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L’esecuzione penale esterna: condizione attuale e prospettive future. Il ruolo del volontariato.

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Academic year: 2021

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(1)Università di Pisa Dipartimento di Scienze Politiche Corso di Laurea in Sociologia e Politiche sociali. Tesi di Laurea Magistrale. L’esecuzione penale esterna: condizione attuale e prospettive future. Il ruolo del volontariato.. Relatore:. Candidata:. Prof. Andrea Borghini. Doriana Sisto. Anno Accademico 2015-2016.

(2)

(3) Indice. Introduzione ............................................................................................................... 5 La pena: definizioni teoriche .................................................................................... 7 1.Modelli di spiegazione delle sanzioni penali ........................................................ 7 2.Modelli di evoluzione storica dello sviluppo del penitenziario ............................ 8 3.Il contributo di Garland alla sociologia della pena ............................................. 11 3.1 La tradizione durkheimiana ......................................................................... 12 3.2 Gli studi marxisti di Rusche e Kirchheimer ................................................ 14 3.3 Gli scritti di Foucault ................................................................................... 18 3.4 Gli scritti di Elias ......................................................................................... 22 4.Il ruolo dei media nella percezione della sicurezza ............................................ 24 Evoluzione storico-legislativa del sistema di esecuzione penale esterna in Italia27 1.La riforma del 1975 ............................................................................................ 27 2.La Legge Gozzini ............................................................................................... 30 3.Altre principali riforme ....................................................................................... 32 4.Regolamenti europei ........................................................................................... 36 5.Le condanne all’Italia da parte della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ....... 38 6.Gli Stati Generali dell’esecuzione penale ........................................................... 40 6.1. Considerazioni generali ............................................................................... 40 6.2. Il tavolo 12: misure e sanzioni di comunità. ................................................ 43 6.3. Che fine hanno fatto gli Stati Generali? ...................................................... 54 7.Esecuzione penale esterna: alcuni dati ............................................................... 60. 3.

(4) Esperienze di volontariato nel sistema delle pene alternative: un confronto fra regioni ....................................................................................................................... 63 1.Scelte metodologiche .......................................................................................... 63 1.1. Campionamento ........................................................................................... 63 1.2. L’intervista semi-direttiva ........................................................................... 65 1.3. Metodologia di analisi: l’analisi tematica .................................................... 66 2.Analisi dei dati .................................................................................................... 67 2.1. Informazioni biografiche sulle associazioni ................................................ 67 2.2. Progetti e attività: utenza di riferimento ed efficacia nel percorso di reinserimento ............................................................................................... 68 2.3. La rete di collaborazioni delle associazioni ................................................. 74 2.4. Attività di sensibilizzazione......................................................................... 78 2.5. Difficoltà incontrate dalle associazioni ....................................................... 81 2.6. Stati Generali e percezione del sistema penale ............................................ 86 3.Considerazioni finali ........................................................................................... 90. Conclusioni ............................................................................................................... 92. Bibliografia ............................................................................................................... 95. Siti internet ............................................................................................................... 96. Appendice: Intervista all’Associazione Noi e Voi di Taranto .............................. 98. 4.

(5) Introduzione Il tema dell’esecuzione penale in Italia è un argomento di cui si parla in modo incostante. A tratti esso scompare dal dibattito pubblico, trattandosi di un tema delicato, fino a che non sopraggiunge un nuovo fatto di cronaca che innesca la necessità di un cambiamento, utile a sanare quei problemi strutturali che nel Paese non sono stati mai veramente risolti. Questo lavoro si concentra sul tema dell’esecuzione penale esterna e si divide in tre capitoli. Nella prima parte si analizza da un punto di vista sociologico l’argomento della pena, proponendo i modelli di spiegazione delle sanzioni penali indicati da Philippe Combessie in “Sociologie de la prison” e i modelli di evoluzione storica dello sviluppo del penitenziario individuati da Stanley Cohen in “Visions of Social Control: Crime, Punishment and Classifications”. Viene approfondito, inoltre, il pensiero del sociologo contemporaneo Garland, ripercorrendo le quattro teorie da egli analizzate, quelle di Durkheim, Foucault, Rusche e Kirchheimer ed Elias. Infine il capitolo si conclude con una breve descrizione del ruolo dei media nella percezione della sicurezza. Nel secondo capitolo si ripercorre l’evoluzione dell’esecuzione penale esterna in Italia in un’ottica storico-legislativa, descrivendo le varie riforme succedutesi a partire dal 1975, per poi analizzare i Regolamenti europei che riguardano le community sanctions e le due condanne subite dall’Italia da parte della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. In questo capitolo viene analizzato anche l’evento degli Stati Generali dell’esecuzione Penale, approfondendo in particolare il lavoro del tavolo 12, che si è occupato delle sanzioni di comunità. Nel capitolo è riportata, inoltre, l’analisi di una conferenza svoltasi a Roma il 10 aprile 2017, ad un anno di distanza dalla conclusione degli Stati Generali, dal titolo “CHE FINE HANNO FATTO GLI STATI GENERALI? Carceri e misure alternative: cosa si è fatto, cosa non si è fatto, cosa si poteva fare”. Nell’ultima parte del capitolo sono riportati invece alcuni dati statistici sulla detenzione e sull’esecuzione penale esterna che riguardano il periodo che va dal 31 marzo 2015 al 31 marzo 2017.. 5.

(6) Nell'ultimo capitolo è stata effettuata una ricerca qualitativa che ha coinvolto le associazioni di volontariato, uno dei principali attori dell’esecuzione penale esterna. Nella prima parte del capitolo sono riportate le scelte metodologiche compiute per realizzare la ricerca, che comprendono il metodo di campionamento, il tipo di intervista e la metodologia di analisi dei dati utilizzati. Nella seconda parte del capitolo si è proceduto invece con l’analisi tematica dei dati emersi dalle interviste. Le aree tematiche prese in considerazione sono cinque: i progetti e le attività realizzati dalle associazioni, la rete di collaborazioni che esse creano, le attività di sensibilizzazione e l’accoglienza che queste ricevono, le difficoltà che le associazioni incontrano e infine la percezione che esse hanno degli Stati Generali e dell’attuale situazione dell’esecuzione penale italiana. Al termine del lavoro di tesi è stato possibile dedurre che l’argomento della esecuzione penale nel nostro Paese è ancora molto difficile da trattare, non riscuote il favore dell’opinione pubblica e quindi i processi di trasformazione, di cui si sente sempre più il bisogno in seguito alla condanna da parte della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, sono molto lenti. Gli Stati Generali, inoltre, nonostante le intenzioni con cui sono stati progettati, non hanno avuto l’incisività auspicata, anche a causa del clima politico sfavorevole in cui sono inseriti. Il dibattito politico, infatti, si sta spostando nuovamente verso una stretta securitaria e questo non giova sicuramente al processo di apertura prospettato dagli Stati Generali e dal volontariato. Pertanto un sistema penale più dignitoso ed effettivamente rieducativo sarà possibile solo se si inizierà un vero percorso di cambiamento culturale sul tema della pena.. 6.

(7) La pena: definizioni teoriche. 1. Modelli di spiegazione delle sanzioni penali Philippe Combessie, nella sua opera “Sociologie de la Prison” distingue quattro tipi di spiegazione per le sanzioni: l’espiazione, la dissuasione, la neutralizzazione e la rieducazione. L’espiazione è rivolta al passato, all’atto già commesso. È il tipo più antico di spiegazione delle sanzioni penali, che risale al concetto religioso di castigo divino ed è indicato dagli studiosi come modello retributivo. Secondo questa concezione, la pena deve provocare una sofferenza alla persona condannata che bilanci la gravità del torto arrecato. “Le teorie retributive si basano sul libero arbitrio degli individui: i criminali devono essere puniti perché hanno avuto modo di scegliere, e le loro scelte li hanno condotti a fare del male.” 1 La dissuasione, indicata anche come modello utilitarista, al contrario dell’espiazione ha una logica rivolta al futuro. In questo modello la funzione della pena è preventiva, bisogna, infatti, trovare una sanzione simbolicamente comparabile al reato compiuto, che riesca ad intimidire tramite la minaccia della punizione. “La teoria della dissuasione è fondata sulla capacità di ragionamento degli individui, che, data l’entità delle pene applicate, faranno in modo di non trasgredire la legge.” 2 Questi due sono i modelli di spiegazione classici della pena, elaborati prima che la prigione diventasse il mezzo punitivo privilegiato, più recentemente invece si sono sviluppate altre logiche di punizione. Secondo la teoria della neutralizzazione, non si deve cercare di impedire che siano commesse infrazioni, ma rendere impossibile al colpevole commettere nuovi reati. È in questa logica che s’inserisce la pena capitale (sistema di neutralizzazione per eccellenza), ma anche la prigione, impedendo per un tempo predeterminato che un individuo possa commettere altri crimini. “La teoria della neutralizzazione è doppiamente pessimista, o, almeno, doppiamente diffidente: non ha fiducia nell’individuo,. 1. P. Combessie “Sociologie de la Prison” Édition La Découverte, Paris 2009, p 5. (Tutte le traduzioni tratte da questo testo sono mie.) 2 Cfr. ivi, p.16.. 7.

