• Non ci sono risultati.

Riferimenti ai principali dibattiti dottrinali sorti in ordine alla dimensione di emersione e gestione anticipata della Cris

Come abbiamo già accennato in relazione agli argomenti trattati fin qui, l’avvento del D. Legisl. n. 14 del 12 Gennaio 2019, come apice di ogni tentativo di modifica profonda dell’ordinamento che si rispetti, non può mantenersi esente da profili di criticità che hanno accompagnato la formalizzazione del pensiero teorico del legislatore e che si sono poi tradotti e mantenuti nelle nuove disposizioni giuridiche. Non a caso di per sé la volontà di produrre o almeno di ampliare la gamma degli strumenti concessi dalla legge per risanare le sorti di un’impresa che si collochi in stato di crisi, in prossimità di una aperta insolvenza, per di più in un’ottica anticipativa dei sentori di difficoltà, necessariamente impone una non semplice compenetrazione della pluralità di pretese in gioco, talvolta richiedendo alle stesse norme di compiere delle scelte di campo che si rivelano dolorose e sollevano pareri contrastanti. Senza dubbio il terreno su cui si cala la Riforma delle procedure concorsuali è altamente complesso. Pertanto, una volta tracciate le linee guida da parte della Legge Delega, dalla diversa modalità con cui il lavoro viene completato da parte degli organi legislativi delegati possono dipendere le sorti di migliaia di iniziative imprenditoriali, oltre che della sfera di soggetti giuridici ulteriori che gravitano attorno ad esse. Un primo elemento oggetto di dibattito riguarda, all’interno delle previsioni di modifica della disciplina del Codice Civile, contenuta negli artt. 375-384 del suddetto Decreto, l’estensione della previsione per

165

cui “la gestione della società spetta esclusivamente agli amministratori” a tutto il panorama societario italiano. Tale previsione era già contenuta in materia di s.p.a. nell’art. 2381 bis cc, ma rappresenta una novità assoluta per tutti i tipi di società personalistiche e per la s.r.l151. La regola qui riportata ha la funzione di escludere il compimento diretto di atti gestori da parte dei soci o l’attribuzione ai soci stessi di poteri autorizzativi vincolanti verso gli amministratori, i quali dunque mantengono la piena ed esclusiva responsabilità per gli atti di gestione non conformi agli obblighi di diligenza. Lo scenario in cui la novità si colloca richiede però di compiere una riflessione circa la sua difficile integrazione con il corpo normativo che il Codice Civile riserva alla regolamentazione delle funzioni di gestione attribuite ai soci nella s.r.l., i quali soprattutto in seguito alla Riforma del 2003 e grazie al più ampio spazio lasciato all’autonomia statutaria, hanno conosciuto un notevole accrescimento dei loro poteri. Ciò infatti sembra contravvenire apertamente al contenuto dell’art. 2475 cc, cardine della disciplina dedicata, per cui le competenze in ambito gestionale possono essere suddivise tra soci e amministratori152.

Per comprendere meglio quanto detto occorre fare riferimento a :

a) l’art 2468 comma 3 cc riguardante i diritti particolari dei soci;

b) l’art.2479 cc riguardante le decisioni che uno o più amministratori o tanti soci che rappresentino almeno un terzo del capitale sociale riservano alle competenze assembleari;

c) l’art.2483 cc che prevede la competenza dei soci ovvero degli amministratori per l’emissione dei titoli di debito;

In relazione al primo dei punti citati, dal momento in cui il testo della norma fa riferimento sia alla partecipazione agli utili che all’esercizio del voto, comprendendo dunque situazioni giuridiche attive concesse alla persona del socio che siano afferenti alle due sfere patrimoniale e amministrativa, è ovvio come le nuove disposizioni creino un forte attrito, risultando forse temeraria una visione restrittiva che arginasse le attribuzioni proprie dei singoli membri della compagine sociale all’espressione delle sole autorizzazioni e pareri. Per quanto riguarda il punto b) si sostiene che nonostante la materia oggetto di voto sia rimessa alle competenze dell’assemblea, è comunque richiesto un successivo atto esecutivo da parte degli amministratori. Tuttavia nella disciplina dell’s.r.l. manca espresso riferimento alla responsabilità dei gestori per gli atti compiuti in esecuzione di delibere assembleari, come il 2364 comma 1 n. 5 cc per la s.p.a. L’unico riferimento che si potrebbe ricostruire riguarda l’art 2476 comma 7 cc relativo alla responsabilità solidale con gli amministratori dei soci che abbiano autorizzato o consentito il compimento di atti dannosi. Tale regola potrebbe estendersi inoltre all’intera assemblea nell’ambito delle competenze attribuitegli a norma dell’art. 2479 cc. Per il terzo punto invece è il dettato di legge medesimo che prevede una assegnazione alternativa, dunque per allinearsi alle nuove norme spetterebbe alla volontà negoziale espressa in statuto optare per i soggetti titolari del potere di gestione. Ma a fronte

