Nonostante quanto introdotto nel 2019 con il Nuovo Codice della Crisi sia stato indicato come una forte novità, sotto certi aspetti pressoché assoluta, nel panorama giuridico italiano, le riflessioni e la tipologia di pensiero critico poste alla base della Riforma, frutto di un percorso evolutivo, trovano degli omonimi contributi nell’ambito dell’esperienza normativa sovra-nazionale, che già tempo prima del nostro Paese ha provveduto ad elaborare e mettere per iscritto degli strumenti legislativi idonei ad intercettare gli indizi dei possibili casi di crisi. Sarà pertanto nostro compito adesso compiere un analisi comparata di quanto previsto dal nostro legislatore rispetto a quanto contenuto negli ordinamenti esteri, mantenendosi sempre in materia di soluzione e composizione del dissesto in cui versa o può versare l’impresa.
La riflessione da cui occorre partire è quella per cui ancora oggi le procedure concorsuali rappresentano il territorio di elezione per eccellenza ai fini di promuovere azioni di responsabilità. Tuttavia non ha tardato a manifestarsi, nell’ambito della letteratura generale in materia, la voce di tutti quegli esperti che sono concordi nel sottolineare la maggiore
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centralità che le azioni risarcitorie hanno acquisito rispetto al passato, specie nei casi d i dissesto dell’impresa in forma societaria. Questo giustifica peraltro la tendenza mostrata dall’evoluzione dell’ordinamento giuridico nell’ampliare progressivamente la cerchia dei soggetti responsabili, in quanto capaci di influenzare anche indirettamente la gestione dell’impresa nel corso delle fasi di crisi, ma anche in quelle prodromiche alla stessa. Così si è riusciti a costruire un potenziale correttivo agli interventi restrittivi compiuti in passato dalla legge e dalla giurisprudenza in riferimento ai presupposti per le azioni revocatorie e alla legittimazione per l’esercizio dell’azione per concessione abusiva del credito. L’opportunità di fornire concrete risposte a simili esigenze è stata primariamente elaborata dagli ordinamenti stranieri. Se ne sono occupati i paesi di common law, di tradizione britannica, che per definizione attribuiscono alla giurisprudenza una portata vincolante per tutti i casi analoghi che si presenteranno in futuro, assumendo forza di legge. Nelle loro norme, pur non essendo ricompreso un obbligo formale degli amministratori per prevenire o evitare il concretizzarsi dell’insolvenza, si osserva una spiccata sensibilità verso il dovere di agire nell’interesse dei creditori in determinate circostanze. Negli Stati Uniti in particolare si è ritenuto che il principio dello “shareholder value maximization” operi soltanto in società in bonis, essendo necessario in caso contrario, di “proximity of insolvency”, ritenere come meritevole di tutela una variazione dell’obbligo degli amministratori nella direzione a cui rivolgere i loro doveri fiduciari, rivolgendosi maggiormente ai creditori. Ed è proprio partendo da tali premesse che negli USA è stata introdotta la figura della “deeping insolvency”, che si verifica a fronte di un prolungamento della vita di una società insolvente, nonostante l’incremento dell’esposizione debitoria. Sul fronte europeo invece è la Gran Bretagna a contemplare delle norme a tutela dei creditori tramite la fattispecie c.d. di “wrongful trading”. Di questa sono destinatari gli organi gestori della società se, nel corso dell’eventuale processo di liquidazione, risulti che questi fossero consapevoli dell’insussistenza di ragionevoli prospettive per la società stessa di evitare la procedura concorsuale e nonostante ciò non abbiano uniformato il proprio operato alla minimizzazione del potenziale danno nei confronti dei creditori. Si pensi che una tale disposizione era contenuta già nell’Insolvency Act del 1986, sezione 214. Lo scopo della stessa è quello di imporre un dovere di attivazione sia ai directors che ai c.d. “shadow directors” (ovvero coloro che nella sostanza pongono in essere atti o scelte attinenti alla gestione) in modo da creare un allineamento dell’operato di questi con l’interesse dei creditori sociali, ogni qual volta