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Il dialogo106 si apre con le parole che Socrate rivolge ad Alcibiade che di lì a pochi giorni intende fare il suo esordio in assemblea degli Ateniesi e realizzare i suoi progetti politici, progetti talmente ambiziosi da andare ben al di là del conseguimento di una supremazia nella sua patria, poiché hanno come meta quella di farlo misurare con la fama di personaggi dalla grandezza di Ciro e di Serse. Nella realizzazione di questi progetti Socrate dichiara di poter essere di aiuto al giovane, anzi, di essere l’unico che potrà veramente aiutarlo (104d-105e).

Alcibiade chiede in che cosa consista questo aiuto che Socrate gli vuole dare; si tratta, dichiara Socrate, di rispondere ad alcune domande come, tanto per iniziare, cosa sarà ciò su cui Alcibiade vorrà consigliare gli Ateniesi: forse su ciò che è meglio per loro? Alla risposta affermativa di Alcibiade, Socrate comincia a porre le sue domande sui contenuti precisi dei consigli che l’interlocutore si accinge a dare, ma, per prima cosa, lo porta a dover consentire sul principio generale che si può consigliare solo su ciò che si sa e si può sapere qualcosa solo dopo che la si è imparata (106a-e). A seguito delle domande di Socrate e dopo che questi ha proposto tutta una serie di paralleli, Alcibiade arriva ad ammettere che i consigli che darà agli Ateniesi verteranno sostanzialmente su quando e per quali motivi fare o non fare la guerra, il che, però, implica la conoscenza di ciò che è giusto e di ciò che non lo è (107a-109c). Dopo esser giunti alla conclusione che Alcibiade non ha appreso tali concetti da altri né li ha appresi da sé, Socrate

106 All’interno del corpus platonico sono stai tramandati due dialoghi che portano il nome di

Acibiade (I e II), inclusi nella IV tetralogia insieme all’Ipparco e agli Amanti. L’autenticità

dell’Alcibiade II è stata messa in discussione fin dall’antichità (cfr. per es. Ath. XI 506e) e oggi la critica lo ritiene concordemente spurio e databile tra la fine del IV e l’inizio del III secolo a.C. Sulla paternità platonica dell’Alcibiade I invece la critica antica non ha espresso dubbi, al contrario di quella moderna che appare divisa.Tuttavia, non si discuterà in questa sede dell’autenticità del dialogo; per una discussione del problema, cfr. ERLER 2007, 290-91.

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conclude che egli non ha alcuna conoscenza del giusto e dell’ingiusto (112d7-9): πῶς οὖν εἰκός σε εἰδέναι τὰ δίκαια καὶ τὰ ἄδικα, περὶ ὧν οὕτω πλανᾷ καὶ οὔτε μαθὼν φαίνῃ παρ᾽ οὐδενὸς οὔτ᾽ αὐτὸς ἐξευρών;107

Alcibiade replica dicendo (112d10):

ἐκ μὲν ὧν σὺ λέγεις οὐκ εἰκός.108

A questo punto è importante per Socrate dimostrare al giovane interlocutore che la prima prova della sua ignoranza non deriva dalle argomentazioni di Socrate, ma da Alcibiade stesso. Di fronte a tale affermazione, Alcibiade rimane sorpreso e chiede a Socrate di spiegargli il motivo. Nel successivo scambio di brevi domande e risposte Socrate prova a definire quale ruolo ha ciascun interlocutore in un dialogo («su, allora, dimmi in una parola: quando c’è una domanda e una risposta, chi è quello che afferma, chi interroga o chi risponde?»; 113a6-8). In tal modo, mira a dimostrare ad Alcibiade che in una conversazione in cui una persona fa le domande (Socrate) e l'altra risponde (Alcibiade), di fatto è quest'ultima a conoscere l'oggetto discusso, poiché è egli colui che asserisce. Di conseguenza, se prima era Socrate a fare le domande e Alcibiade a rispondere, ecco che Alcibiade ha fatto delle asserzioni tali da dimostrare che non possiede nessuna conoscenza riguardo all'argomento trattato. Per sintetizzare i risultati paradossali della loro discussione, Socrate cita esplicitamente Euripide (113b7-c7):

οὐκοῦν ἐλέχθη περὶ δικαίων καὶ ἀδίκων ὅτι Ἀλκιβιάδης ὁ καλὸς ὁ Κλεινίου οὐκ ἐπίσταιτο, οἴοιτο δέ, καὶ μέλλοι εἰς ἐκκλησίαν ἐλθὼν συμβουλεύσειν Ἀθηναίοις περὶ ὧν οὐδὲν οἶδεν; οὐ ταῦτ᾽ ἦν; ἈΛ.

