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La confisca (e il profitto confiscabile) nel sistema di responsabilità degli ent

LA CONFISCA DI BENI “DETERMINATI”

3. La confisca per equivalente

3.1. Talune ipotesi speciali di confisca per equivalente

3.1.1. La confisca (e il profitto confiscabile) nel sistema di responsabilità degli ent

Vigente il principio societas delinquere non potest, si deve escludere che un soggetto privo di responsabilità penale, quale la persona giuridica, possa integrare il presupposto di “non estraneità al reato” rilevante ai fini della confisca306

, nonostante qualche pronuncia giurisprudenziale si spinga ad estendere l’ambito di operatività dell’art. 240 c.p. agli enti307.

Ad assicurare che le pretese ablatorie dello Stato non rimangano prive di attuazione nel caso in cui la persona fisica, materialmente autrice del reato, non sia, per qualche ragione, patrimonialmente aggredibile308, interviene il d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231 (“Disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica, a norma dell’articolo 11 della legge 29 settembre 2000, n. 300”). Nel disciplinare la responsabilità dell’ente per i reati di cui agli artt. 24 e ss., commessi, ai sensi dell’art. 5, nel suo interesse o a suo vantaggio, da persone che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione, o che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo, o, ancora, che sono sottoposte alla direzione o

305 V. Cass., sez. III, 3 dicembre 2012, n. 46726, Cass., sez. III, 16 maggio 2012, n.

30140 e Cass., sez. III, 15 aprile 2015, n. 20887.

306 V., per tutti, ALESSANDRI, Confisca, op. cit., pag. 55, secondo cui “allargare la

nozione di persona estranea alla persona giuridica nella quale è incardinato l’autore del fatto […] tradisce un’antiquata visione antropomorfica della persona giuridica”.

307 Cass., 8 luglio 1991, Capital Finanziaria Italiana; Cass., 18 novembre 1992,

Tappinari; Cass., sez. III, 29 marzo 2001, Mingione.

308

alla vigilanza di uno dei soggetti collocati in posizione apicale, il nuovo sistema normativo prevede diverse fattispecie di confisca obbligatoria e per equivalente, applicabili anche in sede di esecuzione (ex art. 74 lett. d). Anzitutto, ai sensi dell’art. 6 c. 5, quando il reato sia stato commesso da soggetti “apicali”, è obbligatoria la confisca, anche nella forma per equivalente, del profitto che l’ente ha tratto dall’illecito, pur nel caso in cui la persona giuridica risulti esente da responsabilità per aver predisposto ed efficacemente attuato modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi. Dal canto suo, l’art. 15 c. 4, da leggersi in combinato disposto con l’art. 79 c. 2, prevede che, in caso di gestione commissariale disposta in luogo di una sanzione interdittiva che determinerebbe l’interruzione dell’attività dell’ente, venga confiscato il profitto derivante dalla prosecuzione dell’attività stessa e, dunque, lecito. Ancora, ex art. 17, anche quando ponga in essere condotte riparatorie che lo esimono dall’applicazione di sanzioni interdittive, l’ente è comunque tenuto a mettere a disposizione il profitto del reato per la confisca; a fortiori, ai sensi dell’art. 23 c. 2, è disposta la confisca del profitto in caso di inosservanza degli obblighi o dei divieti correlati ad una sanzione o ad una misura cautelare interdittiva. Infine, in via generale, in forza dell’art. 19 – e con la possibilità di applicare, ai sensi dell’art. 53, il relativo sequestro preventivo309– “nei confronti

dell’ente è sempre ordinata, con la sentenza di condanna, la confisca del prezzo o del profitto del reato, salvo che per la parte che può essere restituita al danneggiato, […] salvi i diritti acquisiti dai terzi in buona fede”, e, quando non vi siano le condizioni per eseguire in via diretta la confisca, “la stessa può avere ad oggetto somme di denaro, beni o altre utilità di valore equivalente al prezzo o al profitto del reato”.