(8) che bisogna neutralizzare, né nel sistema giuridico-carcerario, che fornisce solo l’efficacia della recinzione. È la logica della reclusione del prigioniero di guerra.” 3 L’ultimo modello è la rieducazione, che considera la pena come un trattamento che permette al colpevole di reagire e di migliorarsi per essere reinserito nella società con meno rischi di commettere nuovamente un reato. I quattro modelli appena esposti portano all’attuazione all’interno degli Stati di diverse politiche penali, cioè di differenti modi di perseguire e sanzionare gli autori dei reati che avvengono sul proprio territorio. Anche se non si allude direttamente alla prigione, questa rimane un punto di riferimento importante per tutti i principali sistemi giudiziari. 2. Modelli di evoluzione storica dello sviluppo del penitenziario Il sociologo Stanley Cohen nella sua pubblicazione “Visions of Social Control: Crime, Punishment and Classification” (1985) individua tre diversi modelli di evoluzione storica dello sviluppo del penitenziario. Il primo è quello idealista o del “progresso senza fine”, in cui la storia della prigione è interpretata come un susseguirsi di riforme. Secondo questo modello l’incontro fra pensatori illuministi e religiosi evangelici e quaccheri, diffuse la convinzione che fosse necessario superare la crudeltà delle pene corporali, sostituendole con pene più umane e rieducative. Secondo questa interpretazione, quindi, i cambiamenti in ambito penale sono dovuti all’evoluzione del concetto di civiltà. 4 Tale modello trae ispirazione dalle tesi di Cesare Beccaria che nella sua opera “Dei delitti e delle pene” si pone contro la tortura e la pena di morte, promuovendo una visione del sistema penale basata su certezza della pena e proporzionalità rispetto al reato commesso. “Nell’interpretazione “idealista” le prigioni di oggi, disagevoli e sovraffollate, gli abusi di potere e le violenze dei controllori, le sentenze ingiuste e le condizioni spesso indegne di detenzione sono errori, gravi incidenti di percorso, non necessariamente senza responsabili, ma che con risorse adeguate, maggior sostegno alla ri-. 3 4. P. Combessie, op. cit., p.17. Cfr. F. Vianello “Il carcere. Sociologia del penitenziario”, Carocci editore, Roma, 2012, pp. 16-17.. 8.

(9) cerca, il potenziamento dell’edilizia penitenziaria… in conclusione con investimenti degni di un paese “civile”, potrebbero essere superati e risolti.” 5 Il secondo modello per la spiegazione dello sviluppo del penitenziario è quello strutturalista, che giustifica i cambiamenti dell’esecuzione penale con l’emergere e l’affermarsi dell’economia capitalistica. Secondo questa corrente di pensiero lo sviluppo del sistema carcerario non avviene a causa di un’umanizzazione della pena, ma per isolare i membri della società che sono ancora restii a disciplinarsi all’emergente società capitalista, in modo tale da trasformarli in membri di un proletariato socialmente affidabile e sicuro. 6 In questa visione della pena “le moderne prigioni sovraffollate, punitive, meramente contenitive, sono come una fabbrica, la cui funzione non è quella di mettere direttamente al lavoro i corpi impiegandoli direttamente nella produzione, ma quella di produrre lavoratori disciplinati, adatti alle mutevoli esigenze dell’ordine industriale capitalista.” 7 I sostenitori di questo modello, quindi, sostengono che le teorie degli scienziati penali e le idee dei riformatori, nascondano il dominio delle classi che traggono profitto dalle trasformazioni del sistema punitivo. Alcuni studiosi, tra cui Ignatieff, pur riconoscendo la centralità degli interessi economici e materiali e delle relazioni fra classi, forniscono una lettura più complessa del sistema penale, tenendo in considerazione anche i mutamenti delle forme di esercizio del potere. 8 Il terzo modello è quello disciplinare che, attraverso una prospettiva funzionalista, intende il carcere come una risposta funzionale ai problemi di deregolamentazione sociale. Il criterio principale su cui si basa questo modello è quello che attraverso l’isolamento dei devianti sia possibile pervenire ad una correzione dei loro comportamenti, nella misura in cui essi sono considerati plasmabili dall’ambiente sociale in cui sono inseriti. La prospettiva funzionalista però non tiene conto del fallimento dell’istituzione carceraria, ossia del fatto che questa sia degenerata in “istituzioni meramente custo-. 5. F. Vianello, op. cit., pp. 19-20 Ivi p. 20 7 Ivi, p. 22 8 Cfr. ivi, pp. 22-23. 6. 9.

(10) diali, sovraffollate, spesso violente, certo non rieducative: in una sola parola inefficienti.” 9 Tuttavia, nonostante il fallimento nel raggiungere gli obiettivi dichiaratamente perseguiti, cioè la correzione dei comportamenti devianti e la conseguente la trasformazione delle persone recluse, la legittimazione del penitenziario non viene meno. Durante il XX secolo si assiste al passaggio dal modello retributivo della pena a quello rieducativo, introducendo programmi di trattamento all’interno degli istituti. Per di più vengono introdotte soluzioni alternative alla detenzione, che non riescono però a sostituire la pena detentiva, andando ad aggiungersi ad essa. Il sistema quindi sopravvive nonostante gli obiettivi dichiarati non siano mai stati raggiunti: il carcere non è riuscito a ridurre la criminalità, e questo è confermato dagli alti tassi di recidiva, e non è riuscito a riabilitare le persone, che subiscono gli effetti della cosiddetta “prigionizzazione”. 10 Perché il sistema sopravvive? Secondo Rothman questo avviene perché è conveniente per gli operatori del sistema penale che avrebbero stretto un’alleanza simbolica con i riformatori per garantire la sopravvivenza dei programmi penali nonostante gli insuccessi. 11 In quest’ottica gli obiettivi originari del sistema penitenziario sarebbero stati sostituiti con altri scopi, legati alla sopravvivenza e alla riproduzione del sistema penitenziario. I tre modelli di evoluzione storica del sistema penitenziario non devono essere considerati completamente contrapposti, in realtà, come suggerisce Ignatieff “la vera sfida è quella di trovare un modello di spiegazione storica che renda conto dei cambiamenti istituzionali senza imputare una razionalità cospiratoria alla classe dominante, senza ridurre lo sviluppo istituzionale ad un informe aggiustamento ad hoc guidato dalle crisi contingenti, e senza farsi carico di un’iper-realista crociata umanitaria trionfante contro tutto e tutti. Questi sono i trabocchetti da affrontare; il pro-. 9. F. Vianello op. cit., p. 26. Cfr. ivi, p. 27. 11 D. J. Rothman in F. Vianello, op. cit., p. 28. 10. 10.