107 «Come fa a essere verosimile che tu conosca il giusto e l’ingiusto, punto sul quale fai errori così gravi che dimostri di non avere imparato da nessuno ma nemmeno di avere trovato da te?». 108« Stando alle tue parole, non è verosimile.»

51 Φαίνεται. ΣΩ. τὸ τοῦ Εὐριπίδου ἄρα συμβαίνει, ὦ Ἀλκιβιάδη: σοῦ τάδε κινδυνεύεις, οὐκ ἐμοῦ ἀκηκοέναι, οὐδ᾽ ἐγώ εἰμι ὁ ταῦτα λέγων, ἀλλὰ σύ, ἐμὲ δὲ αἰτιᾷ μάτην. καὶ μέντοι καὶ εὖ λέγεις. μανικὸν γὰρ ἐν νῷ ἔχεις ἐπιχείρημα ἐπιχειρεῖν, ὦ βέλτιστε, διδάσκειν ἃ οὐκ οἶσθα, ἀμελήσας μανθάνειν.109

Si tratta, come ci informano i commentatori antichi, Olimpiodoro e Proclo (p.292 8-16),110 di un verso dell’Ippolito, su cui ritorneremo nel paragrafo

successivo. Dopo questa citazione la conversazione prosegue, e passa alle differenze fra giusto e utile. Ma anche in questo caso Socrate dimostra che giusto, buono, bello e utile sono la stessa cosa. A questo punto Alcibiade, che prima aveva sostenuto essere talvolta il giusto e l’utile cose diverse, dichiara, confuso, la sua sconfitta, perché dietro l’incalzare delle domande di Socrate si accorge di non sapere quello di cui fino ad allora credeva di essere a conoscenza. Alcibiade è affetto dalla forma peggiore di ignoranza: credere di conoscere ciò che non si sa. E ciò è tanto più grave perché si tratta di ignoranza in materia di giustizia. Questa 'malattia' affligge, per la verità, tutta la classe politica ateniese, compreso lo stesso Pericle. Che quest'ultimo non sia sapiente è dimostrato dal fatto che nessuno, in città, è stato reso più sapiente da lui, a cominciare dai suoi figli e dallo stesso

109 «Non si è detto che Alcibiade il bello, figlio di Clinia, non sapeva ma credeva di sapere in merito al giusto e all’ingiusto, e aveva intenzione di consigliare in assemblea gli Ateniesi su argomenti che non conosce assolutamente? Alc. Evidentemente. Socr. Qui, Alcibiade, cadono a pennello quelle parole di Euripide: «probabilmente queste cose da te stesso e non da me tu le hai sentite», non sono io che le dico ma sei tu, e mi accusi ingiustamente. Ma per la verità dici bene. Infatti, carissimo, stai cullando in cuor tuo un’impresa folle, cioè di insegnare cose che non conosci, senza esserti precedentemente curato di apprenderle».

110 «Questo verso giambico viene dall’Ippolito: Fedra si rivolge alla sua nutrice con parole dissimulate, e fa un’allusione al suo amore, rivelando indirettamente l’oggetto di questo amore, e la Nutrice allora dice: “E’ di Ippolito che vuoi parlare?” perché la nutrice ha già compreso la sua passione. Fedra risponde: “Sei tu che l’hai nominato, non io”. Così lei non ha scelto di rivelare la sua passione, non avendo allo stesso tempo la forza di rivelare il suo amore, ma Fedra si organizza per contemporaneamente dichiarare e tacere la sua passione».

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Alcibiade; al contrario, prova incontrovertibile che si sa, qualunque sia l'argomento che si conosce, sta nel fatto che altri sanno per merito nostro (119a).

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