309 Sulla portata afflittiva del sequestro preventivo, tale da determinare un’

“interdizione di fatto” dall’attività di impresa, v. FONDAROLI, Le ipotesi speciali di

Dalla lettera della legge si desume in maniera univoca la qualificazione della confisca come sanzione (punitiva): invero, tutte le fattispecie – escluso l’art. 6, che, applicandosi in assenza di responsabilità, costituisce un’autonoma “eccezione alla regola generale”310 – sono disciplinate nell’ambito della sez. II, rubricata “sanzioni in generale”; per di più, l’art. 9 annovera espressamente la confisca tra le “sanzioni amministrative” applicabili agli enti in dipendenza da reato (ordinariamente soggette a prescrizione, ai sensi dell’art. 22, nel termine di cinque anni dalla consumazione del fatto); e, se non bastasse, la Relazione ministeriale di accompagnamento311 al decreto chiarisce, con riguardo all’art. 19, che è

di particolare rilievo la sanzione della confisca, irrogabile con la sentenza di condanna, che si atteggia a sanzione principale e obbligatoria. Essa viene configurata sia nella sua veste tradizionale, che cade cioè sul prezzo o sul profitto dell’illecito, sia nella sua forma “moderna”, quella “per equivalente”, in vista di una più efficace azione di contrasto contro la criminalità del profitto.

Secondo la giurisprudenza di legittimità, conformemente, la fattispecie di cui all’art. 19 si configura come “sanzione principale, obbligatoria e autonoma rispetto alle altre previste nel decreto in esame”: “concepita come misura afflittiva che assolve anche una funzione di deterrenza, risponde sicuramente ad esigenze di giustizia e, al contempo, di prevenzione generale e speciale, generalmente condivise” 312. Nella medesima decisione è definita “sanzione principale” anche l’ipotesi dell’art. 23, mentre alla confisca di cui

310 Così EPIDENDIO, op. cit., pag. 397, secondo cui la previsione dell’art. 6

conferma la natura sanzionatoria delle altre fattispecie di confisca, dal momento che se è necessario specificare che una misura si applichi in assenza di responsabilità, evidentemente, a contrario, il suo regime ordinario richiede il presupposto della responsabilità.

311 Reperibile integralmente all’indirizzo: http://www.studiolegale231.it/relazione%

20ministeriale% 20231. 01.asp.

312

all’art. 15 c. 4 – finalizzata ad assicurare che l’ente non sia “messo nelle condizioni di ricavare un profitto dalla mancata interruzione un’attività che, se non avesse avuto ad oggetto un pubblico servizio, sarebbe stata interdetta”313 – si riconosce natura di “sanzione sostitutiva” della misura interdittiva314. Del tutto “eccentrica” sarebbe,

invece, la figura di cui all’art. 6 c. 5, potendovisi scorgere non già funzioni sanzionatorie, né preventive, bensì “più semplicemente la fisionomia di uno strumento volto a ristabilire l’equilibrio economico alterato dal reato dal reato-pressupposto”315.

Quanto a quest’ultima fattispecie, tuttavia, l’innegabile funzione ripristinatoria non sembra sufficiente ad escludere l’inquadramento in termini di sanzione punitiva, applicabile in difetto di colpevolezza. L’impressione, cioè, è che il legislatore consideri “rimproverabile” l’ente che, pur senza culpa in vigilando, si sia prestato a divenire

humus di un agire illecito, e, per questa ragione, non gli consenta di

godere dei frutti che ha ricavato dal reato:

in buona sostanza, l’ente “non ha fatto abbastanza” per impedire il reato, e siccome questo è stato commesso, se non (sempre) nell’interesse dell’ente, quanto meno (quasi sempre) a suo vantaggio”, esso non può uscire indenne dalla vicenda criminosa, altrimenti “l’incentivo alla moralizzazione spontanea dell’impresa” che sta alla base dei modelli comportamentali imposti dalla legge potrebbe risultare privo di qualunque efficacia. […] In tale contesto, la confisca di cui all’art. 6 c. 5 si giustifica come sanzione diretta a colpire il profitto eventualmente conseguito dall’ente a prescindere dalla responsabilità di quest’ultimo, e opera come strumento di “punizione”

313 Precisamente, l’art. 15 c. 1 prevede che la prosecuzione dell’attività possa essere

disposta dal giudice quando: “a) l’ente svolge un pubblico servizio o un servizio di pubblica necessità la cui interruzione può provocare un grave pregiudizio alla collettività; b) l’interruzione dell’attività dell’ente può provocare, tenuto conto delle sue dimensioni e delle condizioni economiche del territorio in cui è situato, rilevanti ripercussioni sull’occupazione”.

314

Non vediamo, ad ogni modo, la necessità di una simile distinzione: il carattere sostitutivo della fattispecie non sembra escludere che, una volta irrogata, essa rivesta il carattere di sanzione principale (tanto più che tale è già la sanzione interdittiva sostituita).