151 “Codice della Crisi d’Impresa : solo agli amministratori spetta la gestione societaria” di M. Ferro pubblicato

su “Il Quotidiano Giuridico”, 3 Aprile2019

152 “Rebus sul ruolo dei soci di s.r.l. con la gestione solo agli amministratori” di L. De Angelis, pubblicato su “Il

166

di un tale quadro codicistico, come effettivamente potrebbero essere risolte le incongruenze legate all’entrata in vigore del Nuovo Codice della Crisi? Sul punto si sono espressi numerosi autori, suggerendo dei possibili scenari riconducibili, volendo trarne un’estrema sintesi, a tre distinti filoni di pensiero :

a) Prima soluzione : si svuotano di significato le vecchie norme, quindi abrogazione tacita del 2468 cc e azzeramento delle competenze gestorie dei soci153 ;

b) Seconda soluzione : si applica al 2468 cc e al 2479 cc la norma del 2364 cc comma 1 n. 5, ovvero si mantiene in capo ai soci solo la pronuncia di autorizzazioni e pareri ;

c) Terza soluzione : mantenere in vigore le vecchie norme senza raggiungere un abrogazione implicita a causa delle novità, la cui portata dunque risulta fortemente depotenziata154.

La soluzione che sembra essere più condivisibile in quanto più equilibrata è presumibilmente la seconda, anche se resta da chiarire se i connessi doveri di rilevazione e superamento dello stato di crisi, connaturato alla posizione degli amministratori, come da art. 2086 comma 2 cc, debba estendersi anche ai soci. Tale esigenza pare confermarsi nelle ipotesi in cui la devoluzione ai membri della compagine sociale dei poteri di gestione va ad assumere un carattere non meramente occasionale, bensì generale155. Un altro parere che ha incontrato una certa condivisione in dottrina riguarda la possibilità di attivare una c.d. “interpretazione ortopedica”, volta quindi a porre rimedio ai punti d’ombra sollevati dalla lettera del legislatore. Secondo quest’ultima si propone una differenza tra i concetti di gestione e di organizzazione. La prima viene considerata in senso lato come la totalità degli atti capaci di produrre un effetto nei confronti dei risultati dell’attività economica dell’impresa, mentre la seconda può essere indicata come il semplice aggiornamento e la concreta applicazione degli adeguati assetti organizzativi, amministrativi e contabili. Di conseguenza, partendo da una simile visione, è più in linea con il tradizionale dettato civilistico attribuire alla competenza esclusiva degli amministratori la sola gestione di tali aspetti organizzativi, mantenendo sulla restante parte delle decisioni una titolarità concorrente con i soci156. La tematica in questione si fa ancora più spinosa in ambito di società a base personalistica, nelle quali tutti coloro che partecipano al capitale sociale, tranne il caso degli accomandatari nella s.a.s., sono chiamati a rispondere illimitatamente con tutti propri beni delle obbligazioni sociali sorte nel loro periodo di condivisione del rischio d’impresa. Un simile principio generale si coordina assai difficilmente con la volontà di attribuire esclusivamente agli amministratori il potere di compiere e porre in essere le scelte di gestione, inserito nella modifica all’art. 2257 cc, sollevando ancor più dubbi rispetto al caso della s.r.l., poiché spesso si riferisce ad ambienti

153 “La riforma della crisi d’impresa riscrive il ruolo dei soci della S.r.l” di A. Busani, Il Sole 24 Ore, 19 Febbraio

2019

154 “Crisi d’Impresa, la riforma non stravolge la governance”, di D. Damascelli e F. Tassinari, Il Sole 24 Ore, 2

Marzo 2019

155 “Nuove regole generali per l’impresa nel nuovo codice della crisi e dell’insolvenza” di V. Di Cataldo e S.

