudizio sulla “maniera migliore” di essere padre o madre. Il compito degli operatori socio- sanitari è quello di permettere che le capacità emergano spontaneamente nei genitori, e di sostenerle. Elementi sociali e culturali partecipano alla costruzione della funzione genitoriale (Simonelli, 2014): gli elementi culturali hanno una funzione preventiva, permettono di prospettare in anticipo come diventare genitori e dare un senso alle trasformazioni quotidiane. Spesso questi elementi, che nell’immigrazione appartengono
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alla sfera privata poiché non sono condivisi con la società, finiscono a volte per contrapporsi alle logiche mediche, psicologiche, sociali. Raramente ci si interroga sulla dimensione culturale della genitorialità, ma soprattutto non si considera che queste maniere di pensare e di fare sono utili a stabilire un’alleanza, per capire, prevenire, curare (Moro e altri, 2010).
Pensare e dare valore a queste altre modalità di cura, ci obbliga a decentrarci e a rinunciare a giudizi affrettati, ma soprattutto permette alle donne straniere di vivere le tappe della maternità in maniera non traumatica e di familiarizzare con altre tecniche. Se non diamo la possibilità di confrontarci e di costruire assieme i significati e le motivazioni che stanno dietro le pratiche, rischiamo che queste donne non si inseriscano nei nostri sistemi di prevenzione e di cura e arrivino ad un irrigidimento nei nostri confronti. È necessario dare la possibilità alla madre e al padre di avere una rappresentazione culturalmente accettabile del protocollo ministeriale del sistema sanitario, così da permettere una strategia di passaggio da un sistema all’altro senza rinunciare alle proprie rappresentazioni (Moro e altri, 2010). “È il sapere di prima che mi aiuta ad avere fiducia nel mondo di poi” (ibidem, pag.17).
Lo hanno detto tra le righe tutte e tre le professioniste intervistate, per svolgere il proprio lavoro con le famiglie immigrate, è necessario un “decentramento culturale”. Inteso come un’attitudine interiore che si impara lentamente e presuppone di attribuire la stessa dignità e valore a tutte le culture. Si tratta quindi di un atteggiamento morale e filosofico, che pone sullo stesso piano tutti gli esseri umani, ma richiede allo stesso tempo di riconoscere il proprio condizionamento culturale. Ci si deve abituare ad avere fiducia che i comportamenti dell’altro abbiano una logica nella sua cultura, anche se a noi in un primo momento sfugge (Dal Verme, 2011).
Nella relazione d’aiuto l’operatore socio-sanitario si deve mettere in gioco anche come persona (saper essere). Solo se c’è un riconoscimento e si stabilisce una relazione empatica con l’altro il rapporto può funzionare. L’ascolto attivo è lo strumento per instaurare una relazione significativa, senza sostituirsi all’utente, ma per costruire uno spazio per riflettere insieme, tenendo conto della propria e altrui cultura (Coccia, 2017).
Un altro aspetto importante emerso dalle interviste con gli operatori, ma anche riconosciuto da qualche donna intervistata, è lo strumento della mediazione culturale.
La mediazione è creare un luogo in cui la relazione a due si trasforma e passa a tre poli comunicativi, con l’obiettivo di giungere alla definizione di una decisione in cui tutte le parti in
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causa esprimono un particolare interesse alla risoluzione del problema posto all’origine della mediazione (Cima, 2009).
La mediazione culturale dagli anni Novanta in poi è cresciuta molto, ora è praticata in molti contesti: scolastico, sanitario, sociale, educativo. Le modalità con cui si pratica la mediazione culturale possono essere molto differenti in base al contesto e ai soggetti con cui si lavora. È necessario quindi dare valore alla formazione degli operatori sulle tecniche e aspetti organizzativi di utilizzo di questo strumento fondamentale nella relazione con persone di provenienza differente. L’obiettivo è quello di ricercare come la mediazione in educazione possa mettere al mondo un pensiero che porti voce alle differenze costitutive di ogni essere umano. La mediazione culturale nasce da un’esigenza politica di regolare secondo politiche di integrazione gli immigrati nelle culture dei Paesi che li ospitano (Cima, 2009). Di conseguenza si sono attribuiti ai mediatori compiti ed aspettative molto spesso inadeguati.
“Si è ora alla ricerca di una composizione, tra pratica e teoria, di dispositivi di mediazione che rispondano sempre più non solo alle domande di inserimento, di accoglienza, ma anche di cura, di analisi delle situazioni sociali, di sostegno nei percorsi educativi” (ibidem, pag. 62).
Devo usare ancora le parole della Cima per esprimere un concetto e un’esigenza emersa dalle interviste ai professionisti, secondo il mio parere, fondamentali per il progredire del lavoro psico- sociale con persone provenienti da altri sistemi culturali:
“Le domande di cura dell’Altro appartengono ad altri sistemi educativi, ad altri sistemi di intendere gli individui e diventano in parte comprensibili solo a partire dall’analisi dei comportamenti dei loro attori, ma con le loro voci, con l’apporto diretto degli stessi (…) vi è ricchezza nel cercare di impostare un dialogo tra pedagogia ed altre discipline, e tra esse e quei saperi e pratiche che hanno espressioni differenti per dire il comportamento umano. (…) In educazione essa (la mediazione) non può stare dalla parte dei sofferenti e non può stare dalla parte di chi li cura, ma si offre e si presta per indirizzare gli sguardi di ciascuno verso se stessi e gli altri” (ibidem, pag.45 e 145).