315

fondato sull’ “appartenenza” del reo all’ente e sul conseguimento (incolpevole), da parte di questo, di un profitto […]316

.

Si tratta, a questo punto, di analizzare il significato della nozione di “profitto confiscabile” nel sistema di responsabilità degli enti: questione ermeneutica, questa, di considerevole interesse pratico, anche in ragione delle sue ripercussioni in tema di confisca nei confronti delle persone fisiche.

Al quesito risponde la Cassazione a Sezioni Unite317, approdando a soluzioni diverse in dipendenza dei presupposti applicativi delle varie ipotesi di confisca.

Con riguardo alla fattispecie di cui all’art. 15 c. 4, la Corte adotta il principio del netto, trattandosi di un profitto derivante da attività lecita (la gestione commissariale), rispetto al quale viene meno ogni nesso di pertinenzialità al reato. Una simile soluzione, invero, sembra l’unica ammissibile, giacché, essendo il patrimonio attuale dell’ente contestualmente aggredito con la sanzione pecuniaria e con la confisca “ordinaria” del profitto illecito, il principio del lordo darebbe luogo ad un indebito aggravamento del carico afflittivo in relazione ad un unico illecito presupposto. A differenza delle altre fattispecie di confisca, infatti, in questo caso il riequilibrio patrimoniale non ha la funzione di sanzionare l’attività dalla quale i profitti confiscabili derivano, ma la precedente condotta illecita, ricollegandovi, come conseguenza negativa, la preclusione di godere dei frutti dell’attività – lecita – successivamente posta in essere.

Per inciso, evidenziamo che un’analoga esigenza non ci sembra ravvisabile nella confisca di cui all’art. 6 c. 5318

, se è vero che essa

316 FONDAROLI, Le ipotesi speciali di confisca, op. cit., pagg. 329-331.

Tralasciando ulteriori approfondimenti sul tema – oggetto di un complesso dibattito, inerente anche la natura della responsabilità dell’ente – rimandiamo alle pagg. 325 e ss.

317 Cass., SS.UU., 2 luglio 2008, cit. 318

Contra, NOCETI –PIERSIMONI, op. cit., secondo cui l’art. 6 c. 5 configura, analogamente all’art. 15 c.4, un’ipotesi di confisca da attività lecita; v. anche

mira a punire l’ente in seguito ad un reato rispetto al quale esso abbia rappresentato, per così dire, l’“occasione”. Tuttavia, stante la violazione del principio di colpevolezza sottesa alla norma, non resta che invocare il principio del netto, per scongiurare, quantomeno, esiti eccessivamente repressivi.

In relazione alla fattispecie di cui all’art. 19, il Supremo Collegio adotta, in prima battuta, il concetto di profitto lordo319, inteso come “complesso dei vantaggi economici tratti dall’illecito e a questo strettamente pertinenti, dovendosi escludere, per dare concreto significato operativo a tale nozione, l’utilizzazione di parametri valutativi di tipo aziendalistico”; del resto, come osservato dalla Corte stessa in altra sede320, “se si accetta la tesi secondo la quale il profitto del reato ex art. 19 d.lgs. 231/2001 coincide con l’utile netto del reato, si perviene all’azzeramento dei rischi economici connessi alla perpetrazione di illeciti penali, dal momento che, in ipotesi di confisca, l’ente si limiterà a non guadagnare nulla”, senza subire alcuna perdita.

Poco oltre, però, si ha cura di precisare che “la delineata nozione di profitto del reato s’inserisce – certo – validamente, senza alcuna possibilità di letture più restrittive, nello scenario di un’attività totalmente illecita”, mentre è opportuno “distinguere da quest’ultima, specialmente nel settore della responsabilità degli enti coinvolti in un rapporto di natura sinallagmatica, l’attività lecita d’impresa nel cui ambito occasionalmente e strumentalmente viene consumato il reato”321; potremmo aggiungere, anche alla luce dello spirito “promozionale”, più che afflittivo, a cui si informa l’intero impianto MAUGERI, Le moderne sanzioni patrimoniali, op. cit., pag. 156, e EAD., Relazione

introduttiva, op. cit., pag. 27.

319

Già sancito, in una versione particolarmente rigorosa, da Trib. Napoli, sez. Riesame, ord. 6 ottobre 2007, Impregilo, uno dei casi sui quali deciderà la sentenza delle SS.UU. in esame.