in cui la società si collochi in prossimità dell’insolvenza. Anche qui è ravvisabile lo sfavore del legislatore verso la mera continuazione dell’attività che comporti soltanto nuove passività o l’aumento di quelle preesistenti. La responsabilità che ne consegue può sorgere indipendentemente dallo stato di insolvenza, ovvero qualora non ricorrano concrete possibilità di sfuggire alla procedura concorsuale. Tuttavia, nell’ipotesi di manifestazione del dissesto, ciò non preclude agli amministratori di porre in essere tentativi di risanamento, specie là dove ricorrano possibilità tangibili di evitare la procedura concorsuale170. Sul fronte normativo dell’Europa continentale invece gli orientamenti assumono un carattere più
170 Riferimenti alla disciplina concorsuale britannica si trovano in “Adeguati assetti organizzativi e continuità
aziendale : profili di responsabilità gestoria” di V. De Sensi, pubblicato in “Rivista delle Società” Editore Giuffrè, 2017, Fascicolo n.2/3
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disomogeneo. La “Ley Concursal” spagnola all’art. 5 enuncia il dovere specifico per il debitore di presentare la richiesta di fallimento entro i due mesi successivi alla data in cui lo stesso viene a conoscenza o quanto meno avrebbe dovuto conoscere lo stato di insolvenza. Similmente alle disposizioni del diritto italiano, viene previsto un “concurso cupable”, dunque una responsabilità solidale per gli amministratori che abbiano generato o aggravato il dissesto, ipotesi che si presume nel caso di mancata richiesta di dichiarazione per l’avvio di una procedura. Diversamente si presenta il caso della Germania, nel cui ordinamento non sono contenute delle conseguenze sanzionatorie in capo ai gestori della società nel caso di mancata applicazione del dovere di proporre richiesta di fallimento nelle tre settimane che decorrono dal verificarsi dell’insolvenza, tutelando così i creditori sociali. Comunque si richiede agli amministratori di risarcire la società per tutti gli impieghi del patrimonio sociale eseguiti nelle tre settimane seguenti all’individuazione dei presupposti per il fallimento, ad eccezione di quegli atti compatibili con l’ordinaria diligenza di un gestore d’impresa coscienzioso. Il legislatore francese invece ha formalizzato il concetto di “action en responsabilité pour insuffisance d’actif”, che costituisce il contrappasso per la “faute de gestion”, ovvero la colpa insita nella condotta degli amministratori, i quali abbiano contribuito a ridurre le dotazioni patrimoniali nel corso della vita della società, a prescindere dall’avvicinamento allo stadio di insolvenza. La necessità di rafforzare gli strumenti a presidio della posizione dei creditori della società a fronte delle condizioni di difficoltà è stata fortemente avvertita perfino dai vertici dell’Unione Europea, che hanno cercato di elaborare una risposta in ottica unificatrice delle differenze insite nelle specifiche leggi dei vari Stati membri. Già con la II Direttiva CEE n. 77 del 1991, ai sensi dell’art. 17, veniva segnalato l’obbligo degli amministratori di procedere alla convocazione dell’assemblea generale degli azionisti nei casi di perdita grave del capitale sociale, in modo da valutare se fosse più conveniente dare avvio ad una procedura di scioglimento oppure intraprendere altri provvedimenti. Dal lato della prospettiva sanzionatoria è stato suggerito di produrre ed estendere una disciplina ispirata alla nota fattispecie del “wrongful trading” individuata dal diritto britannico, con lo scopo di consentire un livello equivalente di protezione ai creditori, superando le disuguaglianze e disparità di trattamento ravvisabili dallo studio delle legislazioni interne dei singoli Stati. Parte della dottrina ha cercato di chiarire la modalità con cui detta previsione potrebbe configurarsi, cioè imponendo agli amministratori, là dove risulti prevedibile che la società non possa adempiere alle proprie obbligazioni, una equilibrata e ragionata scelta tra la continuazione dell’attività previo risanamento della salute economico-finanziaria della stessa e la messa in liquidazione della società medesima. Il tratto innovativo dell’iniziativa è stato quello di rendere operativa tale soluzione già quando la società sia divenuta insolvente e non solo a procedura concorsuale già aperta, con un maggior valore preventivo. Peraltro la semplice esistenza di una ragionevole possibilità di evitare l’insolvenza non sarebbe sufficiente, richiedendosi in aggiunta la realizzazione di seri tentativi di ristrutturazione, al fine di aumentare il valore dell’impresa, tentando di realizzare il c.d. “turnaround” idoneo a scongiurare il dissesto, purché a rischio contenuto. Non mancano comunque di sollevarsi delle problematiche in materia, legate a due ordini di fattori. Per prima cosa non è agevole ex ante l’individuazione delle modalità di condotta che possano mettere al riparo dal rischio che le soluzioni adottate siano giudicate insufficienti. Secondariamente, la scelta operata dovrà poi relazionarsi con le varie regole a livello
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nazionale circa le responsabilità gestorie171. Sempre nell’orientamento volto a favorire la pretesa dei creditori sociali, da più parti dell’esperienza giuridica in campo internazionale si sono mostrate delle previsioni atte a realizzare un effetto di anticipazione del momento a partire dal quale siano percorribili le soluzioni alla crisi d’impresa. Un rilevante esempio ci viene fornito dalla novella della legge fallimentare slovena, per la quale l’imprenditore può eseguire l’accesso alle procedure volte alla ristrutturazione preventiva quando “è probabile che entro un anno diventi insolvente”, ai sensi dell’art. 44 d) comma 1, ZFPPIPP. Un tale principio è coerente con lo IAS 1, paragrafo 24, il quale prevede che nel determinare se il presupposto della prospettiva di continuità aziendale è applicabile la direzione dell’impresa deve tener conto di tutte le notizie disponibili su di un futuro relativo ad almeno, ma non limitato, ai dodici mesi dopo la data del bilancio. Tuttavia le fattispecie definibili come “indizi della probabilità di futura insolvenza” vi sono casi non univocamente riconosciuti dalla scienza aziendalistica come capaci di “segnalare in modo incontrovertibile” un’insolvenza prospettica172. Molto probabilmente delle attivazioni assai più tempestive
sarebbero assicurate dove si riconoscesse alle situazioni di crisi il significato semantico parificato a quello di “rischio di insolvenza”. Espressione quest’ultima che suona familiare poiché proposta già dalla Commissione Trevisanato alla base degli istituti di allerta. Se allarghiamo la valutazione oltre i confini italiani possiamo notare che una visione paragonabile si riscontra nell’ordinamento concorsuale tedesco, il quale tipizza a livello formale la c.d. “insolvenza imminente”. Essa sussiste ogni qual volta in cui “è prevedibile che il debitore non sarà in grado di adempiere alla scadenza le obbligazioni esistenti”. La stessa formula è disciplina nella già ricordata Ley Concorsual spagnola, che all’art. 2 comma 3 parla del debitore il quale “prova che non potrà soddisfare regolarmente e puntualmente le proprie obbligazioni”. Ancora, la legge portoghese va ad equiparare pienamente, ai fini dell’apertura delle procedure concorsuali, i concetti di insolvenza attuale e meramente imminente, come riporta l’art. 1 comma 2, del Codice dell’Insolvenza e del Recupero delle Imprese (c.d. “CIRE”). L’Insolvency Act invece ammette a partecipare allo strumento procedurale della c.d. “administration” la società che “rischia di non essere in grado di pagare i propri debiti”. Per completezza occorre ricordare però che perfino il nostro legislatore ha tentato, pur non con carattere di organicità, di tradurre in legge un simile assunto. Infatti il D. Legisl. n. 175 del 2016, meglio noto come Testo Unico delle società partecipate, all’art. 6 comma 2 sancisce che le società a controllo pubblico debbano redigere “specifici programmi di valutazione del rischio aziendale”. Dunque ecco che ritorna il concetto di rischiosità, elemento peraltro in grado di accrescere le attività di monitoraggio richieste in seno al collegio sindacale, chiamato a vigilare con attenzione sul sistema di prevenzione e gestione della crisi173.