Rossi, pubblicato in “Rivista di Diritto Societario” Editore Giappichelli, 2018, Fascicolo n.4

156 Una simile riflessione viene proposta in “Gestione dell'impresa, assetti organizzativi e procedure di allerta

nella riforma Rordorf” di P. Montalenti, pubblicato su “Il Nuovo Diritto delle Società”, Editore Giappichelli, 2018, Fascicolo n.6

167

societari di ristrette dimensioni, magari a conduzione familiare, con un basso livello di formalizzazione e in cui la separazione tra proprietà e direzione può rivelarsi perfino totalmente assente. Altro tema oggetto di dibattito è senz’altro costituito dalla scarsa puntualità e chiarezza connessa alla definizione di crisi. Come abbiamo ampiamente descritto nei capitoli precedenti, nell’ottica di animare dei comportamenti proattivi di anticipazione del conclamato dissesto, il legislatore contemporaneo ha tentato di formalizzarne una descrizione accurata all’art. 1 del D. Legisl. n. 14 del 12 Gennaio 2019, individuandola come lo stato di difficoltà economico-finanziaria che rende probabile l’insolvenza e che si caratterizza per l’inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte regolarmente alle obbligazioni pianificate. In aggiunta a ciò, per concedere un carattere di maggior tecnicismo all’espressione stessa, ha rimesso agli organismi di rappresentanza degli esperti, dunque alla prassi, il compito di approfondirne e delinearne meglio il perimetro tramite l’elaborazione dei citati indicatori della crisi. Il CNDCEC non ha tardato a rispondere alla chiamata, provvedendo, prima con apposite Linee Guida pubblicate in data 30 Ottobre 2015, che cercavano di ispirare e allineare la prassi professionale alle volontà e necessità espresse dall’allora operante Commissione Rordof e successivamente con un ulteriore contributo dell’Ottobre 2019, coordinandosi con il dettato dell’art. 13 comma 2 del Nuovo Codice. In entrambi gli scritti è possibile riscontrare testualmente una riproposizione delle definizioni e terminologie proposte dalla legge in ordine all’evidenziazione del fenomeno di crisi, pur ammettendo e riconoscendo quanto un simile punto di vista fosse alquanto limitativo della totalità dei casi di dissesto che potevano essere suggeriti dall’esperienza diretta sul terreno imprenditoriale. Da tempo tutte le fonti normative, sia a livello nazionale che sovranazionale, hanno riconosciuto la crisi come un fenomeno di ampia portata, della quale la diretta insolvenza costituisce una “species” piuttosto avanzata, ancorché non necessariamente correlata ai tratti della piena irreversibilità. Le due espressioni si inseriscono in un rapporto non biunivoco, per cui se da un lato tutti i casi di insolvenza determinano indubbiamente una crisi non vale l’opposto. Non a caso il dissesto può avere luogo sia da tensioni attuali ma perfino prospettiche, nei momenti in cui l’incapacità di “adempiere regolarmente” alle obbligazioni, volendo citare l’art. 5 della Legge Fallimentare, è ancora lontana. La problematica di fondo sta invece nello stabilire in che cosa consiste il correlato aumento probabilistico. La pronuncia della Banca Centrale Europea (BCE) che ha invitato le istituzioni comunitarie, oltre che di riflesso gli Stati membri, a sviluppare una declinazione specifica di tale concetto. In passato è sorto peraltro un ulteriore spunto di dibattito basato sulla distinzione terminologica di “possibilità” e “probabilità” di insolvenza, che si è risolto ritenendo la prima una condizione necessaria ma di per sé non sufficiente per determinare l’attivazione delle contromisure al sopravanzare della crisi. In realtà non sono mancate voci discordanti, secondo le quali tra le due espressioni sopra riportate si colloca il trasferimento dell’individuazione della crisi da una fase di early warnings a una fase di twilight zone. Tale spostamento potrebbe indurre ad un significativo peggioramento della tempestività della rilevazione, intercettando le difficoltà soltanto a posteriori rispetto al momento in cui si sono originate. Gli stessi autori che appartengono a questo orientamento sostengono dunque che accanto agli indicatori di probabile insolvenza,

