Inevitabile a questo punto concentrarsi sul significato di identità e sulla sua costruzione, nel caso in cui si viva l’evento migratorio. Un ulteriore passo avanti è considerare l’identità anche in relazione all’evento nascita e al conseguente divenire genitore in un contesto di immigrazione.
La costruzione dell’identità si costruisce in relazione alla rappresentazione di se stessi nel tempo della quotidianità e in quello della propria storia passata.
Facendo riferimento alla “Social Identity Theory”, l’identità secondo la definizione di Tajfel è “quella parte dell’immagine che un individuo si fa di se stesso che deriva dalla consapevolezza di appartenere a un gruppo sociale, unita al valore e al significato emozionale associato a tale appartenenza” (1985, p.23).
L’identità ha infatti uno sviluppo mutevole, è un percorso in cui prende forma la propria autonomia personale rispetto ai gruppi sociali di appartenenza o di identificazione.
Secondo Sluzki “è un racconto che giace nella memoria di ognuno di noi anche quando non è mai stato raccontato” (1991). L’identità in tal senso appare connessa strettamente alle radici culturali e perciò può accadere che si tenda a preservarla con un’adesione rigida alle proprie consuetudini e tradizioni rischiando di non riuscire ad entrare in relazione con la società di accoglienza. Appare perciò importante riflettere sulle modalità attraverso cui l’identità del migrante può trasformarsi e ridefinirsi nell’interazione con altri soggetti e nel confronto con altre culture. La cultura infatti, non può essere circoscritta semplicemente ad un determinato contesto, ma anche al modo attraverso cui gli individui affrontano le sfide quotidiane (Fruggeri, 2005). L’appartenenza culturale, dunque, sembra prefigurarsi sempre più come uno dei criteri principali di definizione di sé ed un importante fattore per la convivenza interetnica, poiché “Il compito più difficile per chi migra sembra essere quello di saper costruire e gestire sintesi complesse, attribuire nuovi significati a oggetti e persone, ancora di porre in dialogo le molteplici differenze che si trova a vivere” (Gozzoli e Regalia, 2006, 158). La tematica che emerge intensamente è, dunque, quella della cura dell’identità culturale, delle proprie tradizioni, poiché è il senso di appartenenza che rende
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possibile il benessere psicologico e sociale del soggetto, a cui si aggiunge la speranza del ricongiungimento familiare che rende possibile il legame con le proprie origini.
Bauman (2004) considera l’identità come “palinsesto” che nella scelta della più opportuna soluzione adattiva, nella precarietà dell’esperienza, consente il mantenimento della continuità del Sé.
Nel contatto con società differenti vengono sperimentati cambiamenti che investono l’identità etnica, su cui stanno indagando recenti filoni di studi. Questi hanno messo in luce le difficoltà che le famiglie immigrate incontrano nel processo di adattamento al nuovo contesto di vita, il quale richiede una ristrutturazione dei ruoli familiari e il rischio di un indebolimento dei legami parentali, poiché i fenomeni migratori richiamano sia il bisogno di identificarsi con la propria storia che, soprattutto, quello di conservare una propria identità e di negoziare identità multiple (Migliorini e Rania, 2008).
Per la famiglia migrante, la possibilità di costruire una nuova e sovra-ordinata identità culturale in grado di armonizzare le diverse appartenenze, prepara i presupposti di un buon adattamento psicosociale di tutti i suoi membri (Phinney e Ong, 2007).
Le donne intervistate nel mio lavoro quindi sono investite da un doppio sconvolgimento identitario in quanto donne immigrate e donne divenute madri, entrambi eventi che necessitano degli aggiustamenti a proposito della definizione di sé.
Per le donne, ad una grande trasformazione dell’identità soggettiva (portata dalla migrazione), corrisponde anche la trasformazione del proprio ruolo nella società ed un’altra percezione della femminilità nel nuovo contesto sociale. Le donne immigrate devono sviluppare delle forme di comportamento nuove, che non sono né quelle del paese di origine, né quelle del paese di arrivo. Devono riuscire a reinterpretare il loro ruolo femminile e il loro ruolo all’interno della famiglia, cercando di coniugare i due modelli e di farli convivere (Favaro, Tognetti Bordogna, 1991).
Le tensioni e le contraddizioni legate a questo processo sono molte: l’aspirazione è quella di mantenere allo stesso tempo la propria identità di donna, l’identità nazionale e contemporaneamente mantenere un certo grado di emancipazione. Generalmente non esiste un conflitto reale tra tradizione e integrazione, proprio perche le donne si pongono come naturali mediatrici di possibili conflitti (Guidetti, 2003).
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L’identità di donna subisce un’ulteriore scossa quando entra in gioco la maternità. Il cambiamento dell’identità, presente nella maternità, implica un grande lavoro psichico che dovrebbe condurre le donne a proseguire, nell’itinerario della propria esistenza, inoltrandosi nel presente, separandosi dal passato e camminando verso il futuro. In questo complesso percorso esistenziale, è necessario attuare delle reti di sostegno, che siano capaci di accogliere le silenziose richieste di aiuto delle madri sia nel periodo gestazionale sia dopo la nascita del piccolo. Intervenire sulle donne in difficoltà presuppone la capacità di accogliere e contenere lo spazio della relazione futura della madre con il proprio bambino. Ciò è fondamentale affinché la strutturazione del sé bambino non subisca un danno (Schirone, 2010).
La gestazione comporta un dialogo silenzioso e segreto con il bambino futuro, ma anche con il proprio sé infantile e con la propria figura materna. Secondo Winnicott (1987), quando la madre è sufficientemente sostenuta da un sano holding ambientale, le capacità materne ne risultano arricchite e si mantengono vive in lei le risorse fondamentali affinché il bambino esperisca il senso della continuità dell’esistenza.
Quindi la nascita di un bambino dovrebbe coinvolgere non solo i genitori, ma anche i famigliari e amici che gli stanno vicini e che li sostengono in questo arduo compito. Questo non è così scontato nella nostra società di oggi, dove l’individualismo ha portato con sé un indebolimento dei legami sociali (non virtuali) e una responsabilizzazione forte dei genitori: solamente su di essi dipende la buona crescita dei figli. Le donne immigrate che si trovano spesso con una carente rete affettiva accanto, pur riconoscendone la sua importanza, devono trovare delle strategie, spesso non facili, per espletare il compito di madre e donna immigrata.
In generale per tutti i neogenitori, la relazione genitoriale diventa essenziale per la costruzione dell’identità. L’investimento sentimentale sull’infanzia ha rilevanti implicazioni per il cambiamento del ruolo genitoriale e in particolare materno. Ai bambini è riservato un posto in un ambiente domestico sempre più intimo e sacro; la sacralizzazione dell’infanzia e la crescente importanza della funzione socializzatrice delle donne in ambito domestico si rinforzano a vicenda. In più si aggiunge una crescente specializzazione della maternità che diviene un’attività a tempo pieno e richiede non solo istinto, ma anche competenze specifiche (Zelizer, 1985 in Sabatinelli, 2016).
L’invenzione della maternità come combinazione inscindibile di sapere esperto, naturale inclinazione e devozione illimitata è una costruzione sociale propria della modernità, che struttura
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le responsabilità parentali e distingue il ruolo materno da quello paterno; individuando l’insostituibilità della funzione materna nel rapporto con i figli.
Oggi le identità sociali di uomini e donne si definiscono attraverso ambiti relazionali più ampi rispetto alla semplice parentela e famiglia, l’obbligo a procreare non ha più alcun fondamento, è spinto da una motivazione individuale, si parla di paternità e maternità come scelta: è il singolo individuo che si assume la responsabilità di essere genitore. Sottolineando ancora una volta che l’abbandono della protezione della tradizione ha avuto come conseguenze la problematizzazione della procreazione e la richiesta (implicita?) di competenze, non solo affettive, che non possono più essere attinte dal sapere delle generazioni precedenti né da modelli di riferimento chiari e condivisi. Risulta quindi forte il bisogno di confronto, di informazioni, di condivisione di esperienze, che non ha nulla di patologico o problematico e che non è una delega alle istituzioni extra- famigliari (Di Nicola, 2002). Aggiungiamo anche che questo bisogno di comparazione e rassicurazione è orientato anche ad una dimensione culturale che è ben presente nel evento nascita e poi nell’educazione dei figli. Nel prossimo paragrafo descriverò la funzione genitoriale sottolineando le sue componenti biologiche e culturali.