320 Cass., sez. II, 24 gennaio 2008, n. 4018. 321

Già Cass., sez. II, 24 gennaio 2008, cit., avverte l’opportunità di una distinzione “tra ciò che è profitto del reato (e che deriva da attività illecita i cui costi non sono, ad avviso di questo Collegio, deducibili) e quanto deriva invece dalla attività lecita svolta dall’impresa”. Conformi Cass., sez. II, 8 ottobre 2010, n. 39239, Cass., sez. VI, 15 febbraio 2011, n. 17064, Ciummo.

del d.lgs. 231322, nonché per scongiurare gli esiti di “iperdeterrenza” che deriverebbero da un indiscriminato livellamento verso l’alto delle sanzioni 323.

Invero, se si guarda al negozio giuridico che, sul piano civilistico, costituisce titolo dello spostamento patrimoniale tra le parti,

nel caso in cui la legge qualifica come reato unicamente la stipula di un contratto a prescindere dalla sua esecuzione, è evidente che si determina una immedesimazione del reato col negozio giuridico (c.d. “reato contratto”) e quest’ultimo risulta integralmente contaminato da illiceità, con l’effetto che il relativo profitto è conseguenza immediata e diretta della medesima ed è, pertanto, assoggettabile a confisca. Se invece il comportamento penalmente rilevante non coincide con la stipulazione del contratto in sé, ma va ad incidere unicamente sulla fase di formazione della volontà contrattuale o su quella di esecuzione del programma negoziale (c.d. “reato in contratto”), è possibile enucleare aspetti leciti del relativo rapporto, perché assolutamente lecito e valido inter partes è il contratto (eventualmente solo annullabile ex artt. 1418 e 1439 c.c.), con la conseguenza che il corrispondente profitto tratto dall’agente ben può essere non ricollegabile direttamente alla condotta sanzionata penalmente324.

Non si deve pensare, però, che da una simile premessa discenda, nel caso dei “reati in contratto”, l’intangibilità dell’intero profitto derivante dallo svolgimento della “fisiologica dinamica contrattuale”: secondo la Corte, infatti, così come, per espressa previsione dell’art. 19, è escluso che la confisca si applichi “per la parte che può essere restituita al danneggiato”, non è certamente sottoponibile ad ablazione un quantum

322 MAUGERI, Relazione introduttiva, op. cit., pag. 21. 323

BOTTALICO, op. cit., pag. 1753.

324 La Corte aggiunge che il reato di cui si controverte nel caso di specie – truffa

aggravata ai danni dell’ente pubblico, cui consegue l’attribuzione di un appalto all’ente – rappresenta un “reato-in contratto”, “considerato che il legislatore penale non stigmatizza la stipulazione contrattuale, ma esclusivamente il comportamento tenuto, nel corso delle trattative o della fase esecutiva, da una parte in danno dell’altra”: ne consegue che, finché esso non è annullato o rescisso per volontà della controparte, a norma delle leggi civili costituisce un valido titolo di acquisto del profitto.

corrispondente all’“effettiva utilità eventualmente conseguita dal danneggiato nell’ambito del rapporto sinallagmatico con l’ente”, per evitare tanto un aggravamento del sacrificio economico imposto al reo, contrario al principio di proporzione, quanto un’iniusta locupletatio dell’amministrazione statale committente325; tuttavia, l’eventuale

residuo326 rappresenta un “vantaggio economico di diretta e immediata derivazione causale dal reato […]” e, in quanto tale, va ritenuto confiscabile.

Si può osservare, però, che la distinzione tra “reati-contratto” e “reati in contratto” non solo non valorizza adeguatamente le situazioni in cui, indipendentemente dall’utilità conseguita dalla controparte, l’adempimento degli obblighi contrattuali si sia risolto, per il reo, in una complessiva perdita327, ma sembra, inoltre, suscettibile di approdare a conclusioni aberranti, lesive del principio di uguaglianza328: nel caso in cui titolo del rapporto fosse, ad esempio, un patto corruttivo, nonostante il reo eseguisse delle prestazioni – sostenendone i relativi costi – in favore della controparte, e questa si trovasse a beneficiare, dunque, di concrete utilità, al primo non sarebbe

325

Presumibilmente, nel senso che se essa acquisisse, attraverso la confisca, l’intero corrispettivo della prestazione ricevuta, si troverebbe non solo a beneficiare gratuitamente di un’utilità, ma, per di più, ove il corrispettivo pattuito fosse superiore al valore della prestazione, a conseguire un surplus di arricchimento.