168

se ne dovrebbero sviluppare altri capaci di approssimarne anche la semplice possibilità157. Le numerose perplessità mostrate a livello dottrinale si originano considerando che la fase patologica della vita dell’impresa acquisisce, in seno alle prospettive assunte dalla Riforma del 2019, una particolare importanza in qualità di “triggering point”, dunque una sorta di scintilla che innesca tutto il successivo processo di formulazione di possibili soluzioni, sollevando i contestuali doveri e responsabilità da parte degli organi sociali. Il tutto secondo delle modalità che possano consentire una gestione delle difficoltà scevra dall’assunzione di rischi eccessivi, dei quali peraltro finirebbero per farsi carico, in ipotesi di prosecuzione antifunzionale dell’attività, primariamente i creditori e non l’imprenditore. Pertanto i rischi connessi alla mancanza di puntualità nella definizione della crisi, già ampiamente mostrati dalla prassi, riguardano la possibilità di restringere ovvero di ampliare eccessivamente il raggio d’azione delle apposite previsioni di legge : ciò provocherebbe o un’imposizione di oneri comportamentali troppo pesanti per le imprese ancora sane, oppure un eccessivo immobilismo passivo nei confronti di imprese in crisi che necessitano pronte risposte158. In stretta connessione a quanto appena riportato si colloca anche la spinosa questione degli indicatori più adeguati per rilevare e portare alla luce i casi di dissesto. Se infatti fin dalla Legge Delega n. 155 del 2017 si era tentato, all’art. 4 comma 1 lettera h), di elaborarne un primo quadro di sintesi, rimettendo poi alle associazioni professionali il compito di approfondirne e completarne la stesura, le iniziative assunte dal legislatore non hanno tardato a riscontrare una serie di dubbi avanzati dagli esperti. In origine infatti la norma citava l’indice di rotazione dei crediti e di rinnovo del magazzino, l’indice di liquidità e il rapporto tra mezzi propri e di terzi. Quest’ultimo indicatore in particolare fu sottoposto ad alcuni rilievi, sottolineando come presumibilmente il passaggio ad un più raffinato EBITDA e ad una Posizione Finanziaria Netta potesse consentire di dare maggior peso all’idoneità dei flussi finanziari destinati alla copertura degli oneri da indebitamento159. Accanto alle difficoltà connesse alla selezione degli indici dotati della maggior valenza segnaletica, si mostra un compito ancor più arduo la fissazione di valori soglia che si possano ritenere idonei ai fini dell’allerta. La letteratura internazionale ha più volte sollevato tale interrogativo utilizzando l’espressione “one size does not fit all”, dunque non essendo facilmente sviluppabile un sistema valoriale applicabile a livello universale, sarà opportuno distinguere caso per caso secondo elementi quali la natura e dimensione dell’impresa in esame. Un ulteriore spunto di riflessione che ha suscitato delle divisioni di pensiero sul piano teorico riguarda la periodicità minima pari ad ogni tre mesi formalizzata dal Nuovo Codice della Crisi per l’applicazione e il ricalcolo degli indicatori di allerta. L’art. 19, esprimendosi sul tema della segnalazione all’OCCRI, richiama infatti tale obbligo qualora il superamento delle soglie si verifichi in seno all’ultimo bilancio regolarmente approvato ovvero si protragga da oltre un trimestre. Se da un lato la disposizione contribuisce a mantenere alta l’attenzione sui segnali di dissesto sia da parte dei gestori dell’impresa che direttamente degli organi di controllo chiamati ad adempiere ad un obbligo sancito per legge, dall’altro è

157 Come riporta P. Montalenti, “Gestione dell’impresa, assetti organizzativi e procedure d’allerta nella

Riforma Rordof”, in “Nuovo Diritto delle Società”, Giappichelli, 6/2018

158 Della fumosità del concetto di crisi si parla anche in “Collegio Sindacale e prevenzione della Crisi d’impresa”

di R. Russo, pubblicato in “Giurisprudenza Commerciale” Editore Giuffrè, 2018, Fascicolo n.1