(11) blema è lo sviluppo di un modello che li eviti fornendo al tempo stesso un’effettiva spiegazione.” 12 3. Il contributo di Garland alla sociologia della pena David Garland ha cercato di realizzare l’integrazione fra teorie auspicata da Ignatieff, diventando con la sua opera “Pena e società moderna”, un punto di riferimento per riflettere sul significato della pena. Egli parte dal presupposto che “la funzione della pena nella società moderna non è per nulla scontata. Essa costituisce qualcosa di profondamente problematico e difficile da comprendere nella sua essenza. Il fatto che, al contrario, possa apparire come qualcosa di ben definito è da imputarsi più all’effetto oscurante, e allo stesso tempo rassicurante, prodotto dalle istituzioni, che alla razionalità lineare delle pratiche penali”. 13 Garland ritiene che ci si riferisca alla pena in maniera troppo semplicistica, non tenendo conto che questa rappresenta un insieme di eventi e istituzioni fra loro correlati e che quindi non ci sia una sola finalità o un unico significato della pena, ma molteplici scopi e accezioni consolidatisi nel tempo. Scopo principale, ma non unico, della penalità è sicuramente quello di ridurre o contenere i tassi di criminalità, tuttavia i sociologi hanno sempre ricercato il suo significato al di là della sua funzione di controllo della delinquenza, ritenendola come una limitazione del campo d’indagine. 14 Scrive, infatti, Garland: “Si potrebbe affermare con una certa tranquillità che la condotta delinquenziale non è l’unica determinante del tipo di reazione penale messa in atto da una determinata società. E ciò per due ragioni: la prima, in quanto non è tanto il reato o la sua conoscenza criminologica ad influire sul tipo di decisione politica da prendere, quanto, piuttosto, i diversi modi con cui il problema della criminalità viene ufficialmente percepito e affrontato politicamente; la seconda ragione sta nel fatto che le forme di controllo della criminalità, quelle relative al tipo di processo e di pena adottati, la severità delle sanzioni e la frequenza con la quale vi si ricorre, il regime istituzionale e le modalità con cui si condanna sono aspetti determi12. M. Ignatieff “Stato, società civile ed istituzioni totali: una critica delle recenti storie sociali della pena” in E. Santoro “Carcere e società liberale”, G. Giappichelli Editore, Torino, 2004, pp. 260-261. 13 D. Garland “Pena e società moderna”, Il Saggiatore 1999, p. 43. 14 Cfr. ivi pp. 55-57.. 11.

(12) nati dagli accordi sociali e dalla tradizione, piuttosto che dal tipo di criminalità esistente. Di conseguenza quando il sistema penale affronta il problema del controllo della criminalità, lo fa in maniera fortemente mediata da considerazioni indipendenti dal fenomeno, quali convenzioni culturali, valutazioni di carattere economico, dinamiche istituzionali e ragioni di politica generale.” 15 Nell’opera “Pena e società moderna” sono individuate quattro principali teorie sociologiche della pena: •. La tradizione durkheimiana. •. Gli studi marxisti di Rusche e Kirchheimer. •. Gli scritti di Foucault. •. Gli scritti di Elias. 3.1 La tradizione durkheimiana Durkheim analizza la dimensione macro-sociologica del nesso tra delitto e castigo. Egli colloca, infatti, il fenomeno della repressione penale all’interno di meccanismi che garantiscono l’omogeneità sociale e la gerarchia di differenziazioni dovute all’organizzazione del lavoro. 16 Secondo il sociologo francese, un certo grado di devianza è normale nelle strutture sociali e stimola una reazione comune dei membri di una società, rinforzando il sentimento collettivo che sostiene la conformità alle norme. 17 Il reato è descritto come una condotta che viola gravemente la coscienza collettiva della società, si può pertanto comprendere che non rappresenta una categoria immutabile, poiché cambia nel corso del tempo e dell’ambito territoriale, in base alle norme e alle convenzioni sociali esistenti. I reati sono puniti proprio perché contravvengono agli obblighi considerati sacri e diffusamente condivisi, provocando una reazione psicologica anche in chi non ne è direttamente colpito e determinando un desiderio di vendetta. Per il sociologo francese nel corso del tempo cambia solo il modo di intendere la pena, ma non la sua natura vendicativa. Di conseguenza la pena rappresenta l’intensità con cui il crimine ha impressionato la coscienza collettiva. 15. D. Garland op. cit. pp.58-59. E. Santoro, op. cit., p. 26. 17 M Ciarpi, R. Turrini Vita, “Le trasformazioni del probation in Europa”, Laurus Editore, Roma, 2015, p. 49. 16. 12.

(13) Secondo Durkheim i popoli primitivi “puniscono per il piacere di punire, fanno soffrire il colpevole unicamente per farlo soffrire e senza aspettarsi nessun profitto dalle sofferenze che gli impongono.” 18 Nel passaggio dalle società tribali a quelle moderne la natura della pena sarebbe rimasta essenzialmente immutata, con l’unica differenza che chi la infligge è maggiormente consapevole degli effetti che intende produrre. La pena “è rimasta, almeno in parte, un atto di vendetta; si dice che non facciamo soffrire il colpevole per farlo soffrire, ma è pur sempre vero che troviamo giusto che soffra.” 19 Uno dei concetti che si trovano alla base della teoria di Durkheim è quello di “solidarietà sociale”, un vincolo che tiene uniti i membri all’interno di una società e che muta nel tempo con l’evolversi di essa. Nel passaggio dalle società tribali a quelle moderne, muta il significato del concetto di solidarietà: le società primitive erano basate su una “solidarietà meccanica”, in cui la convivenza era basata sulle credenze religiose che dovevano essere comuni a tutti i suoi membri. Le società moderne, invece, si basano sulla “solidarietà organica”, fondata non più sulla somiglianza delle credenze ma sulla complementarietà di diversi tipi di soggetti prodotti dalla differenziazione del lavoro. Nel saggio “le due leggi dell’evoluzione penale”, infatti, il sociologo enuncia due teorie: la prima, chiamata “legge delle variazioni quantitative” afferma che “quanto più le società sono di tipo meno evoluto, e quanto più il potere centrale presenta i caratteri dell’assolutismo, tanto maggiore è l’intensità della pena.” 20 La seconda legge, chiamata “legge delle variazioni qualitative”, invece, dichiara che “le pene privative della libertà e della sola libertà per periodi di tempo che variano a seconda della gravità dei delitti, tendono a diventare sempre più il tipo normale di repressione.” 21 Nella sua opera Garland ritiene che ci siano alcuni punti deboli nella teoria di Durkheim, soprattutto nella sua ricostruzione storica dell’evoluzione penale, perché lo stadio primitivo e quello avanzato della pena sono considerati separati fra loro, ma in realtà è stato dimostrato che all’interno della stessa società operano simultanea-. 18. É. Durkheim in E. Santoro, op. cit., p.27. Ivi, p. 29. 20 Ivi, p. 251. 21 Ivi, p. 254. 19. 13.

(14) mente diversi sistemi di relazioni sociali e di misure penali. Per Garland, quindi, la ricostruzione di Durkheim è troppo lineare e adattata funzionalmente per aderire ai fatti. 22 In “Pena e società moderna” l’autore rielabora la teoria del sociologo francese, suggerendo una nuova definizione del concetto di coscienza collettiva. Garland ritiene che Durkheim non abbia mai definito questo concetto, ma l’abbia dato per scontato, quindi cerca di fornirne una definizione. Innanzitutto realizza una considerazione sul fatto che l’osservanza delle leggi non implica necessariamente l’esistenza di una coscienza collettiva, poiché questa può spesso derivare da motivazioni utilitaristiche, come evitare di ricevere una sanzione penale. Inoltre a differenza di Durkheim, che riteneva i conflitti motivo di rottura in una società, per Garland il conflitto rappresenta un processo di lotta e negoziazione fra interessi opposti che portano al prevalere di determinate modalità relazionali e valori morali. Bisognerebbe quindi parlare di “ordine morale dominante” e non di coscienza collettiva. In conseguenza di questa precisazione le leggi non possono più essere considerate una mera espressione dei valori collettivi, perché contribuiscono esse stesse alla costruzione di questi ultimi. Garland critica anche la concezione di sacralità che Durkheim dà alla penalità poiché, pur ritenendo che le norme riflettano i bisogni e i sentimenti dei cittadini, queste rispecchiano anche gli interessi dei detentori del potere. Nonostante Garland ritenga la teoria di Durkheim carente sotto molti punti di vista, le dà il merito di aver spostato l’attenzione sugli aspetti politici, sociali ed emotivi della pena, svelando un significato simbolico che va oltre il controllo della criminalità, cioè quello del mantenimento dell’autorità. 3.2 Gli studi marxisti di Rusche e Kirchheimer Nonostante non esistano negli scritti di Marx ed Engels dei riferimenti diretti alla penalità, questi possono essere ricavati dalla loro teoria della struttura sociale e dell’evoluzione storica. Secondo l’orientamento marxista in ogni società sono i gruppi economicamente dominanti a detenere il potere in tutte le sfere della vita collettiva, compresa la pena. 22. Cfr. D. Garland op. cit. pp. 86-87.. 14.

(15) La società è per Marx formata da una struttura, che raffigura l’economia e da una sovrastruttura, rappresentazione della politica e dell’ideologia. Nonostante la sovrastruttura abbia delle caratteristiche ben distinte e incida sulla vita sociale, è la struttura che fornisce una base d’appoggio alla vita collettiva. 23 Le analisi marxiste si orientano verso la pena all’interno del processo di rinnovamento culturale avvenuto a partire dalla fine della seconda guerra mondiale, che ha portato ai filoni neo-marxisti come quello della Scuola di Francoforte di cui fanno parte Rusche e Kirchheimer. Nella loro opera “Pena e struttura sociale” e nella precedente opera di Rusche “Mercato del lavoro e sanzione penale”, viene approfondita la questione della pena attraverso l’ottica marxista. L’analisi dei due autori si concentra sull’individuazione dei fattori che determinano le modalità sanzionatorie. Innanzitutto bisogna specificare che per Rusche e Kirchheimer “la pena come tale non esiste; esistono solo concrete forme punitive e specifiche prassi penali”. 24 Il secondo punto che caratterizza la loro analisi della pena è il suo cosiddetto “significato indipendente”, vale a dire che anche se lo scopo principale della pena è quello del controllo della criminalità, essa è influenzata anche da fattori sociali più generali e il suo significato va oltre la sua finalità principale. 25 Rusche e Kirchheimer considerano la politica penale come solo una delle parti della strategia di controllo delle classi subalterne insieme alle fabbriche, alle leggi assistenziali e al mercato del lavoro. Secondo Rusche “il diritto penale si dirige quasi esclusivamente contro chi è condotto al delitto dalla propria origine, dalla miseria sociale, da un’educazione trascurata o dall’abbandono morale”. 26 Per questo la pena deve essere considerata un meccanismo fondamentale all’interno della lotta di classe fra borghesia e proletariato. Essa, infatti, è percepita come un’istituzione benefica per la società, ma in realtà la sua funzione è, secondo i due autori, quella di sostenere gli interessi di una classe a scapito di un’altra. All’interno dell’opera di Rusche e Kirchheimer viene eseguita una ricostruzione storica al fine di identificare le tipologie di pena messe in atto a partire dal medioevo.. 23. D. Garland op. cit. p. 125. G. Rusche, O. Kirchheimer in D. Garland op. cit. p. 130. 25 Cfr. ibidem 26 G. Rusche in D. Garland op. cit. p. 131. 24. 15.

(16) Nel primo Medioevo non esisteva un sistema punitivo di Stato, per cui le faide e le “penances”, cioè le pene pecuniarie dovute alla parte offesa, costituivano i rapporti giuridici fra i soggetti. “Il diritto penale vi giocava un ruolo secondario, come strumento di difesa della gerarchia sociale: la tradizione, un equilibrato sistema di dipendenza sociale e la celebrazione religiosa dell'ordine stabilito, costituivano una garanzia più che sufficiente.” 27 Dal XV secolo, però, si assiste alla crescente centralizzazione del potere e allo sviluppo di un severo diritto penale rivolto verso le classi inferiori. Il sistema delle pene pecuniarie, infatti, era applicato solo ai ceti benestanti, mentre quelli più poveri subivano pene corporali. Secondo Rusche e Kirchheimer la brutalità e la visibilità delle pene messe in atto nel. tardo. medioevo,. contro. una. popolazione. agricola. povera. e. dedita. all’accattonaggio, al vagabondaggio e al crimine, serve per convogliare l’odio delle masse nei confronti dei singoli criminali, e consentire all’autorità di deviare da sé la responsabilità per la difficile situazione economica. Il secondo periodo preso in considerazione dai due autori è l’epoca mercantilista, in cui a causa della mancanza di forza lavoro, degli alti salari e delle difficoltà nel trovare persone idonee alla vita in mare, si ha il graduale abbandono delle punizioni corporali e l’introduzione di nuove forme di pena come la servitù sulle galere, la deportazione nelle colonie e la condanna ai lavori forzati. Centrale in quest’epoca è la creazione delle “case di correzione”, che combinano all’interno della stessa struttura le caratteristiche dell’ospizio per poveri, delle case di lavoro e dell’istituzione penale, sfruttando la forza lavoro e addestrando nuove riserve di manodopera. Le case di correzione pongono le basi per il sistema penitenziario moderno. Dal XVII secolo avvengono dei cambiamenti sociali importanti, si assiste, infatti, ad un rapido incremento demografico e ad un contestuale abbandono delle campagne da parte dei contadini che, non riuscendo più a sostenersi lavorando la terra, si riversano nei centri urbani. Con la prima rivoluzione industriale e le prime forme di produzione di massa, si raggiungono alti tassi di disoccupazione e politiche inconsistenti, che si tramutano in alti tassi di criminalità.. 27. G. Rusche, O. Kirchheimer, “Pena e struttura sociale”, Il Mulino, Bologna, 1984, p.30.. 16.

(17) L’inserimento delle macchine industriali nella produzione rende il lavoro svolto in precedenza dai detenuti all’interno degli istituti di correzione, più costoso, quindi meno conveniente di quello svolto dagli operai all’interno delle fabbriche. Nonostante le continue richieste da parte della classe dominante di reintrodurre metodi di punizione corporali, l’autorità sceglie di concentrarsi sulla detenzione, poiché il pensiero illuminista aveva condannato fortemente la crudeltà di tali pene. Il carcere quindi si trasforma in un istituto di deterrenza basato sul terrore e sul degrado. Il lavoro in carcere, da mezzo di addestramento professionale e fonte di reddito si trasforma in un’attività fine a se stessa e non correttiva. È solo a partire dall’inizio del novecento che le pene cessano di essere funzionali ai processi di produzione capitalistici. Per Garland il lavoro di Rusche e Kirchheimer è criticabile nelle argomentazioni sia per quanto riguarda la storia delle deportazioni che per quella delle case di correzione. “Quanto all’addestramento di una forza lavoro docile, analisi più rigorose evidenziano che questo aspetto […] è dovuto più a un disegno cosciente dei riformatori che a una conseguenza necessitata dalla struttura economica, e non è quindi corretto spiegare la lunga storia delle case di correzione unicamente in questi termini.” 28 I due autori sopravvalutano, inoltre, il ruolo dei fattori economici nella penalità e sottovalutano l’importanza di quelli ideologici e politici. Il problema della lettura che Rusche e Kirchheimer danno della penalità è che presentano un importante modello causale come l’unico possibile, senza indagare come le pressioni economiche agiscano insieme ad altre forze non economiche nella formazione delle pratiche penali. Pur criticando la loro lettura del sistema penitenziario, Garland riconosce però ai sociologi della scuola di Francoforte il merito di aver chiarito come elementi di carattere economico e finanziario giochino un ruolo importante nelle decisioni di politica penale, rendendo le istituzioni giudiziarie parte delle strategie di intervento sulle classi subalterne. 29. 28 29. G. Garland, op. cit., pp. 148-149. Cfr. ivi, p. 152.. 17.

(18) 3.3 Gli scritti di Foucault Nella sua opera “Sorvegliare e punire”, Foucault si occupa di descrivere i meccanismi di controllo e disciplina delle istituzioni penali moderne, mettendo in luce anche i meccanismi che legano la penalità alle altre forme di potere. Tralasciando la componente morale ed emotiva della pena, questa posizione si pone in netto contrasto con quella di Durkheim. Per Foucault la pena è un sistema di potere e controllo imposto a una popolazione, non dipende dai sentimenti collettivi. La posizione del sociologo è critica anche nei confronti della teoria marxista che si concentra prevalentemente sull’influenza che la divisione in classi ha sulle forme penali, invece di concentrarsi sui rapporti di potere interni alla pena. L’opera di Foucault si apre mettendo a confronto due modalità punitive diverse fra loro: l’esecuzione capitale pubblica di un parricida a Parigi nel 1757 e l’orario istituzionale che regola la giornata all’interno di un riformatorio. Nel primo caso la punizione, eseguita davanti ad una folla di spettatori, è un rituale atroce in cui il corpo del condannato viene squarciato dando luogo ad una forma di violenza autorizzata. Nel secondo caso invece, la pena è eseguita in privato, senza ricorrere alla violenza e senza nessuna cerimonia pubblica. Le due forme di pena indicano rispettivamente la modalità classica e quella moderna dell’esercizio di potere, quello che cambia nel corso del tempo non è la quantità o l’intensità delle pene, ma il fine. Le forme penali moderne si dirigono “all’anima” del reo e non al corpo, non si cerca più di vendicarsi ma di trasformare il delinquente. “Con la nascita della prigione si va delineando un nuovo interesse, volto alla conoscenza della persona del criminale, alla comprensione delle sue matrici delinquenziali e alle possibilità di intervento per correggerle”. 30 Questo comporta l’inserimento nel processo penale di nuove professionalità che hanno il compito di indagare la storia personale del reo e creare un programma correzionale ad hoc. L’idea di correzione indica un trattamento volto a produrre individui normali e conformi alle leggi. I concetti fondamentali negli studi di Foucault sono quelli di corpo, potere e sapere: il corpo viene inteso come “il luogo per eccellenza dell’assoggettamento e della 30. Ivi, p. 179.. 18.

(19) manipolazione da parte di tutte le istituzioni, siano esse politiche, economiche o penali. […] Alcune istituzioni, come il lavoro forzato, dominano il corpo dall’esterno, vale a dire usando la forza e la costrizione fisica per piegare gli individui. Altre, invece, fanno sì che gli individui ne interiorizzino i comandi, fabbricando un soggetto che risponde spontaneamente a ciò che è richiesto, senza dover impiegare alcuna forza esterna.” 31 Il potere è concepito come una forma di dominio e sottomissione, un bilanciamento asimmetrico di forze che agiscono ovunque ci siano relazioni sociali. Foucault nei suoi studi si concentra sul modo in cui si organizzano i rapporti di potere e le forme che esso assume, tralasciando i gruppi o gli individui che dominano o sono dominati. Il potere opera attraverso gli individui e non contro di essi fabbricando un soggetto che ne è allo stesso tempo veicolo. 32 Il sapere rappresenta invece quel complesso di conoscenze da cui dipendono le tecniche e le strategie del potere. Ogni modalità di esercizio del potere ha bisogno di una conoscenza del bersaglio verso cui è indirizzata, quindi fra potere e sapere c’è uno stretto rapporto perché s’incrementano a vicenda. La storia della pena deriva dall’insieme delle relazioni, in continua evoluzione, fra questi tre concetti. In Sorvegliare e punire Foucault si pone un quesito fondamentale: come mai alla fine del Settecento il sistema penale diventa più umano, sopprimendo la spettacolarizzazione e la violenza che erano fino a quel momento un caposaldo della pena? Secondo il sociologo, alla base di questo cambiamento ci sono presupposti politici e di organizzazione del potere, perché le esecuzioni pubbliche spesso degeneravano in disordini poiché la folla faceva del condannato un eroe popolare. Il popolo cominciava a ribellarsi contro ciò che riteneva ingiusto e a criticare duramente la giustizia penale, chiedendo più umanità e il rispetto dei diritti anche per coloro che avevano commesso dei reati. Cambia nel corso del tempo anche la percezione della legalità, infatti, azioni come la caccia o la pesca di frodo o l’evasione, comunemente accettate nell’economia dell’ancien régime, cominciano ad essere percepite come una violazione del diritto di proprietà e conducono alla richiesta di un sistema penale più razionale e certo, che si basi su forme di controllo più estese. 31 32. M. Foucault in D. Garland op. cit., p. 180. Cfr. ivi p. 181.. 19.

(20) Si sviluppano così nuove teorie come quella di Beccaria che propongono tipi di sanzioni che siano congrue al reato commesso e che agiscano sugli interessi che hanno portato alla commissione del reato. In questa concezione la pena è una lezione, una rappresentazione della moralità pubblica manifestata apertamente a tutti. Foucault ritiene quindi paradossale che, in seguito alle teorie dei riformatori, la pena detentiva sia diventata la modalità tipica del diritto penale moderno. Con la diffusione delle prigioni, i criminali non sono più concepiti in modo astratto, si può dire che viene scoperta la “figura del delinquente”, la cui storia e ambiente di provenienza lo etichettano come diverso. Foucault sostiene che la prigione “fabbrichi” i delinquenti giacché crea le condizioni per la recidiva (la stigmatizzazione, la de-moralizzazione e la privazione di professionalità) e produce la categoria dell’ “individuo criminale”, un soggetto che diventa oggetto di studio e di controllo. 33 L’autore di Sorvegliare e punire, dichiara negli ultimi capitoli della sua opera, il fallimento della prigione: in effetti, la prigione ha molti difetti secondo Foucault (è incapace di ridurre i tassi di criminalità, produce recidiva, rende più povere le famiglie dei detenuti ecc.), tanto da essere stata sempre oggetto di critiche che non si sono esaurite ai giorni nostri, tuttavia è ancora la riposta punitiva più usata. “Da un secolo e mezzo, la prigione è sempre stata considerata come il rimedio di se stessa; la riattivazione delle tecniche penitenziarie come il solo mezzo per riparare il loro perenne scacco; la realizzazione del progetto correttivo come il solo metodo per sormontare l'impossibilità di realizzarlo nei fatti.” 34 Foucault quindi si domanda quali sono i motivi che consentono alla prigione di continuare ad esistere e propone due argomentazioni: la prima è che l’istituzione della prigione è profondamente radicata, cioè connessa a pratiche disciplinari più ampie; la seconda è che il carcere risponde a delle precise funzioni. In quest’ottica il carcere non ha fallito, ma si può parlare di un successo mascherato. 35 Foucault si interroga, infatti, su quali interessi soddisfi la produzione di delinquenza e di recidiva e afferma che questi sono utili a una strategia di dominio politico perché separano il crimine dalla politica, creando una spaccatura nella classe lavo-. 33. Cfr. ivi p.193. M. Foucault, “Sorvegliare e punire”, Einaudi, Torino 2005, p. 232. 35 Cfr. D. Garland op. cit., p. 194 34. 20.

(21) ratrice e incrementando la paura nei confronti della prigione, legittimando in questo modo l’autorità e i poteri della polizia. La conclusione cui giunge è che “producendo una classe delinquenziale ben definita, la prigione assicura che i delinquenti abituali siano noti alle autorità e agevolmente controllati e tenuti sotto sorveglianza da parte della polizia. Inoltre l’esistenza di una classe delinquenziale può essere funzionale alla repressione di altri tipi di illegalità.” 36 In breve, per Foucault la ratio del carcere è di controllare la classe lavoratrice attraverso la creazione del soggetto criminale, per questo la prigione sopravvive grazie ai suoi stessi limiti. La critica principale che Garland rivolge a Foucault sta proprio nella sua visione del fallimento della prigione. Nella sua logica la struttura detentiva non controlla il criminale, bensì la classe operaia attraverso la creazione della figura del delinquente. Questa prospettiva non è convincente però secondo Garland e neanche sufficientemente comprovata. Foucault ha semplicemente scambiato le conseguenze (casuali) della prigione con la sua raison d’être (intenzionale). 37 Per Garland, le aspettative di redenzione e controllo dei tassi di criminalità sono utopistiche quindi non possono essere usate come metro di valutazione della riuscita del carcere. “Se si ragiona sulla prigione usando gli stessi parametri con cui si giudicano le altre istituzioni- per esempio la scuola, l’ospedale, i sistemi di assistenza e di sicurezza sociale-, allora il suo fallimento non può essere assolutamente dato per scontato. Tutte le istituzioni comportano costi sociali elevati e hanno solo un parziale successo nel perseguire i loro molteplici obiettivi: il giudizio in merito a questo successo dipende dalle nostre capacità di comprenderne le finalità e le aspettative.” 38 La prigione, quindi, continua ad esistere per molte ragioni (domande di pena, motivi economici o mancanza di proposte alternative) che non sono quelli proposti da Foucault.. 36. Ibidem. Cfr. ivi p.209. 38 D. Garland, op. cit., p. 209 37. 21.

(22) 3.4 Gli scritti di Elias Elias non si occupa direttamente della penalità, ma i suoi studi sono importanti poiché delineano fenomeni culturali che possono essere guardati anche attraverso la lente della sociologia della pena. Nella sua opera “Il processo di civilizzazione”, il sociologo descrive il processo di trasformazione della sensibilità occidentale, dal tardo Medioevo al XX secolo, individuando diversi modelli evolutivi. Il termine civiltà indica, nell’opera di Elias, una trasformazione del comportamento umano, sia individuale sia collettivo, che si esprime sotto forma di pratiche culturali, rituali e istituzioni. Studiando questi comportamenti, sono descritte anche le strutture psichiche e sociali che ne stanno alla base. “Elias sostiene che i cambiamenti che avvengono nelle istanze culturali e nelle relazioni sociali finiscono per avere un impatto sull’organizzazione psichica degli individui e, in particolare, sulla loro struttura pulsionale ed emotiva”. 39 La trasformazione culturale, quindi, genera un processo psichico di civilizzazione che incide sullo sviluppo dell’autocontrollo, sull’interiorizzazione dei freni inibitori e sulla repressione dei sentimenti di paura, vergogna e imbarazzo. Per Garland la storia della pena riproduce il modello evolutivo della civiltà offerto da Elias: alcuni momenti della vita quotidiana (la violenza, la malattia, il dolore, la morte ecc.) considerati normali in una certa epoca, diventano a un certo punto della storia motivo di grande imbarazzo o disgusto e sono relegati nel retroscena della vita sociale. Gli stessi cambiamenti hanno investito anche la penalità: l’esecuzione capitale e le pene corporali che avvenivano pubblicamente (in un’esibizione di sofferenza inflitta in nome della legge), con il passare del tempo cominciano a essere considerate ripugnanti e sono nascoste dietro le mura delle prigioni. 40 Secondo Elias la violenza non scompare, ma è nascosta alla società, pronta per essere usata in caso di emergenza, diventando una minaccia costante nei confronti dei potenziali devianti. In seguito, la stessa idea di esercitare forme di violenza sui criminali diviene inopportuna e le pene capitali e corporali sono abolite e sostituite da altre sanzioni come la detenzione. 39 40. Ivi p. 261. Cfr. Ivi pp. 264-267.. 22.

(23) Le teorie di Elias sono riprese e rielaborate da Spierenburg, che nel suo “The Spectacle of Suffering” descrive il declino delle esecuzioni pubbliche come un fenomeno che va di pari passo con il processo di trasformazione della sensibilità. Nell’opera di Spierenburg sono descritte in maniera dettagliata le misure penali in vigore in Europa fra il 1650 e il 1750. Il simbolo più rappresentativo dei metodi punitivi dell’epoca è il patibolo, fisso, in pietra, collocato nelle periferie urbane, che sta a segnalare che quella è una “città di legge”. Varie pratiche atroci sono eseguite durante pubbliche cerimonie cui partecipano folle immense e questo, secondo Spierenburg presuppone una società tollerante nei confronti dell’inflizione pubblica del dolore e indifferente alla sofferenza dei condannati. 41 Fra XVI e XVII secolo la società era caratterizzata da un basso livello di sicurezza pubblica, gli individui possedevano normalmente delle armi e dominava ancora l’etica del guerriero feudale. Dalla fine del Seicento inizia, tuttavia, un processo di revisione dell’atteggiamento tollerante nei confronti della violenza che contribuisce a formare quella che è la nostra sensibilità verso la sofferenza altrui. L’evoluzione della sensibilità, secondo Spierenburg, inizia coinvolgendo i ceti più elevati e con il trascorrere del tempo coinvolge anche gli altri ceti sociali, portando, dalla metà del Settecento ad abolire l’uso della tortura giudiziaria, anche grazie alla diffusione delle teorie illuministe. “Il fatto che nel 1870 quasi tutti i paesi europei aboliscano l’esecuzione pubblica della pena […], va inteso poi quale “conclusione politica” di un processo culturale iniziato secoli prima.” 42 Tuttavia, nonostante il processo di civilizzazione della pena, per Garland non c’è stato un aumento della simpatia (intesa come partecipazione allo stato d’animo di un’altra persona) nei confronti dei rei o un miglioramento delle condizioni di vita nelle prigioni. Molte carceri continuano a essere luoghi miseri e la pena di morte continua ad essere in vigore in numerosi stati degli Usa, ciò è dovuto per Garland al fatto che la privatizzazione della pena ha impedito ai rei di avere dei contatti con il mondo esterno, aumentando la loro alienazione e limitando la conoscenza pubblica delle loro condizioni di vita.. 41 42. Cfr. ivi, p. 269. Ivi, p. 271.. 23.

(24) Inoltre ai miglioramenti della pena avvenuti nel corso del tempo, si sono contrapposti sempre altri interessi, come il mantenimento della sicurezza sociale, il bisogno di deterrenza e il desiderio di punizione nei confronti dei criminali. I delinquenti continuano a essere considerati non come soggetti problematici, devianti o vittime a loro volta dell’ingiustizia sociale, ma come un pericolo costante per gli altri membri della società. 43 4. Il ruolo dei media nella percezione della sicurezza Il ruolo dei media è un argomento controverso che meriterebbe un più ampio approfondimento, che esula dagli obiettivi di questo lavoro. Tuttavia, alla luce di quanto teorizzato da Elias e da Garland, è importante tracciare a grandi linee i fattori che contribuiscono ad acuire il desiderio di punizione dei criminali e il senso di insicurezza che si diffonde nell’opinione pubblica. La maggiore influenza su quest’argomento arriva dalla classe politica e di conseguenza dai media: quotidianamente sono proposte notizie di cronaca che hanno a che fare, direttamente o indirettamente col tema della sicurezza. Dinamiche esterne come l’inserimento del tema nell’agenda politica, influenzano sia la scelta delle notizie di cronaca da pubblicare, sia il modo in cui i media costruiscono la relazione tra cronaca e sicurezza. Negli ultimi anni i media italiani hanno enfatizzato il discorso sulla sicurezza descrivendola come qualcosa da tutelare dalla minaccia che arriva dalla criminalità e dall’immigrazione. La definizione che dà Bauman di sicurezza (o meglio di insicurezza) è molto spesso utilizzata per descrivere la situazione in cui si trova oggi la popolazione, scrive infatti il sociologo nella sua opera “La solitudine del cittadino globale”: “Le più infauste e dolorose tra le angustie contemporanee sono rese perfettamente dal termine tedesco "Unsicherheit", che designa il complesso delle esperienze definite nella lingua inglese "uncertainty" (incertezza), "insecurity" (insicurezza esistenziale) e "unsafety" (assenza di garanzie di sicurezza per la propria persona, precarietà).” 44 Bauman descrive quindi la certainty dicendo che, poiché conosciamo la differenza fra ragionevole e sciocco, giovevole e dannoso, nutriamo la speranza di essere nel 43 44. Cfr. ivi pp. 278-279. Z. Bauman “La solitudine del cittadino globale”, Feltrinelli editore, 2000, p. 6. 24.

(25) giusto, anche perché conosciamo gli indizi e i segni premonitori che ci permettono di distinguere una mossa buona da una falsa. “Quando l'esistenza individuale si viene a trovare tra un polo che attrae e uno che respinge, e la posizione occupata tra i due poli non è né stabile né adeguatamente garantita, nessuna posizione offre una certezza sufficiente al benessere spirituale.” 45 Con security Bauman indica la nostra visione del mondo come stabile e affidabile, così come lo sono i suoi criteri di correttezza e le abitudini e abilità acquisite, che ci permettono di agire con efficacia e superare le sfide della vita. “L'insicurezza delle condizioni di vita, insieme con l'assenza di un'istituzione cui rivolgersi con fiducia, un'istituzione capace di mitigare quell'insicurezza o perlomeno di ascoltare le richieste di maggiore sicurezza, arrecano un danno profondo alla politica di vita.” 46 Per safety invece, Bauman intende quella convinzione che ci fa credere che, purché ci comportiamo in maniera giusta, nessun pericolo fatale minaccerà il nostro corpo, la nostra famiglia o i nostri beni. “Sembra che gli individui non possano far molto, singolarmente o collettivamente, per contrastare, e tanto meno sconfiggere, le minacce alla sicurezza della loro condizione sociale o alla certezza delle loro prospettive future. […] Le minacce alla sicurezza personale, reali o presunte, hanno il vantaggio di essere materiali, visibili e tangibili; questo vantaggio ne comporta un altro, da cui è superato e rafforzato: quello della relativa facilità con cui tali minacce si possono affrontare e forse anche neutralizzare. […]Pertanto, quello cui oggi siamo di fronte è una sorta di «sovraccarico di sicurezza personale»”. 47 Marcello Maneri ritiene che “L’insicurezza è diventata il tema dominante nelle campagne elettorali degli ultimi anni e più in generale il frame entro il quale svariati fenomeni sociali sono affrontati nel dibattito politico (non solo la criminalità e l’immigrazione, ma anche, in molti casi, le politiche sociali). Anche nel discorso mediatico il riferimento ai concetti di sicurezza e insicurezza è sempre più insistente.” 48 Maneri ha svolto un’analisi dei maggiori quotidiani italiani sul tema della sicurezza, riscontrando che la frequenza di utilizzo di questo concetto (e del suo derivato in45. Ivi p.20 Ivi p.15. 47 Ivi p.34. 48 M. Maneri “Il panico come dispositivo di trasformazione dell’insicurezza” in Rassegna italiana di Sociologia, 1, 2001, p. 7 46. 25.