326

Come illustra EPIDENDIO, op. cit., pag. 126, “ciò che viene sottratto alla confisca non è la prestazione ottenuta dall’ente responsabile in forza del contratto (cioè il corrispettivo pattuito e nella specie artificiosamente aumentato per il reato di truffa), ma il valore della prestazione comunque ricevuta e accettata dal committente. Su questi aspetti, cfr. BEVILACQUA, Francesca Chiara, La natura problematica del

profitto confiscabile nei confronti degli enti, in R.i.d.p.p., 2, 2009, pag. 1132 e ss.,

secondo cui il principio del netto adottato dalla Corte, consistendo nella decurtazione del beneficio goduto dalla controparte vittima, non coincide con quello “tradizionale”, inteso come scomputo dei costi sostenuti dal reo (ricordiamo, a tal proposito, il precedente Cass., sez. VI, 23 giugno 2006, n. 32627, La Fiorita Scarl, che, confrontando la nozione di “profitto di rilevante entità” ex art. 13 con quella contemplata dalle fattispecie di confisca di cui agli artt. 19, 15, comma 4 e 17 comma 1, lett. c), conclude che, nel secondo caso, debba intendersi come “immediata conseguenza economica dell’azione criminosa, che può corrispondere all’utile netto ricavato”).

327

ROMANO, Confisca, responsabilità degli enti, op. cit.

328

consentito neppure di incamerarne il giusto valore, essendo il negozio giuridico presupposto un “reato-contratto”329

.

È anche vero, di contro, che, se si legittimasse l’adozione del principio del netto anche per i “reati-contratto” in maniera indiscriminata, si potrebbe arrivare all’esito paradossale di ritenere non confiscabile il profitto della ricettazione solo perché nella sfera giuridica della controparte, transitandovi la res, si realizza un risultato positivo.

Potrebbe essere più opportuno, forse, affrancarsi dalla qualificazione del contratto a monte, e guardare, piuttosto, al contenuto della singola prestazione resa in favore della controparte, indipendentemente dal fatto che abbia trovato nel reato la sua remota

condicio sine qua non: se il contenuto è lecito, in ogni caso il

corrispettivo del suo valore (da calcolare, probabilmente, avendo riguardo anche ai relativi costi sostenuti dal reo, che, in questo modo, potrebbero recuperare la loro tradizionale rilevanza, sottaciuta, nel caso di specie, dalla Corte), escluso l’eventuale surplus illecitamente lucrato, costituisce la legittima controprestazione di un rapporto sinallagmatico e va ritenuto non confiscabile330; diversamente, si introdurrebbe nell’art. 19 un’ipotesi di confisca del profitto lecito, assolutamente refrattaria al principio di legalità.

Una simile conclusione sembra discendere, lo ribadiamo, dalla funzione punitiva che il legislatore stesso – seguito dalla giurisprudenza – riconosce a questa fattispecie; una funzione, che, in realtà, ci sembra condivisa da tutte le declinazioni assunte dalla confisca nel sistema di responsabilità degli enti: tanto dall’ipotesi di

329

Sulla quantificazione del profitto derivante da appalto aggiudicato all’ente a seguito di accordo corruttivo (nel senso della deducibilità dei costi), FORNARI, La

confisca del profitto nei confronti dell’ente responsabile di corruzione, op. cit.

330 Potrà essere, piuttosto, sottoposto a tassazione: v. ACQUAROLI, op. cit., pagg.

178-179, il quale, però, si richiama al c. 4 bis art. 14 l. l. 24 dicembre 1993, n. 537, per escludere la deducibilità dei costi, in quanto sostenuti per la commissione del reato o comunque ad esso riconducibili; sembra che ad una diversa conclusione si possa arrivare considerando i costi relativi ai c.d. “aspetti leciti del rapporto” altrettanto “leciti”.

cui all’art. 23 c. 2, che trova il suo presupposto nell’inosservanza della misura interdittiva, quanto da quella di cui all’art. 15 c. 4, che interviene a sostituire una sanzione, nonché, infine, anche dalla controversa fattispecie di cui all’art. 6 c. 5, che sembra valorizzare profili di “rimproverabilità”, dell’ente, pur in assenza di formale “responsabilità”.

4. Cenni sulla confisca delle cose “obiettivamente” criminose: