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Questa ricerca mostra un mondo del volontariato molto attivo, impegnato nella realizzazione di progetti interni ed esterni al carcere, che vadano in primo luogo a migliorare le condizioni di vita delle persone recluse negli istituti penitenziari e in secondo luogo che pongano le basi per un reinserimento attivo di coloro che hanno finito di scontare la propria pena, all’interno della comunità di appartenenza.

La realizzazione di progetti che creino un continuum fra interno ed esterno del carcere è di estrema importanza poiché permette alla maggior parte delle persone che sono in misura alternativa di cambiare il proprio modo di vivere. Questo sfortunata- mente non avviene in tutti i casi, infatti, c’è sempre una percentuale di utenti che una volta finito il proprio percorso con l’associazione riprende a delinquere, ma questo fa parte dei “rischi del mestiere” di cui i volontari sono consapevoli e da cui non si la- sciano scoraggiare.

È emerso dalle interviste, infatti, che le associazioni possono cercare di mostrare una strada diversa ai propri utenti, ma non possono costringerli a seguirla, essendo questa una scelta personale.

Per realizzare tutto questo è necessario un lavoro in rete e tutti i volontari intervi- stati si sono mostrati disponibili alla collaborazione sia con le istituzioni sia con altre

91 associazioni, a riprova del fatto che ogni organizzazione non è chiusa in se stessa, ma è aperta alla cooperazione e al dialogo con gli altri attori dell’esecuzione penale. Di estrema importanza è, inoltre, la collaborazione con associazioni che hanno un diver- so tipo di utenza perché l’incontro fra mondi molto diversi fra loro permette, soprat- tutto a chi è stato recluso in un istituto penitenziario, di superare la condizione di iso- lamento in cui si vive all’interno di esso.

Le associazioni di volontariato sono in prima linea anche nella promozione di una nuova cultura della pena che non sia carcero-centrica. Nonostante le resistenze che spesso si incontrano quando si parla di misure alternative alla detenzione, i volontari continuano a cercare di diffondere un diverso messaggio che riguarda le pene e di comunicare dati statistici sulla diminuzione della recidiva per chi sconta tutta la pena o una parte di essa al di fuori del carcere, cercando di porre rimedio alla disinforma- zione che accompagna questo tema.

Le difficoltà che le associazioni incontrano nello svolgimento delle proprie attività sono innumerevoli, prima fra tutte la mancanza di fondi, ma anche la fatica di riusci- re a trovare l’appoggio delle istituzioni e la carenza di volontari.

Ciò dimostra che alla base della scelta di iniziare questo tipo di volontariato c’è una motivazione molto forte, infatti gli intervistati stessi hanno dichiarato che questo non può essere intrapreso da tutti, perché, data la complessità dell’utenza a cui ci si rivolge e gli ostacoli che bisogna superare nello svolgimento delle attività, la propria volontà di continuare viene messa costantemente alla prova. Inoltre, non basta solo la motivazione, ma è necessaria una formazione che permetta di essere veramente di aiuto, altrimenti si rischia di peggiorare la situazione invece di aiutare.

Dal resoconto fornito dalle associazioni, emerge la percezione di un sistema peni- tenziario sempre più al collasso e la necessità di operare una diversificazione del si- stema delle pene, orientando il percorso di espiazione all’esterno del carcere e ab- bracciando anche l’ottica della giustizia riparativa, che faccia percepire all’opinione pubblica che chi ha commesso un reato stia effettivamente compiendo un percorso di restituzione alla società di quanto è stato tolto dal crimine commesso.

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Conclusioni

L’obiettivo di questa tesi è stato quello di descrivere le condizioni attuali e le pro- spettive future del sistema di esecuzione penale esterna. Il quadro che ne è emerso non è certo molto ottimistico ma, come si evince dai contributi teorici riportati nel primo capitolo, l’argomento della pena è stato sempre difficile da affrontare nel corso dei secoli.

La situazione odierna vede contrapposte due visioni dell’esecuzione penale, da una parte chi auspica una maggiore severità nell’applicazione delle pene e un mag- gior utilizzo della detenzione per isolare quegli elementi considerati pericolosi per la sicurezza sociale. Dall’altra parte c’è chi invece prospetta una trasformazione del modo di concepire la pena che si orienti più verso un’esecuzione esterna agli istituti penitenziari, in modo tale da permettere a chi ha commesso un reato di poter rico- struire il legame con la società che si è spezzato con la commissione dello stesso.

Una delle parole chiave quando si parla di sistema penitenziario in Italia è sovraf- follamento, tuttavia questo è solo uno dei sintomi di un problema molto più grande e complicato. Se la difficoltà fosse solo il sovraffollamento, la soluzione sarebbe sem- plice: costruire nuovi istituti o rimodernare i vecchi in modo tale da aumentarne la capienza, ma questo sarebbe un processo che non avrebbe mai fine.

In realtà il problema che attanaglia il sistema penale italiano, ma anche quello di altri paesi in Europa, è quello di pensare un’istituzione che non isoli definitivamente chi ha commesso un reato, in modo tale che una volta scontata la pena si possa avere la possibilità di non commettere gli stessi errori.

Nel nostro Paese solo negli ultimi anni si sta abbandonando l’idea che il carcere sia l’unica risposta punitiva o l’unico strumento cautelare possibile. Il Disegno di Legge Delega, su cui il Parlamento sta lavorando in questo periodo, è sicuramente un evento importante ma, come ampiamente affrontato all’interno dell’analisi svolta in questa tesi, sarà inutile se non si cercherà di diffondere una nuova cultura della pena nell’opinione pubblica, che vada al di là dei sensazionalismi e dei processi mediatici e si concentri di più sulla comunicazione di dati statistici reali. Il cambiamento di cui ha bisogno il nostro sistema penitenziario non concerne solo le norme, ma anche le

93 pratiche che portano ad applicare maggiormente pene detentive anche per reati con- siderati minori.

Queste pratiche sono influenzate da un clima culturale che sta tendendo verso una stretta securitaria. Questo purtroppo è dovuto in parte anche al modo in cui i mass media e una parte della politica affrontano i temi che riguardano la sicurezza sociale dei cittadini, come i reati o l’immigrazione.

L’iniziativa degli Stati Generali è stata sicuramente una grande occasione di par- tecipazione politica per tutti coloro che sotto vari aspetti si occupano di carcere, ma è passata quasi del tutto inosservata agli occhi di chi il carcere non lo conosce o lo in- voca come unico mezzo di espiazione della pena. Da questo punto di vista gli Stati Generali hanno fallito.

Il lavoro degli esperti è stato ad ogni modo essenziale perché ha fornito, a chi si occuperà di attuare la Legge Delega, un insieme di proposte che non si potrà sceglie- re semplicemente di ignorare. Il merito degli Stati Generali sta anche in questo, l’aver permesso a diversi tipi di professionisti che lavorano nel settore penitenziario, di creare un gruppo di persone che perseguono una causa, quella della riforma dell’Ordinamento Penitenziario e che sicuramente non accetterà che questa occasione vada sprecata.

Dalla ricerca svolta per questa tesi, si evince che il mondo del volontariato è im- pegnato da anni a diffondere una diversa cultura della pena, utilizzando ogni occa- sione disponibile per svolgere attività di sensibilizzazione sul tema del carcere e delle misure alternative, portando anche la testimonianza diretta di chi ha affrontato questo tipo di esperienza. È opinione diffusa degli intervistati, infatti, che se si comunicasse- ro dei dati ufficiali, soprattutto per quanto riguarda la recidiva, si potrebbe cambiare molto la visione che le persone comuni hanno di chi sta scontando una pena.

I volontari, nonostante le difficoltà e i fallimenti che spesso incontrano, credono realmente nella possibilità di mostrare a chi ha commesso un reato, un percorso di vita differente e si impegnano affinché questo sia realizzabile, investendo tempo e ri- sorse nel concretizzare dei progetti. Bisogna considerare, infatti, che il volontariato molto spesso si trova a dover rimediare alla mancanza di strutture e politiche sociali nei confronti di questa categoria di persone, per questo, dal momento in cui la sua funzione è stata definita all’interno della rieducazione del detenuto con la riforma

94 dell’Ordinamento Penitenziario del 1975, sta attuando un processo di professionaliz- zazione.

Il volontariato, infatti, offre dei servizi di accoglienza e sostegno materiale e mo- rale a tutti coloro che stanno scontando una pena all’interno o all’esterno del carcere, impegnandosi affinché possano reinserirsi all’interno della comunità.

Le associazioni svolgono quel compito di individualizzazione del trattamento che negli istituti spesso viene a mancare a causa dell’insufficienza di personale socio- educativo. È necessario, infatti, conoscere il vissuto delle persone che hanno com- messo un crimine per capire quali sono le cause che lo hanno condotto a compiere quel gesto e in istituti penitenziari dove il rapporto fra educatori e detenuti è di 1 a 100, personalizzare il percorso di trattamento è molto difficile.

Le conclusioni di questa analisi portano ad un nuovo interrogativo: un’idea diver- sa di penalità è possibile?

È sicuramente difficile, sono molti i fronti su cui si dovrà agire per modificare l’esecuzione penale in Italia e sicuramente i cambiamenti saranno lenti. Dal punto di vista normativo gli Stati Generali hanno lasciato una grande raccolta di proposte per il governo che dovrà attuare la Legge Delega, ma fino a quando non si inizierà un ve- ro percorso di cambiamento culturale sul tema della pena, la realizzazione di un si- stema penale più dignitoso ed effettivamente rieducativo non sarà possibile.

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Appendice: Intervista all’Associazione Noi e Voi di Taranto

R: allora volevo conoscere un po’ l’associazione in generale, in che anno è stata fondata?

I: si, l’associazione nel 92’ è nata, abbiamo fatto 25 anni il mese scorso, il 24 feb-

braio abbiamo pure festeggiato davanti all’ingresso del carcere i 25 anni dell’associazione. È un’associazione di volontariato penitenziario iscritta all’albo re- gionale per le associazioni di volontariato. Nasce in carcere, il nome “Noi e Voi” era il nome del giornalino che avevano avviato i detenuti già nell’anno precedente e l’idea era quella di costruire un ponte fra il carcere e la città, per cui da sempre l’associazione si è interessata a questo. Sia all’interno del carcere con alcuni servizi che ancora oggi svolge, che sono quello del servizio biblioteca, curato dai volontari dell’associazione, la collaborazione con i cappellani, perché a fondarla fu il cappella- no di allora don Antonio Marzìa che fondò l’associazione, e poi vari laboratori, labo- ratorio di lettura, educazione sanitaria, educazione all’igiene personale, a seconda delle professionalità che sono passate durante gli anni dell’associazione e hanno di volta in volta proposto qualcosa. All’esterno del carcere invece, l’associazione si in- teressava già dagli inizi di fare ascolto per le famiglie dei detenuti ed essere quindi un po’ un punto di contatto anche fra il carcere e i familiari, e poi di volta in volta anche per i detenuti che uscivano e quindi cercare di essere anche un punto di riferi- mento per il territorio. Intorno al 2000 già si iniziava a parlare… ora ti sto rifacendo tutta la storia perché mi sono riletto quasi tutti i verbali dell’associazione di questi ul- timi periodi e stavo cercando di ricostruire la storia dell’associazione… quindi intor- no al 2000 si inizia a parlare della possibilità di avere un punto di riferimento esterno come casa-famiglia, come luogo di accoglienza, sia per detenuti che per i famigliari dei detenuti. Una prima esperienza è nata a via Dante, se non siete di Taranto è un via abbastanza centrale, una via bella grande qui a Taranto, e lì ci fu messa a disposi- zione una villetta dove all’inizio alcuni detenuti facevano alcune ore, poi nel 2000 invece accogliemmo h24 sia detenuti che uscite sull’alternativa e sia anche parenti di detenuti. Lì è durata l’esperienza circa un anno… un annetto si è durata l’esperienza… seguimmo intorno a sei o sette persone e fu la prima esperienza, abba- stanza traumatica nel suo finale…finì con un blitz, però…quando abbiamo finito

99 quell’esperienza la casa serviva di nuovo alla proprietaria poi dopo due o tre mesi scattò il blitz invece con alcuni ospiti che furono riarrestati… però per noi fu un’esperienza abbastanza importante sia perché avviammo il servizio e quindi poi ci appassionammo anche alla cosa, a capire anche che al di là della buona volontà biso- gnava anche attrezzarsi un po’ di più forse con questa cosa, e quindi poi ne parlam- mo con il vescovo di Taranto, monsignor Papa, che mise a disposizione la casa del custode all’interno del seminario e lì una dei volontari fece la scelta, la signora Pelle- grinelli, di condividere completamente la vita con i detenuti che erano ospiti, per cui si trasferì lì, in una delle stanze di questa casa e lì ha vissuto per otto anni insieme con i detenuti, quindi dal 2002 al 2010.

R: che tipo di pene avevano?

I: varie tipologie, abbiamo avuto dai detenuti domiciliari, agli affidati, articolo 21,

semiliberi…c’era un po’ di tutto… negli anni si sono susseguiti un po’ di tutto. An- che, sin dagli inizi abbiamo avuto, proprio per non far alimentare anche, data anche l’esperienza di via Dante, è meglio se diluiamo un po’ la cosa, non solo la presenza della signora, ma anche ospitando persone che non provenissero dal mondo del car- cere, anche perché la mentalità del carcere, con il discorso dell’infamità, e quindi del non parlare, è difficile a volte da scalfire, e soprattutto nei primi periodi, fino a quan- do non si instaura un rapporto di fiducia che permetta anche al detenuto di raccontare quelli che possono essere anche degli errori che succedono nel percorso, è bene avere altre persone che un po’ più facilmente possono parlare, in modo da poter aiutare sia gli uni che gli altri, che vengono sempre ospitati, sia detenuti sia persone senza fissa dimora, persone con problemi di domicilio. E quindi siamo passati dal 2002 che aprimmo fino al 2010 con l’esperienza della signora Pellegrinelli, saranno passati un 30/40 e forse anche più di persone, tenendo conto anche dei permessanti, i familiari che si sono appoggiati, gente che veniva dall’estero e che doveva fare i colloqui all’interno del carcere, forse anche una sessantina di persone. Poi dal 2010 fino al 2014 sono passate altre 20/30 persone, per cui diciamo che dal 2002 al 2014 in tutto un centinaio. Continuando sempre ad andare avanti non più con una presenza fissa della signora dentro casa, ma invece è diventato un prolungamento della casa canoni- ca di questa parrocchia, perché io sono ritornato a fare il parroco qua, il vice parroco condivideva anche questo discorso dell’accoglienza, mia madre pure mi dà una mano

100 perché vive in casa, dava una mano di là, per cui mia madre garantiva la mattina una presenza, con la scusa fra virgolette del cucinare, del dover gestire un po’ casa ecc. , insieme con gli ospiti logicamente, il pomeriggio, pranzo e primo pomeriggio io e il vice parroco garantivamo anche un po’ di presenza, e poi ogni tanto qualche giro all’improvviso per vedere anche come andava la cosa. Poi il coinvolgimento, lì dove le misure lo permettevano, dei detenuti o qui in parrocchia o in altre realtà del territo- rio in modo da poter comunque sempre avere una presenza solo tra di loro all’interno della casa. E fino al 2014 è andata avanti così. Dal 2014, siccome avevamo ospitato due persone uscite dall’emergenza Nord Africa, per conto della prefettura, la prefet- tura ci chiese di dare un certo numero di posti disponibili per il discorso degli immi- grati e avevamo dato la disponibilità di 10/15 posti

R: quindi come centro di accoglienza?

I: si, come centro di accoglienza, riservando alcune stanze per gli immigrati e la-

sciando sempre quelle per i detenuti. Ci sembrò anche lì un’opportunità perché co- munque il confronto fa cadere a volte anche tante barriere, i pregiudizi, ma anche na- scevano altre possibilità, come dicevo prima, il fatto del non parlare, con gli immi- grati per esempio invece questa cosa… voglio dire non esiste proprio la mentalità dell’infamità che è proprio tipica del carcere dalle nostre parti. E quindi dal 2014 ad oggi convivono immigrati e detenuti in misura alternativa all’interno della stessa struttura. Questa è un po’ la storia della casa famiglia San Damiano. In tutto questo abbiamo creato alcuni progetti abbastanza interessanti credo, dal 2005 al 2011, nel 2013 si è concluso proprio ufficialmente, con i fondi dell’8x1000 alla chiesa cattoli- ca, la Caritas ha sostenuto il progetto “Kairòs” che era per il reinserimento lavorativo di detenuti e familiari di detenuti. E anche lì abbiamo avuto buoni risultati, nel senso che l’abbiamo sperimentato in tre progettualità questo percorso ed era quello di non dare subito soltanto un domicilio, ma cercare di aumentare anche le possibilità all’interno della casa di pre-formazione lavoro, quindi attraverso l’agricoltura, la ma- nutenzione del verde, abbiamo preso un po’ di attrezzatura per far sperimentare sem-