171 La riflessione è tratta da G. Carmellino, “Le condotte e le responsabilità degli organi sociali nella crisi
d’impresa”, pubblicato in Rivista di Diritto Societario, 2/2016
172 Come afferma Ranalli, in “Gli indicatori di allerta nel testo del disegno di legge delega della riforma
fallimentare approvato dalla camera; esame critico; rischi per il sistema delle imprese”, pubblicato su ilcaso.it, 2017, 2
173 Sul punto si veda Bozza-Cafaro, “La crisi delle società partecipate pubbliche e le implicazioni sulle attività
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L’importanza di trattare il confronto con ordinamenti giuridici diversi da quello italiano si mostra in tutta la sua rilevanza se si pensa all’evoluzione storica che nel tempo ha conosciuto il pensiero nomo-filattico in tema di gestione della crisi d’impresa. Già infatti dal 2005 il nostro legislatore, parallelamente all’idea di favorire con maggior vigore l’interesse alla prosecuzione dell’attività d’impresa, ha cominciato ad assumere un approccio c.d. “benchmark”, realizzando una analisi generale delle disposizioni in vigore all’estero per cercare di trarne i migliori spunti per aumentare l’efficienza del diritto concorsuale. Gli Stati Uniti hanno rappresentato il punto di partenza di tale filone di studi, specie per l’obiettivo di mantenimento della continuità aziendale, potenziando sul piano normativo il concetto di efficienza allocativa delle risorse presenti nel sistema economico, ovvero indirizzando le stesse verso le imprese dal maggior potenziale competitivo. Può essere utile a tal proposito guardare con interesse al percorso evolutivo compiuto dalla giurisprudenza del Delaware, che individua il parametro di riferimento per gli istituti di gestione anticipata della crisi nel diritto commerciale americano. I giudici di detta corte si pronunciarono, nel 1991, sul caso “Credit Lyonnais Bank Netherland”, divenuto famoso per la celebre Nota n.55. Quest’ultima affermava infatti che, nelle situazioni di vicinanza allo stato di insolvenza, il principio già citato della massimizzazione di valore per i partecipanti al capitale di rischio, shareholders, viene sostituito dalla prospettiva c.d. “enterprise maximization”, di più ampio respiro in quanto impattante anche sugli interessi dei creditori. Data la capacità delle sentenze di adempiere ad una funzione di diritto positivo in common law, la questione sollevata fornì un rilevante appoggio per l’avvio di una cospicua serie di azioni di responsabilità da parte di soggetti prestatori nei confronti delle imprese in difficoltà. Tale scenario ha finito per influenzare profondamente la natura delle decisioni assunte dagli organi di gestione nelle situazioni di avvicinamento al dissesto. Si sono allora rese necessarie delle successive pronunce, in particolare la vicenda del 2007 relativa alla North American Catholic Educational Programming Foundation Inc., con cui la stessa corte ha fortemente ridimensionato l’approccio precedente, puntualizzando che nel caso precedente il passaggio ad una visione di tutela degli interessi gravitanti attorno all’impresa in senso lato era stata promossa al fine di scoraggiare gli amministratori dall’adozione di strategie di tipo “risk taking” avanzate dai soci. Da qui si comprende come i doveri fiduciari assegnati all’organo gestorio debbano operare in qualità di strumento protettivo dalle pressioni eventualmente provenienti dalla compagine sociale. La centralità del presidio delle esigenze del ceto creditorio, considerate in qualità di approccio comportamentale obbligatorio da parte degli amministratori nei contesti di crisi, trova una ulteriore conferma all’interno dell’ordinamento giuridico britannico. Ci stiamo riferendo alla responsabilità per atti di c.d. “wrongful trading”, disciplinata alla sec. 214 dell’Insolvency Act. Qui vengono sancite due condizioni, il cui verificarsi serve a qualificarne la fattispecie :
1) La società in oggetto deve essere stata dichiarata fallita;
2) Gli amministratori non hanno assunto tutte le misure necessarie per limitare il consequenziale pregiudizio ai creditori, nonostante essi sapessero, o quantomeno avrebbero dovuto sapere dell’assenza di una ragionevole possibilità per l’impresa di evitare la messa in liquidazione.
