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Come accennato nel paragrafo precedente, “le parole di Euripide” che cadono a pennello per la situazione paradossale venutasi a creare alludono al v. 352 dell’Ippolito. Il tema principale del primo episodio (vv.176-524) è la rivelazione della sofferenza di Fedra, cioè il suo segreto amore per il figliastro Ippolito.

Mentre il Coro termina il suo canto, dalla porta del palazzo esce la Nutrice, personaggio di notevole rilevanza sia per lo sviluppo dell’azione sia in termini di presenza scenica,111 che, aiutata da alcune ancelle, porta fuori un lettino su cui

giace Fedra. La regina appare in una condizione di grande sofferenza, distrutta dalla malattia d’amore (che tutti ignorano, tranne Afrodite), e in uno stato di delirio. La passione amorosa, tenacemente repressa, si manifesta come νόσος e μανία, come malattia e disturbo mentale. Il corpo di Fedra, consumato dal digiuno e dalla sofferenza, ha perso il normale colorito. L’animo, segnato da una costante irrequietezza, che si manifesta in un volere e disvolere continuo (vv. 184-185), perde a tratti la sua lucidità, abbandonandosi al vaneggiamento.112 All’interno

dell’episodio il personaggio di Fedra viene articolato secondo modalità del tutto differenti: ora è in preda al delirio e si abbandona allo sfogo irrazionale, all’espressione disarticolata e irriflessa dei suoi desideri, ora sembra riaversi e

111 Cfr. S

USANETTI 1997,48-49:«Una delle novità del teatro euripideo è proprio il modo in cui vengono portati sulla scena e fatti parlare i personaggi di condizione servile (cfr. Aristh., Ran. 948-949): ad essi sono più volte affidati discorsi di una certa complessità intellettuale nonché interventi determinanti per l’evolversi dei fatti».

112 Il carattere e le sfumature di questo delirio sono espresse da Euripide con una terminologia che trova riscontro nel lessico tecnico della medicina e in quello specifico della tradizione poetica. Per il lessico e la funzione della follia nella tragedia greca, cfr. CIANI 1974,70-110.La definizione dell’ἔρως in termini di μανία è testimoniata anche in poesia e nella riflessione filosofica: v. Ib. fr.286 Davies; Prod. 84 B 7 D.-K.; Soph. Ant. 790; Pl.Phaedr. 249d. Cfr. DI BENEDETTO 1971, 15.Per la connessione fra ἔρως e malattia all’interno della tragedia, i vv. 131, 293, 394, 405, 597, 766.

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tornare in sé; ora si chiude nel mutismo, ora invece prorompe in parole sconvenienti perché dette a voce alta, «davanti alla gente».113

La Nutrice esprime la sua preoccupazione per la malattia di Fedra e, nel contempo, la disperazione per l’incapacità di trovare un rimedio al male di cui ignora la natura, si tormenta per questa situazione fino allo sconforto, al punto che preferirebbe trovarsi lei nello stato della padrona. La Nutrice da parte sua prima la incoraggia, manifestando stupore per i desideri della padrona, strani e assurdi per chi ignora la natura della malattia; poi la rimprovera di gridare davanti a tutti parole dettate da follia.114 La Nutrice le copre il capo ed esprime una serie di

considerazioni sulla forza degli affetti che culminano nell’elogio della giusta misura.115

Con il suo discorso dimostra non solo la sollecitudine e lo zelo con cui si è comportata nel passato, ma anche la cura e le attenzioni che al momento presente rivolge alla sua padrona, tentando ogni mezzo perché essa riveli il suo male (vv. 295-314):

Τρο. εἰ δ᾽ ἔκφορός σοι συμφορὰ πρὸς ἄρσενας, λέγ᾽, ὡς ἰατροῖς πρᾶγμα μηνυθῇ τόδε.

εἶἑν: τί σιγᾷς; οὐκ ἐχρῆν σιγᾶν, τέκνον,

113 Al recupero della lucidità si accompagna anche un acuto senso di vergogna che rende insostenibile il confronto con gli altri.

114 Soltanto folle, infatti, può essere chi, essendo donna, manifesta interesse per il mondo dell’uomo. I potenti meccanismi di cesura operanti in Fedra impediscono la verbalizzazione del desiderio amoroso. Ma ciò che è rimosso trova il modo di riaffiorare in modo traslato: in preda al delirio Fedra smania di andare nei boschi a caccia di fiere e di cavalcare cavalli scalpitanti, invocando Artemide. I luoghi dove Ippolito preserva la sua purezza si caricano di connotazioni erotiche perfettamente decifrabili per il pubblico che ha ascoltato il discorso di Afrodite nel prologo (vv. 1-57), ma oscure per la Nutrice e il Coro.

115 Vi è, nei personaggi del dramma, la viva preoccupazione per la presenza di testimoni che osservino i loro atti così da poter confermare o smentire le loro affermazioni o la loro immagine pubblica. E infatti, la Nutrice si preoccupa che il coro testimoni il suo zelo nell’assistere la regina, come Fedra poi si augurerà di avere testimoni solo per le sue azioni virtuose (vv. 403-404) e Ippolito testimoni pronti a confermare la sua innocenza.

54 ἀλλ᾽ ἤ μ᾽ ἐλέγχειν, εἴ τι μὴ καλῶς λέγω, ἢ τοῖσιν εὖ λεχθεῖσι συγχωρεῖν λόγοις. φθέγξαι τι, δεῦρ᾽ ἄθρησον. ὦ τάλαιν᾽ ἐγώ. γυναῖκες, ἄλλως τούσδε μοχθοῦμεν πόνους, ἴσον δ᾽ ἄπεσμεν τῷ πρίν: οὔτε γὰρ τότε λόγοις ἐτέγγεθ᾽ ἥδε νῦν τ᾽ οὐ πείθεται. ἀλλ᾽ ἴσθι μέντοι — πρὸς τάδ᾽ αὐθαδεστέρα γίγνου θαλάσσης — εἰ θανῇ, προδοῦσα σοὺς παῖδας, πατρῴων μὴ μεθέξοντας δόμων, μὰ τὴν ἄνασσαν ἱππίαν Ἀμαζόνα, ἣ σοῖς τέκνοισι δεσπότην ἐγείνατο νόθον φρονοῦντα γνήσι᾽, οἶσθά νιν καλῶς, Ἱππόλυτον Φα. οἴμοι. Τρο. θιγγάνει σέθεν τόδε; Φα.ἀπώλεσάς με, μαῖα, καί σε πρὸς θεῶν τοῦδ᾽ ἀνδρὸς αὖθις λίσσομαι σιγᾶν πέρι.116

Dialogando con Fedra e provando a capire quanto successo, la Nutrice alla fine fa il nome di Ippolito, che segna l’inizio di una serrata sticomitia fra le due donne. Nel passo in questione, la Nutrice rivolge alla propria padrona una serie di domande per capire quale disgrazia l'affligge: si è forse macchiata del sangue di un assassinio? Un maleficio di qualche nemico l'ha colpita? Teseo ha subìto il fascino di un'altra donna? Fedra ogni volta risponde negativamente, ma nello stesso tempo cerca di far avvicinare la Nutrice a quella verità che ella non osa

116 «Nutr. Se hai qualche malattia di quelle che non possono essere nominate, queste donne ti assisteranno; se invece è qualcosa che può essere svelato anche agli uomini, parla: lo comunicheremo ai medici. Taci? No, non devi tacere, figlia mia, ma contraddirmi se non parlo bene, o altrimenti darmi retta. Parla, guardami, povera me! Fatichiamo per niente e siamo lontane quanto prima: né allora né adesso si lascia toccare dalle mie parole. Ma sappi, e dopo sii pure più ostinata del mare, che se muori tradisci i tuoi figli, che non avranno parte della casa paterna. Pensa all’Amazzone, regina dei cavalli, madre dell’uomo che avrà potere sui tuoi figli, un bastardo, ma con ambizioni nobili. Lo conosci bene, Ippolito – Fedr. Ahimè! Nutr. Ah, questo ti tocca? Fedr. Mi hai ucciso, nutrice. Ti supplico, in nome degli dèi non parlarmi mai più di lui.»

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confessare (315-324). La donna, sempre più lontana dal comprendere, infine si prostra supplice alle sue ginocchia implorandola di parlare (vv. 325-336).117 Fedra

nel tentativo di far capire alla Nutrice la natura del suo segreto, rievoca le passioni di Pasifae, e della sorella Arianna, vedendo nelle loro colpe e nella loro infelicità un male connaturato alla stirpe, che lei, come terza, ha ereditato (vv.337-346). Il tema dell’amore con la richiesta di che cosa esso sia conduce la Nutrice, finalmente a capire e chiede chi sia l'uomo che la regina ama: ma neppure allora Fedra pronuncerà il nome di Ippolito, che sarà urlato dalla nutrice esterrefatta (346-352):

Φα. φεῦ: πῶς ἂν σύ μοι λέξειας ἁμὲ χρὴ λέγειν; Τρ. οὐ μάντις εἰμὶ τἀφανῆ γνῶναι σαφῶς. Φα. τί τοῦθ᾽ ὃ δὴ λέγουσιν ἀνθρώπους ἐρᾶν; Τρ. ἥδιστον, ὦ παῖ, ταὐτὸν ἀλγεινόν θ᾽ ἅμα. Φα. ἡμεῖς ἂν εἶμεν θατέρῳ κεχρημένοι. Τρ. τί φῄς; ἐρᾷς, ὦ τέκνον; ἀνθρώπων τίνος; Φα. ὅστις ποθ᾽ οὗτός ἐσθ᾽, ὁ τῆς Ἀμαζόνος. . . Τρ. Ἱππόλυτον αὐδᾷς; Φα. σοῦ τάδ᾽, οὐκ ἐμοῦ κλύεις.118

Abilità retorica e logica caratterizzano questa sticomitia, costruita in modo che ogni verso costituisca un passo in avanti verso la confessione di Fedra. La sua

117 La strategia della Nutrice per far parlare Fedra procede secondo varie modalità: dalla condivisione simpatetica del male a generici argomenti consolatori, dai tentativi di controllare i suoi vaneggiamenti al ricorso ad argomentazioni razionali. Ma è solo attraverso il gesto di supplica (vv.335) che riuscirà a farsi dire il segreto di Fedra, divenendo la prima «confidente» del teatro europeo. Cfr. SNELL 1967, 40;KNOX 1952,3;DI BENEDETTO 1971,212-213;TURATO 1976,160-169.

118« Fedr. Ahimè, come vorrei che dicessi tu quello che devo dire io! Nutr. Non sono un’indovina per conoscere tutti i tuoi segreti. Fedr. Che cos’è quello che chiamiamo amore? Nutr. La cosa più dolce , figlia mia, e più dolorosa insieme. Fedr. Io ne conosco soltanto il dolore. Nutr. Che dici? Tu ami, figlia mia? E chi? Fedr. L’uomo che nato dall’Amazzone…Nutr. Ippolito! Fedr. Tu lo dici, non io.»

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struttura è quella dell'enigma risolto infine dalla Nutrice. I versi pronunciati dalla Nutrice sono domande che formulano ipotesi, quelli pronunciati da Fedra sono risposte che nella prima parte negano le ipotesi precedenti, mentre nella seconda presentano una struttura oppositiva, un gioco verbale che oppone due termini, con la funzione di impostare di nuovo la ricerca della Nutrice verso la soluzione, sempre attraverso delle allusioni. Quando la Nutrice giunge alla tanto rovinosa verità, sarà lei a nominare (ancora una volta, e nella stessa posizione del verso) Ippolito, che Fedra designa in termini parafrastici («il figlio dell’Amazzone») per poter concludere con la formula «Tu lo dici, non io», che sarà ripresa da Socrate nell’Alcibiade I.119

2.3 Analisi e confronto

Il passo di Platone e il passo di Euripide presentano una somiglianza strutturale: dopo aver rotto il suo silenzio, Fedra si mostra disponibile a rispondere alle domande della Nutrice e il nome di Ippolito segna l'inizio e la fine di questa sequenza, allo stesso modo la sezione del dialogo platonico inizia con l'affermazione di Socrate che è Alcibiade ad affermare di non sapere nulla sulla giustizia e sull’ingiustizia prima che la discussione termini con la prova da parte di Socrate di quanto affermato all'inizio. Si tratta di dialogo in entrambi i testi, siamo in una serie di articolate domande e risposte, in cui, rispetto al ruolo giocato nella conversazione da ciascun interlocutore, risulta che Socrate ha il ruolo di chi fa le domande, come la Nutrice, e Alcibiade di chi dà le risposte, come Fedra. L’entrata in scena della Nutrice è contrassegnata da un’esasperata partecipazione affettiva nei confronti di Fedra,120 in evidente stato di squilibrio mentale: Fedra

appare agli spettatori su un letto, malata, nell’atto di esprimere una serie di desideri

119 Cfr. PADUANO 2000,5ss.

120 Il coinvolgimento emozionale della Nutrice legittima la sua condotta futura e con essa tutto il seguito della tragedia. Paradossalmente la donna che è animata da un profondo affetto per Fedra, sarà anche la causa della sua rovina.

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inconsulti prima di definirsi pazza e di mostrare vergogna per quanto detto. Mossa dall’ affetto e dalla volontà di aiutare la sua pupilla, la Nutrice la interroga sulle cause del suo turbamento, invitandola a collaborare e a contraddirla nel caso le sue domande fossero fuori luogo (vv.297-298): « οὐκ ἐχρῆν σιγᾶν, τέκνον, ἀλλ᾽ ἤ μ᾽ ἐλέγχειν, εἴ τι μὴ καλῶς λέγω».121 Alla fine, dietro le insistenze della Nutrice,

Fedra, seppure indirettamente, è costretta a rivelare il suo segreto, il suo amore per il figliastro Ippolito, che come la stessa dichiarerà alle donne di Trezene è come una malattia, una follia.

Allo stesso modo, Socrate, sin dall’inizio del dialogo, dichiara esplicitamente il suo coinvolgimento affettivo nei confronti di Alcibiade (103a):

ὦ παῖ Κλεινίου, οἶμαί σε θαυμάζειν ὅτι πρῶτος ἐραστής σου γενόμενος τῶν ἄλλων πεπαυμένων μόνος οὐκ ἀπαλλάττομαι, καὶ ὅτι οἱ μὲν ἄλλοι δι᾽ ὄχλου ἐγένοντό σοι διαλεγόμενοι, ἐγὼ δὲ τοσούτων ἐτῶν οὐδὲ προσεῖπον.122

121 Il verbo ἐλέγχω ricorre nella tragedia con differenti valori. Esso rinvia, infatti, da un lato alle procedure dell’argomentazione e dell’indagine conoscitiva («esaminare», «mettere alla prova», «confutare»), dall’altro, all’amministrazione della giustizia e all’istituto processuale («accusare», «convincere di colpa»). Ha il primo valore nel discorso che la nutrice rivolge a Fedra perché questa segua i suoi consigli o ne dimostri l’inadeguatezza; l’altro valore è presente soprattutto nella seconda parte del dramma in relazione all’accusa mossa contro Ippolito. Cfr. vv. 944, 1267, 1310, 1322, 1337.

122 «O figlio di Clinia, io sospetto che tu ti meravigli sia del fatto che io, tuo primo amante, mentre tutti gli altri ti hanno abbandonato, sia il solo a non andarmene, sia del fatto che, mentre gli altri in massa ti hanno infastidito con i loro ragionamenti, io, in tanti anni, non ti ho neppure rivolto la parola».

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Ricorda, infatti, al giovane Alcibiade di essere stato il primo dei suoi amanti e di non averlo mai abbandonato, differentemente da tutti gli altri, esasperati dal suo orgoglio e dalla sua autosufficienza. Anzi, adesso, cosa che non aveva potuto fare prima per un impedimento demonico, può parlare ad Alcibiade e aiutarlo nella realizzazione della sua brama di fama e di potere. Gli pone a questo punto una serie di domande (in cui si presuppone la collaborazione dell’interlocutore) circa gli argomenti di discussione su cui interverrà di lì a pochi giorni in Assemblea, per giungere alla conclusione che il presupposto fondamentale per dare consigli è la conoscenza del giusto e dell’ingiusto, riguardo ai quali Alcibiade si dimostra ignorante. Di conseguenza, l’impresa alla quale si accinge è un’impresa folle: insegnare cose che non conosce, senza essersi preoccupato di apprenderle.123

Vediamo, dunque, degli elementi di continuità fra la Nutrice e Socrate e fra Alcibiade e Fedra: la partecipazione affettiva e la volontà di essere aiuto, ponendo una serie di domande che implicano la collaborazione dell’altro per potervi riuscire (con la differenza che la Nutrice, profondamente animata da un sentimento di affetto, sarà la causa della rovina di Fedra), nel primo caso; l’insistenza sulla follia di entrambi e il tema della vergogna che prova l’una e che dovrebbe provare l’altro, nel secondo. Senonché, nel momento in cui Socrate fa la citazione, i ruoli si invertono, poiché risulta che Alcibiade, proprio come la Nutrice, non sa nulla (in senso socratico, si intende), come Socrate vuole dimostrare. Ma a partire dalla citazione si apre una seconda sezione in cui sembrerebbe esserci un ulteriore riferimento all’Ippolito.

Nella parte immediatamente successiva alla citazione, Alcibiade cerca di

123 Interessante il confronto con Xen. Mem. III 9, 6, in cui, per ‘il non conoscere se stessi’ e ‘l’avere opinioni su cose che non si conoscono credendo di conoscerle’, si parla di fenomeni vicinissimi alla follia. Altro interessante parallelo è offerto da Resp. 488.b: all’interno dell’allegoria del vascello il cui capitano mezzosordo e mezzocieco si fa guidare da una genia di demagoghi, senza coscienza e ignoranti dell’arte della navigazione (che indica il buon governo), in riferimento a questi ultimi, che hanno intrapreso la folle impresa cui si accinge Alcibiade, si dice che «non saprebbero né indicare il loro maestro, né il tempo in cui avrebbero appreso le tecniche di navigazione». Olymp. in Alc. 103, 21 paragona ad Alcibiade l’Aiace sofocleo per la medesima condizione di pazzia, seppur diversamente motivata.

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trovare una soluzione che sia per lui una via di uscita e dice che, in realtà, nelle assemblee non si discute di ciò che è giusto e di ciò che non lo è, ma di ciò che è o non è utile dal punto di vista pragmatico. Alcibiade sostiene che non sempre l'utile coincide con il giusto e Socrate gli chiede di rendere ragione di quanto ha detto e di convincerlo della bontà della tesi che il giusto a volte non è utile. Nel corso della loro conversazione è però Socrate a dimostrare che in realtà giusto, buono, bello e utile sono la stessa cosa e lo fa sulla base di un sillogismo: tutto ciò che è giusto è bello, tutto ciò che è bello è buono, vale a dire anche vantaggioso. Tra gli esempi riportati, uno mi sembra molto interessante (116b2-3):

Σω.ἔτι τοίνυν καὶ ὧδε σκέψαι. ὅστις καλῶς πράττει, οὐχὶ καὶ εὖ πράττει; Ἀλ. ναί. Σω. οἱ δ᾽ εὖ πράττοντες οὐκ εὐδαίμονες;124

Il testo greco gioca sul duplice significato di εὖ πράττειν, che indica sia il comportarsi bene che il vivere bene, quasi a sottolineare la corrispondenza tra la correttezza del comportamento esteriore e il benessere e l’armonia interiori.125 E

ancora l’εὖ πράττειν viene ricollegato a una condizione di felicità: si noti l’allitterazione che focalizza l’attenzione sulla particella εὖ. Dopo aver stabilito l’identità fra giusto e utile, Alcibiade, confuso, si dice sconfitto, e si rende conto di non conoscere ciò che non si sa. Allora (117d6-8):

ἐννοεῖς οὖν ὅτι καὶ τὰ ἁμαρτήματα ἐν τῇ πράξει διὰ ταύτην τὴν ἄγνοιάν ἐστι, τὴν τοῦ μὴ εἰδότα οἴεσθαι εἰδέναι;126

124 «Socr. Allora considera la cosa anche sotto questo punto di vista: chi si comporta bene, non vive anche bene? Alc. Sì. Socr. E chi vive bene non è anche felice? Alc. Come potrebbe non esserlo? Socr. Sono felici perché possiedono beni? Alc. Soprattutto. Socr. Ma questi beni non si acquisiscono con il ben vivere? Alc. Sì. Socr. Allora vivere bene è un bene? Alc. Come no? Socr. Allora vivere bene non è bello».

125 P

ULIGA 1995,81.

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Vediamo, dunque, come tema fondamentale è quello della conoscenza, in particolare qui quella della giustizia, e come l’errore nell’agire risieda proprio nella mancanza di questa. L’ignoranza inoltre come dice poco dopo, è la causa dei mali ed è ulteriormente aggravata dalla presunzione di sapere.

Σω. αὕτη ἄρα ἡ ἄγνοια τῶν κακῶν αἰτία καὶ ἡ ἐπονείδιστος ἀμαθία; Ἀλ. ναί. Σω. οὐκοῦν ὅταν ᾖ περὶ τὰ μέγιστα, τότε κακουργοτάτη καὶ αἰσχίστη; Ἀλ.πολύ γε. Σω. τί οὖν; ἔχεις μείζω εἰπεῖν δικαίων τε καὶ καλῶν καὶ ἀγαθῶν καὶ συμφερόντων; […] εἰ δὲ πλανᾷ, ἆρ᾽ οὐ δῆλον ἐκ τῶν ἔμπροσθεν ὅτι οὐ μόνον ἀγνοεῖς τὰ μέγιστα, ἀλλὰ καὶ οὐκ εἰδὼς οἴει αὐτὰ εἰδέναι;127

Questa ‘malattia’ affligge tutta la classe politica ateniese, compreso lo stesso Pericle. Σω. βαβαῖ ἄρα, ὦ Ἀλκιβιάδη, οἷον πάθος πέπονθας: ὃ ἐγὼ ὀνομάζειν μὲν ὀκνῶ, μως δέ, ἐπειδὴ μόνω ἐσμέν, ῥητέον. ἀμαθίᾳ γὰρ συνοικεῖς, ὦ βέλτιστε, τῇ ἐσχάτῃ, ὡς ὁ λόγος σου κατηγορεῖ καὶ σὺ σαυτοῦ: διὸ καὶ ᾁττεις ἄρα πρὸς τὰ πολιτικὰ πρὶν παιδευθῆναι. πέπονθας δὲ τοῦτο οὐ σὺ μόνος, ἀλλὰ καὶ οἱ πολλοὶ τῶν πραττόντων τὰ τῆσδε τῆς πόλεως, πλὴν ὀλίγων γε καὶ ἴσως τοῦ σοῦ ἐπιτρόπου Περικλέους.128

ignoranza che ci fa credere di sapere mentre non sappiamo?».

127 «Socr. Dunque è questa ignoranza a causare i mali, ed è una grettezza mentale degna del massimo biasimo? Alc. A quanto pare no. Socr. E quando si tratta di problemi più importanti, non è allora tanto più perfida e vergognosa? Alc. Senz’altro. Socr. E quindi? Puoi citarmi problemi di portata più ampia della giustizia, della bellezza, del bene e dell’utile? […] Allora, da quanto abbiamo detto prima, è chiaro che se sbagli lo fai perché non solo non hai cognizione dei problemi più importanti, ma anche perché non sai e invece credi di sapere, no?».

128 «Ahi! O Alcibiade, in quale dolorosa condizione ti trovi; esito a chiamarla per nome, tuttavia però, dato che siamo noi due soli, devo parlare. Tu convivi, infatti, con l’ignoranza estrema, o carissimo; il tuo stesso ragionamento ti accusa e sei tu ad accusare te stesso. Questo è il motivo

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In questi passi è possibile vedere un’allusione alla lunga e lucida rhesis di Fedra, che ripresasi dal profondo turbamento in seguito alla confessione del suo amore colpevole, si rivolge alle donne del Coro esprimendo alcune riflessioni sulle ragioni per cui la vita dell’uomo va in rovina e osserva in particolare ai vv.377- 383: καί μοι δοκοῦσιν οὐ κατὰ γνώμης φύσιν πράσσειν κάκιον: ἔστι γὰρ τό γ᾽ εὖ φρονεῖν πολλοῖσιν: ἀλλὰ τῇδ᾽ ἀθρητέον τόδε: τὰ χρήστ᾽ ἐπιστάμεσθα καὶ γιγνώσκομεν, οὐκ ἐκπονοῦμεν δ᾽, οἱ μὲν ἀργίας ὕπο, οἱ δ᾽ ἡδονὴν προθέντες ἀντὶ τοῦ καλοῦ ἄλλην τιν᾽.129

Molti studiosi hanno ravvisato in questo passo un’allusione polemica al principio socratico secondo cui la conoscenza del bene si identifica con la sua attuazione: chi conosce il bene non può non agire bene, mentre è vittima di cadute morali chi non ha chiara conoscenza del bene.130 Secondo Barrett,131 invece, Fedra

non polemizzerebbe contro Socrate, ma contro l’opinione diffusa che l’agire male è dovuto in genere a un vizio della natura dell’uomo; ma al Barrett lo Snell132 ha

per cui ti interessi vivamente alla politica prima di essere educato. Non solo tu sei in questa condizione, ma, con te, anche la maggior parte di coloro che amministrano gli affari di questa città, fatta eccezione per pochi e forse per il tuo tutore Pericle.»

129 «Non credo che gli uomini si comportino male per la natura della loro mente. Molti infatti sanno ben ragionare, ma bisogna tener presente che sappiamo e conosciamo ciò che è bene, ma non lo compiamo, chi per inerzia, chi preferendo a ciò che è bello qualche piacere ».

130 Secondo SNELL 1948,125-134, questa sarebbe la prima testimonia che noi abbiamo di questa concezione di Socrate.

131 B

ARRETT 1964,229. 132 S

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ribattuto chi in tal modo si attribuisce anacronisticamente ai Greci del V secolo un modo di pensare cristiano.

Secondo Carlini, una polemica antisocratica sarebbe da ravvisare nelle parole della nutrice (vv. 353-361): οἴμοι, τί λέξεις, τέκνον; ὥς μ᾽ ἀπώλεσας. γυναῖκες, οὐκ ἀνασχέτ᾽, οὐκ ἀνέξομαι ζῶσ᾽: ἐχθρὸν ἦμαρ, ἐχθρὸν εἰσορῶ φάος. 355 ῥίψω μεθήσω σῶμ᾽, ἀπαλλαχθήσομαι βίου θανοῦσα: χαίρετ᾽, οὐκέτ᾽ εἴμ᾽ ἐγώ. οἱ σώφρονες γάρ, οὐχ ἑκόντες ἀλλ᾽ ὅμως, κακῶν ἐρῶσι. Κύπρις οὐκ ἄρ᾽ ἦν θεός, ἀλλ᾽ εἴ τι μεῖζον ἄλλο γίγνεται θεοῦ, 360 ἣ τήνδε κἀμὲ καὶ δόμους ἀπώλεσεν.133

Con le parole della Nutrice Euripide avrebbe voluto mettere in discussione un altro principio socratico, strettamente collegato con “nessuno fa il male volontariamente” e cioè: «gli uomini desiderano tutti ciò che è bene e se di fatto non ottengono il bene, è perché credono che è bene ciò che è male».134 La polemica

euripidea alla dottrina morale socratica nel suo complesso attraverso i versi sopra citati, è sottolineata da Carlini, il quale individua, proprio nel richiamo a distanza tra le parole della nutrice e quelle di Fedra, la possibilità di riconoscere dietro i due personaggi euripidei Euripide stesso che polemizza con Socrate. A sostegno di questa tesi, egli aggiunge che sia le parole di Fedra che quelle della Nutrice hanno il valore generale di una sentenza in quanto non hanno alcun rapporto immediato

133 «Ahimè, figlia mia, che hai detto? Mi hai ucciso. Mie care, non resisto, non posso sopportare di vivere. Mi è nemico il giorno, nemica la luce che vedo. Voglio gettare il mio corpo, abbandonare la vita. Addio, sono perduta. Anche le persone sagge e virtuose, non per loro volere, ma amano il male. Afrodite non è una dea, ma qualcosa di più grande, Afrodite che hai distrutto lei, me e questa casa».

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con una contingente situazione drammatica. E quando Euripide attraverso Fedra dice che “molti il senno lo hanno”, sostiene che i più posseggono l’eu phronein senza però che ciò implichi necessariamente una sua corrispondente realizzazione nel campo della prassi, la situazione di costoro non sembra differente dalla condizione propria di quella della maggior parte degli uomini di cui Socrate parla

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