169

innegabile la critica avanzata da parte dei rappresentanti delle categorie professionali, secondo i quali simili valutazioni dovrebbero basarsi su un orizzonte temporale più ampio, volto quanto meno ad abbracciare la totalità dei successivi dodici mesi. Così si riuscirebbe ad assumere un punto di vista ultra annuale, che proiettasse la capacità preventiva dei controlli oltre il singolo esercizio, includendo dunque una serie di peculiarità ed eventi afferenti all’impresa altrimenti non apprezzabili con una semplice analisi di bilancio, specie se di carattere intermedio, come quello che richiede in questa sede una simile attività di verifica. Di fatto non mancano gli atteggiamenti scettici nei confronti del carattere limitato legato all’informativa contabile e bilancistica, spesso tacciata di assumere una visione orientata troppo al passato e non in grado di cogliere i primi sintomi del sopravanzare di una condizione di squilibrio. Per questo da tempo lo stesso CNDCEC si è reso portavoce dell’esigenza di assumere un approccio che si potrebbe definire di tipo “interno - previsionale”, che spinga le imprese a far ricorso alla pianificazione strategica e finanziaria, promuovendo la prospettiva forward looking. Ecco perciò che si manifesta la centralità del ricorso alla redazione dei piani finanziari, i quali permettono di conoscere con un certo anticipo il momento in cui, in assenza di una decisiva inversione di rotta, sarà probabile il mostrarsi dell’insolvenza. Altra problematica sollevata dagli esponenti della prassi riguarda il fatto che dagli errori connessi alla determinazione sia del periodo temporale di valutazione dei sintomi, sia dal sistema degli indicatori prescelti, possono manifestarsi casi legati ai c.d. “falsi positivi” ovvero “falsi negativi”160. La prima categoria fa riferimento a tutti quei casi

non dotati di un rischio di default manifestabile in un determinato orizzonte temporale ma i quali tuttavia rischiano di incorrere in una segnalazione troppo prematura nell’ipotesi in cui l’approccio seguito per la rilevazione delle difficoltà sia eccessivamente rigido. La seconda categoria invece si rivolge a tutte le realtà imprenditoriali già inserite in contesti di crisi e nei cui confronti un quadro di indicatori fortemente flessibile ed elastico finirebbe per posticiparne pericolosamente l’emersione all’esterno, magari pregiudicandone le prospettive di recupero. La rilevanza del sopra citato piano si mostra pienamente allor quando lo si consideri il documento formale che consente un effettivo punto di contatto tra l’analisi dell’equilibrio economico e di quello finanziario, entrambe richieste ai fini di stabilire il rischio connesso all’insolvenza. Tali valutazioni, individualmente compiute, finirebbero per perdere potenza espressiva, in quanto da un lato non necessariamente la presenza di risultati economici non soddisfacenti configura un’iniziativa economica patologicamente in perdita. Si guardi ad esempio ai moderni modelli della c.d. “new economy”, ovvero imprese del settori terziario avanzato che, stante i primi anni di dinamica reddituale non soddisfacente sono riuscite in seguito a macinare utili crescenti. Dall’altro lato neppure una idonea alternanza dei molteplici flussi finanziari scaturenti dalla gestione aziendale può ritenersi sufficiente a scongiurare fenomeni di dissesto. Basti pensare all’ipotesi in cui la produzione di flussi di cassa, per quanto positivi, non lo siano al punto da far fronte agevolmente al sostegno dell’indebitamento, ovvero della mole delle fonti di finanziamento a titolo di capitale di credito contratti nei confronti dei terzi. Condizione quest’ultima che se non altro

160 “Adeguati assetti organizzativi e continuità aziendale : profili di responsabilità gestoria” di V. De Sensi,

170

in chiave prospettica sembra preannunciare l’intercedere di uno stato di insolvenza161.

Peraltro si ricorda che l’attività di testing connessa al semplice cash-flow non può essere considerata di per sé esauriente in termini di rapidità nella segnalazione. Non a caso sarà necessario affiancarvi delle informazioni di natura qualitativa, come ad esempio la perdita di manager chiave ovvero di politiche pubbliche di sostegno, il venir meno di clienti e fornitori strategici, così come la revoca di determinate concessioni governative indispensabili per garantire il perseguimento dell’oggetto sociale.

Altro punto oggetto di profondo dibattito riguarda le rigide modalità imposte dalla legge per far fronte alle minacce di crisi. Non a caso l’art. 14 comma 1 lettera b) della Legge Delega n. 155 del 2017 chiedeva di adempiere ad un generale obbligo da parte del debitore che si traduceva in una celere attivazione allo scopo del superamento delle difficoltà riscontrate. Tuttavia ciò doveva essere compiuto ricorrendo ad uno degli strumenti previsti dall’ordinamento per il recupero della continuità aziendale. Si aggiunge poi che il passaggio dall’operato della Commissione Rordof all’entrata in vigore del Nuovo Codice della Crisi ha generato una differenziazione del trattamento normativo applicabile agli imprenditori individuali nonché alle imprese collettive e societarie. Per la seconda categoria infatti la