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Come ogni disposizione che regola un’azione di responsabilità verso i gestori dell’impresa, il rimedio applicabile si colloca in un’ottica ex post rispetto alla condotta lesiva. Tuttavia, con un eminente funzione di deterrente, tenta di evitare ex ante che si realizzi un’impropria traslazione del rischio sui creditori. Sempre dalla tradizione normativa dei Paesi di common law sono stati formulati quegli orientamenti dottrinali che auspicano con forza ad un mantenimento della titolarità effettiva del complesso aziendale in mano all’imprenditore nei casi di dissesto, c.d. “debtor in possession”. Ciò apre ad una serie di considerazioni legate alla valutazione del grado di serietà ed efficacia degli atti posti in essere dal medesimo. Nell’ordinamento nazionale opera il principio dello spossessamento, affiancato dall’obbligo di mantenere una sola gestione prettamente conservativa del patrimonio richiesto agli amministratori nei casi in cui si manifesti una causa legittima di scioglimento, ai sensi dell’art. 2486 cc. Uniche eccezioni, idonee a sterilizzare quanto detto, si riscontrano nei casi in cui il tribunale autorizzi alla continuazione di una determinata attività ai fini di produrre maggiori utilità per la soddisfazione della massa passiva, ovvero qualora l’imprenditore abbia avviato una procedura di gestione della crisi. Altre ipotesi sono quelle legate al trattamento di favore nei casi delle sturt up, in cui il termine per ripianare la situazione patrimoniale si allunga di un anno e il caso del deposito di una domanda di concordato ovvero di omologa di un accordo di ristrutturazione dei debiti. Tuttavia, fintanto che il legislatore italiano, traendo spunto da quanto codificato negli ordinamenti esteri, non ha formalizzato delle misure volte ad anticipare la sospensione dell’obbligo di gestione conservativa, non si è potuto tutelare a pieno il fenomeno del debtor in possession. Un sensibile passo in avanti in questa direzione è stato compiuto dalla Legge Delega n. 155 del 2017, la quale all’art. 14 ha ritenuto meritevole di tutela sospendere i doveri di condotta degli amministratori in via prudenziale nell’ambito delle attività liquidatorie, ai fini di consentire una più proficua attivazione delle procedure di allerta e di composizione assistita della crisi. Tale intento si lega strettamente alla considerazione per cui gli atti che non si limitino soltanto a mantenere inalterata l’integrità del patrimonio dell’impresa non debbano necessariamente valutarsi, per quanto rischiosi, in senso negativo, specie laddove potessero aumentare le possibilità di ristrutturazione della gestione in continuità aziendale. Questo giustifica quindi l’orientamento adottato da parte della già citata corte del Delaware, che da tempo ritiene insussistente la responsabilità automatica dei gestori nelle fattispecie c.d. di “deepening insolvency”, in cui il potenziale inasprimento del dissesto connesso al proseguimento degli atti gestori viene contemperato dalla volontà di innescare una positiva controtendenza al sopravanzare del fenomeno di crisi. Nel campo delle iniziative volte a gestire con celerità l’avanzamento del dissesto devono essere comprese anche le soluzioni alla problematica legata alle asimmetrie informative presenti tra i vari creditori. Il fenomeno si presenta di particolare rilevanza in Italia, in cui il multi-affidamento è piuttosto comune, specie nelle imprese in crisi. Sempre di stampo britannico è la prassi organizzativa elaborata dai creditori professionali verso i debitori in difficoltà. Ci riferiamo al c.d. “London approach”, un complesso di regole di negoziazione elaborate a partire dagli anni settanta in modo autonomo da alcune banche inglesi. Avendo ottenuto un certo successo sono state poi recepite all’interno dei principi della International Federation of Insolvency Practitioners (INSOL). Il tutto in funzione di consentire una compressione dei costi di coordinamento tra i vari membri della massa passiva, risultato ottenibile mediante il coinvolgimento di un
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soggetto terzo con il ruolo di mediatore tra le varie istanze, in modo da agevolare la formazione dell’accordo. Altro elemento di rilievo riguarda il concetto di “risk of insolvency”, tradotto sul piano formale primariamente dal diritto britannico in qualità di presupposto al verificarsi del quale potevano sollevarsi inadempimenti degli organi di gestione dell’impresa. Facendo tesoro di tale esperienza, fu la Commissione Trevisanato ad ispirarvisi nel tentativo di avviare un processo di sensibilizzazione dell’attività di produzione normativa sul territorio nazionale verso istituti che mirassero ad anticipare i sintomi di difficoltà della vita imprenditoriale. Dunque se all’epoca attuale siamo giunti al Nuovo Codice della Crisi una parte preponderante del merito va proprio ricondotta agli esiti dell’attività di analisi comparata con detti ordinamenti esteri174.
Ma se da un lato l’esperienza mutuabile dal Regno Unito e dagli USA ha consentito un indubbia base di appoggio per il fecondo sviluppo di strumenti normativi orientati verso la salvaguardia dell’iniziativa economica privata e il mantenimento delle imprese in condizioni