(26) sicurezza) è fortemente aumentata verso la metà degli anni 90. È cambiato inoltre nel corso del tempo, anche il significato che si dà al termine: mentre in passato era spesso affiancato a fenomeni come la pericolosità delle strade o degli edifici, si è evoluto assumendo l’accezione di incolumità personale o dei propri beni. 49 Tra percezione della sicurezza, informazioni mediatiche e attività legislativa esiste quindi un legame e questo è evidente perché nell’immaginario collettivo, influenzato dai mass media e dalla classe politica, quando si parla di criminalità, si accantona la razionalità, e si cercano soluzioni che possano rassicurare, inserendo in strutture chiuse e invalicabili chi ha commesso un reato. I mezzi di comunicazione in questo contesto danno spesso informazioni in modo stereotipato e allarmistico, esercitando una notevole influenza sui destinatari che, nella maggior parte dei casi, non approfondiscono l’informazione con un adeguato riscontro oggettivo. 50. 49. Cfr. ivi, p 6. Cfr. C. Bolzoli, C. A. Romano “Attualità ed opportunità delle alternative al carcere fra diffidenze e risorse del territorio” in Rassegna italiana di criminologia n° 2, 2009, p. 233. 50. 26.

(27) Evoluzione storico-legislativa del sistema di esecuzione penale esterna in Italia. 1. La riforma del 1975 Per comprendere il dibattito odierno sulla pena è necessario ripercorrere la storia degli interventi legislativi che si sono succeduti in particolare dal 1975. Questo è un anno rilevante perché fino a quel momento era il cosiddetto Codice Rocco (emanato durante il ventennio fascista) a regolare il sistema penale, di stampo prettamente retributivo. In quest’ordinamento non erano previste pene alternative alla reclusione e il carcere era concepito come un luogo isolato rispetto alla società, poiché si riteneva che il pentimento del reo potesse avvenire solo attraverso l’isolamento e le privazioni. Alla fine del regime fascista, con l’emanazione della nuova Costituzione vengono introdotte, dall’art. 27 51, nuove disposizioni in materia penale e penitenziaria. Viene peraltro introdotto per la prima volta il concetto di rieducazione. Nel secondo dopoguerra, tuttavia, l’Italia stava attraversando un periodo di allarme sociale dovuto alla dilagante criminalità e quindi il legislatore non era ancora pronto a dare attuazione al mandato costituzionale, nonostante il codice penale Rocco non fosse conforme all’articolo 27 e fosse quindi necessaria una riforma del sistema penitenziario. Fino alla fine degli anni ‘60 l’interesse nei confronti della rieducazione dei condannati rimase quindi marginale e gli interventi in materia penitenziaria furono inadatti, orientati per lo più all’istruzione dei detenuti, che insieme alla religione e al lavoro erano gli unici metodi ritenuti validi per fornire ai condannati i valori condivisi all’interno della società.. 51. Articolo 27: La responsabilità penale è personale. L'imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Non è ammessa la pena di morte.. 27.

(28) Nel 1975 viene emanata la Legge n°354 (“Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione penale delle misure privative e limitative della libertà”), che all’art. 1 recita: “Il trattamento penitenziario deve essere conforme a umanità e deve assicurare il rispetto delle dignità della persona. Il trattamento è improntato ad assoluta imparzialità, senza discriminazioni in ordine a nazionalità, razza e condizioni economiche e sociali, a opinioni politiche e a credenze religiose. Negli istituti devono essere mantenuti l’ordine e la disciplina. Non possono essere adottate restrizioni non giustificabili con le esigenze predette o, nei confronti degli imputati, non indispensabili a fini giudiziari. I detenuti e gli internati sono chiamati o indicati con il loro nome. Il trattamento degli imputati deve essere rigorosamente informato al principio che essi non sono considerati colpevoli sino alla condanna definitiva. Nei confronti dei condannati e degli internati deve essere attuato un trattamento rieducativo che tenda, anche attraverso i contatti con l’ambiente esterno, al reinserimento sociale degli stessi. Il trattamento è attuato secondo un criterio di individualizzazione in rapporto alle specifiche condizioni dei soggetti.” La figura del detenuto cambia quindi rispetto al passato e, almeno in teoria, alla base del trattamento sono poste la dignità e l’umanità della persona. Dal punto di vista dell’organizzazione penitenziaria questa Legge ha introdotto nuove figure all’interno dell’istituzione carceraria, come gli educatori e gli assistenti sociali. Queste professioni sono preposte ad attuare il mandato costituzionale della rieducazione e a individuare programmi individuali di trattamento, creati in seguito all’osservazione della personalità e dei bisogni di ogni singolo detenuto. Gli elementi del trattamento rieducativo vengono individuati oltre che nell’istruzione, nel lavoro e nella religione (come avveniva nel vecchio ordinamento), anche nelle attività culturali, ricreative e sportive, nei rapporti con la famiglia e nei contatti con il mondo esterno. L’attività lavorativa, in particolare, è vista sotto un’ottica diversa in questa Legge, infatti, se fino al 1931 era considerata come una mera modalità di espiazione della pena detentiva, con la nuova normativa viene pensata non come uno strumento afflit-. 28.

(29) tivo, ma come un’attività rieducativa e remunerata. Importante è “la volontarietà della prestazione, non essendo concepibile, in un’ottica trattamentale e rieducativa (che, per essere genuina, deve fondarsi sulla libera e consapevole adesione degli interessati) alcuna ipotesi di lavoro coattivo o forzato” 52. Si punta inoltre a superare l’isolamento rispetto alla società che aveva sempre caratterizzato il carcere. A questo scopo è riconosciuto, con gli articoli 17 e 78, il coinvolgimento della società esterna nella finalità rieducativa, cercando anche di dislocare l’intervento trattamentale all’esterno dell’istituto. La rieducazione e il reinserimento del condannato sono perseguiti in questa Legge anche attraverso l’introduzione di misure alternative alla detenzione e di benefici premiali, ispirati sempre al principio d’individualizzazione della pena, la cui concessione è affidata ai magistrati e ai tribunali di sorveglianza. Le misure alternative previste dalla riforma sono molteplici: prima fra tutte l’affidamento in prova al servizio sociale (regolato dall’art. 47), che mira a evitare al massimo i danni derivanti dal contatto con l’ambiente penitenziario e dalla condizione di privazione della libertà. Con questa misura, subordinatamente a un periodo di osservazione e trattamento in carcere, il reo viene scarcerato a patto che si attenga a delle prescrizioni, incentrate principalmente sui contatti con il servizio sociale, gli obblighi di dimora, le limitazioni di movimento e il lavoro. La misura dell’affidamento in prova è concessa solo se la condanna è inferiore ai tre anni, anche di residuo pena, inoltre il soggetto non deve essere stato dichiarato socialmente pericoloso. La seconda misura prevista dalla Legge n° 354 è la semilibertà (regolata dall’articolo 48), che consiste nel permettere al detenuto di passare parte del giorno fuori dal penitenziario per partecipare ad attività lavorative, istruttive o in ogni caso utili al reinserimento. La semilibertà può essere considerata come una misura alternativa impropria perché il soggetto rimane comunque in stato di detenzione, quindi il suo reinserimento nella società è parziale. Tuttavia questa misura può essere considerata come preparatoria all’affidamento in prova, in quanto, in seguito. 52. M. Bortolato “Note sul lavoro in carcere fra vecchie certezze e nuove provocazioni” in Questione giustizia, trimestrale promosso da Magistratura democratica, vol. n° 2, 2015 www.questionegiustizia.it. 29.

(30) all’accertamento di avvenuti progressi, il condannato può fare richiesta di affidamento. Una terza misura alternativa contemplata nella Legge è la liberazione condizionale, che consiste nella scarcerazione del condannato, che deve però essere sottoposto alla libertà vigilata per la rimanente durata della pena da espiare. Questa misura è concessa al soggetto che fornisce prova di sicuro ravvedimento, in seguito ad un profondo esame della personalità del condannato e all’analisi dei comportamenti partecipativi nel percorso di trattamento riabilitativo. Per quanto riguarda i benefici premiali, prima dell’entrata in vigore dell’ordinamento penitenziario del 1975, non era prevista nessuna norma che consentisse al detenuto di uscire temporaneamente dall’istituto carcerario. Eccezionalmente e per gravi ragioni familiari poteva essere concesso un permesso da parte dell’amministrazione penitenziaria. Con la nuova riforma tuttavia, il legislatore concede ai detenuti il permesso di poter visitare un familiare o un convivente in imminente pericolo di vita e per gravi e accertati motivi. Tuttavia in seguito all’innalzamento del livello di pericolosità di molti detenuti (con l’emergere del terrorismo) e con l’aumento del numero delle evasioni, il legislatore fu costretto nel ‘77 a correggere la normativa, stabilendo che i permessi potessero essere concessi solo eccezionalmente per eventi familiari di particolare gravità. 2. La Legge Gozzini Una nuova riforma dell’ordinamento penitenziario, si ha con la Legge n°663/86 (c.d. Legge Gozzini), creata in un periodo in cui in molti stati si abbandonava il concetto di pena utile passando a quello di tolleranza zero. “Si possono individuare all’interno della Legge due anime: la prima che aspira ad una maggiore apertura verso l’esterno e ad un parziale sfoltimento della popolazione detenuta, e una seconda che rappresenta una sorta di contrappeso in chiave restrittiva ed è legata alle esigenze dell’ordine e della sicurezza interna degli istituti, inquadrabile tuttavia ancora nella logica della rieducazione.” 53. 53. A. Salvati “L’evoluzione della legislazione penitenziaria in Italia” in Amministrazione in cammino, rivista elettronica di diritto pubblico, di diritto dell’economia e di scienza dell’amministrazione a cura del Centro di ricerca sulle amministrazioni pubbliche “Vittorio Bachelet”, http://www.amministrazioneincammino.luiss.it/ p. 21.. 30.

(31) Dal punto di vista delle forme di pena alternative questa Legge, per far fronte a una logica di deflazione carceraria, inserisce l’ipotesi di applicazione delle misure alternative alla detenzione senza l’obbligo del periodo di espiazione della pena, quindi direttamente dallo stato di libertà. La norma introduce, inoltre, fra le forme alternative alla pena, dei nuovi istituti, come la detenzione domiciliare. Questa consiste nell’obbligo da parte del detenuto di risiedere nella propria abitazione o luogo di cura o assistenza una volta uscito dal carcere. Tuttavia questa misura non ha valenza risocializzante o rieducativa, se non quella di evitare gli effetti deleteri dell’ambiente carcerario. Questo provvedimento è collegato a ragioni di natura umanitaria nei confronti della particolare situazione fisica o psicofisica del condannato: la misura è applicata, infatti, anche a donne gestanti o con prole di età inferiore ai dieci anni con esse conviventi, inoltre può essere applicata anche a persone ultrasessantenni se inabili anche parzialmente. Per accedere a questo tipo di pena, la condanna inflitta non deve superare i tre anni, anche se sono un residuo di pena, tranne quando sussista uno stato di salute incompatibile con il carcere. Una grande innovazione di questa Legge, è l’introduzione dei permessi premio, che consistono nella possibilità di uscire dall’istituto di pena, anche senza scorta, per una durata massima di 15 giorni e in ogni caso di non più di 45 giorni complessivi in un anno. I permessi sono concessi ai detenuti che non hanno particolare pericolosità sociale per coltivare interessi culturali e di lavoro e mantenere i rapporti affettivi, può tuttavia usufruirne solo chi ha una pena inferiore ai tre anni o chi ha espiato almeno un quarto della pena. La Legge Gozzini ha inoltre modificato la misura della liberazione anticipata, che consiste nello sconto di 45 giorni per ogni semestre vissuto con regolare condotta e partecipando all’opera rieducativa. Un’altra modifica operata dalla norma è quella all’affidamento in prova che, mentre nella Legge precedente era riservato solo a chi stava scontando una pena per reati lievemente o mediamente gravi, con la nuova Legge è esteso anche gli autori di reati ad alto tasso di gravità, con l’ottimistica convinzione che, trascorrendo in prigione un certo numero di anni, il condannato avrebbe perso, grazie al trattamento rieducativo, la capacità di delinquere. Inoltre, l’affidamento al servizio sociale diventa possibile. 31.

(32) anche per i soggetti sottoposti a misura di custodia cautelare, se durante il periodo di libertà adottano un comportamento tale da far ritenere questa misura idonea alla loro rieducazione (l’affidamento quindi avviene senza un periodo di osservazione preventiva in carcere). Dal punto di vista dell’organizzazione carceraria, la Legge abolisce i cosiddetti carceri speciali, cioè gli istituti ad alta sicurezza nati durante il periodo del terrorismo e destinati ai soggetti più pericolosi. Viene però introdotto il regime di sorveglianza particolare cui sottoporre i soggetti che presentino pericolosità penitenziaria, cioè chi compromette la sicurezza e l’ordine degli istituti e chi impedisce le attività degli altri detenuti, mettendoli in soggezione. Nel 1985 era stato introdotto nell’ordinamento penitenziario l’affidamento in prova al servizio sociale in casi particolari, destinato solo a tossicodipendenti e alcoldipendenti che avessero iniziato un programma terapeutico di recupero. La Legge Gozzini modifica questo istituto estendendolo anche a chi intende sottoporsi a un programma di recupero, anche se non ancora iniziato, e stimolando quindi il tossicodipendente a intraprendere un percorso per superare la dipendenza. 54 3. Altre principali riforme All’inizio degli anni ‘90 il Paese subisce efferati attacchi da parte della criminalità organizzata e si trova in una situazione di insicurezza sociale, per questo con uno sconvolgimento della filosofia della pena che aveva ispirato le precedenti riforme, il legislatore torna a perseguire le finalità di sicurezza e controllo. Si assiste, quindi, a interventi legislativi di irrigidimento delle norme, in particolare con Decreto Legge n°152/91 (poi convertito con la Legge n°203/91) recante “provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalità organizzata e di trasparenza e buon andamento dell’attività amministrativa”. Questo Decreto all’art. 4-bis (Divieto di concessione dei benefìci e accertamento della pericolosità sociale dei condannati per taluni delitti) introduce un regime di rigore nei confronti di persone che hanno commesso crimini ritenuti di particolare allarme sociale, ampliando le tipologie di reato considerate preoccupanti. Si assiste 54. Tuttavia questa normativa non si è rivelata uno strumento di prevenzione e di recupero della tossicodipendenza, come dimostrano il dilagare dei fenomeni criminali a essa correlati e l’aumento di questa tipologia di detenuti, causata anche dall’eccesso di severità delle pene previste per alcuni tipi di reato.. 32.

(33) quindi a un inasprimento delle condizioni della pena e all’irrigidimento delle regole per l’assegnazione di permessi premio, lavoro esterno, liberazione condizionale e semilibertà, salvo che i condannati di cui all’articolo 4-bis collaborino con la giustizia. D’altro canto all’epoca cominciava a farsi sempre più pressante il problema del sovraffollamento carcerario e tutti i problemi a esso correlati, come l’insufficienza delle strutture, le condizioni sanitarie precarie, e la crescente conflittualità interna. La Legge Gozzini non aveva contribuito a diminuire il numero di persone detenute, perché nella maggior parte dei casi, le persone cui potevano essere concesse misure alternative alla detenzione avevano provenienza extracomunitaria e quindi era per loro impossibile accedere a tali misure poiché non potevano garantire un percorso risocializzativo esterno. Per far fronte al fenomeno del sovraffollamento quindi, è approvata nel 1998, la Legge n°165 (c.d. Simeone-Saraceni) che introduce la sospensione automatica dell’esecuzione da parte del pubblico Ministero e l’obbligo di avvisare il condannato della possibilità di presentare istanza per la concessione della misura. In questo modo il legislatore cerca di ampliare le possibilità di ricorso a misure alternative al carcere, favorendone l’accesso ai condannati fino a 3 anni di reclusione per reati minori. La ratio di questa Legge è di evitare, per quanto possibile, l’esperienza carceraria, di per sé criminogenetica e stigmatizzante, a soggetti senza gravi reati a carico. Sono inoltre ampliati anche i margini di accesso alle misure della detenzione domiciliare e della semilibertà. Nel 2001, grazie alla Legge n°40 (c.d. Legge Finocchiaro), l’attenzione del legislatore si sposta sulle madri detenute con prole, di età non superiore ai dieci anni (ma anche al padre detenuto, se la madre è deceduta o impossibilitata e non si possono affidare i figli ad altri che a lui) ed è introdotta la detenzione domiciliare speciale. Ciò viene fatto per ristabilire la relazione della madre (o del padre) con la famiglia e abolire la cosiddetta carcerizzazione dell’infante. È prevista inoltre l’assistenza all’esterno dei figli minori, grazie a cui le madri possono essere ammesse alla cura e all’assistenza all’esterno dei figli di età non superiore ai 10 anni, considerando la cura dei figli come un lavoro esterno al carcere.. 33.

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