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Il secondo episodio, in cui troviamo il verso citato, si apre con un intenso dialogo tra il Coro e Fedra, che tenta di decifrare le urla e il confuso vociare proveniente dalla reggia (vv. 565-600).213 Fanno quindi ingresso Ippolito e la

Nutrice che continuano il discorso iniziato fuori scena. La sequenza si svolge attraverso una breve sticomitia nella quale Ippolito appare in preda all’ira, mentre la Nutrice, preoccupata delle conseguenze della sua rivelazione, lo implora di tacere e di rispettare il giuramento (601-612):

Ἱπ. ὦ γαῖα μῆτερ ἡλίου τ᾽ ἀναπτυχαί, οἵων λόγων ἄρρητον εἰσήκουσ᾽ ὄπα. Τρ. σίγησον, ὦ παῖ, πρίν τιν᾽ αἰσθέσθαι βοῆς. Ἱπ. οὐκ ἔστ᾽ ἀκούσας δείν᾽ ὅπως σιγήσομαι. Τρ. ναί, πρός σε τῆς σῆς δεξιᾶς εὐωλένου.

212 «Rispondi bene, per Era, e divinamente, amico caro. Ma come pare, se rispondi che è possibile, in un detto d’Euripide cadrai: la nostra lingua sarà inconfutabile, non la mente».

213 Dopo la battuta dei versi 599-600, Fedra riprenderà la parola solo al v. 699: il testo non indica in modo chiaro dove essa si trovi in quest’arco di tempo. È possibile che la regina, dopo aver pronunciato il v. 600, esca di scena, rientrando nel palazzo attraverso una delle porte laterali. Ma è forse più probabile, e al contempo suggestivo, pensare che Fedra non abbandoni lo spazio scenico e che assista, senza essere vista, agli animati discorsi della Nutrice e di Ippolito. Cfr. SIDER 1977,17-19.

106 Ἱπ. οὐ μὴ προσοίσεις χεῖρα μηδ᾽ ἅψῃ πέπλων; Τρ. ὦ πρός σε γονάτων, μηδαμῶς μ᾽ ἐξεργάσῃ. Ἱπ. τί δ᾽, εἴπερ, ὡς φῄς, μηδὲν εἴρηκας κακόν; Τρ. ὁ μῦθος, ὦ παῖ, κοινὸς οὐδαμῶς ὅδε. Ἱπ. τά τοι κάλ᾽ ἐν πολλοῖσι κάλλιον λέγειν. Τρ. ὦ τέκνον, ὅρκους μηδαμῶς ἀτιμάσῃς. Ἱπ. ἡ γλῶσσ᾽ ὀμώμοχ᾽, ἡ δὲ φρὴν ἀνώμοτος.214

La sequenza contiene un’informazione fondamentale ai fini dello svolgimento successivo della tragedia: infatti apprendiamo ai vv. 611-612 che la Nutrice aveva confidato a Ippolito l’amore della sua padrona, facendogli però giurare preventivamente di non rivelare a nessuno quanto gli avrebbe detto. La reazione del giovane è rabbiosa e offensiva e in un primo momento sembra disconoscere la validità di questo giuramento, distinguendo: ἡ γλῶσσ᾽ ὀμώμοχ᾽, ἡ δὲ φρὴν ἀνώμοτος.215 Il verso divenne assai famoso nell’antichità e fu più volte citato.

Isolata dal contesto cui appartiene, l’affermazione di Ippolito poteva apparire provocatoria e blasfema: tant’è che fu sfruttata dai suoi avversari come prova che il teatro euripideo, con le sottigliezze della cultura sofistica, sovvertiva i valori molari e religiosi della città.216 Per essi parla Aristofane che cita il verso una volta

nelle Tesmoforiazuse (vv.275-6) e ben due volte nelle Rane (vv. 101-2 e 1471).217

214 «Ipp. O madre terra, o luce del sole, quali parole nefande ho sentito! Nutr. Taci, figlio mio, che nessuno ti senta gridare. Ipp. Con gli orrori che ho sentito, non posso tacere. Nutr. Te ne supplico, per il tuo forte braccio! Ipp. Non mi toccare la mano, non mi toccare la veste! Nutr. Te lo chiedo abbracciandoti le ginocchia, non mi rovinare! Ipp. Ma se non hai detto niente di male, secondo te! Nutr. Questo discorso non è per tutti. Ipp. Il bello diventa più a divulgarlo. Nutr. Figlio mio, non mancherai il tuo giuramento! Ipp. Ha giurato la lingua, non il cuore».

215 B

ARRETT 1964, n. ad loc., vede qui compiersi la svolta drammaturgica che porta alla scelta difensiva della calunnia: Fedra sente l’intera ῥῆσις del giovane e convinta che egli non manterrà il segreto, medita la sua rovina. Tuttavia, come nota PADUANO 2000,15, se Fedra ascolta la ῥῆσις del giovane, ascolta anche le parole rassicuranti in cui ribadisce la sua intenzione a rispettare il giuramento.

216 Cfr. S

USANETTI 1997, 78. 217 P

107

Stando poi alla testimonianza di Aristotele (Retorica III 15, 1416a28 ss.), Euripide fu addirittura accusato di empietà sulla base di questo verso.218 In realtà, queste

parole, come sottolinea Diano, 219 vogliono dire che il giuramento la Nutrice glielo

ha estorto con l’inganno, ed egli ha giurato senza sapere quello che giurava. Ippolito non solo ribadirà la propria intenzione di rispettare il giuramento, ma per questa sua fedeltà all’impegno assunto - nonché per la sua virtù più proclamata ed esibita, l’eusebeia – perderà la vita. Il verso risulta in ogni caso significativo, in quanto problematica testimonianza del dissidio tra le norme di una morale interiorizzata e il rispetto di vincoli formali ed esteriori, quale è appunto il giuramento.220 E infatti, secondo Avery, il verso divenne famoso proprio perché

riassumeva un aspetto centrale all’interno di questa sottile e complessa tragedia, pervasivo dell'intero tessuto tragico, ovvero il contrasto tra verità interiore e apparenze esteriori, tra ciò che è effettivamente e quello che sembra essere.221

4.4 Analisi e confronto I

Riportiamo di seguito i due passi: Simposio 199a5-6 “ἡ γλῶσσα” οὖν ὑπέσχετο, “ἡ δὲ φρὴν” οὔ: χαιρέτω δή. Ippolito 612 218 Cfr. A VERY 1968,22-24. 219 Cfr. D IANO 1973,336.

220 Cfr. SUSANNETTI 1997,n. ad. loc.. Questo passo euripideo viene citato anche da Cicerone (I

doveri III 29, 108).

221 Cfr. A

VERY 1968,35:«Hippolytus 612 was famous in fifth century Athens, not because it represented the moral laxity of which Euripides was sometimes accused, but rather because it represented a significant aspect of the play and was recognized as such. That is, it was famous for literary rather than moral reasons. The evidence of the comedies themselves indicates that Aristophanes' involvement with Euripides was primarily on literary grounds. All the other so- called attacks on Euripides are so mixed up with jest that it is very difficult-if not impossible-to separate the serious from the merely jocular. The view presented here of the meaning of

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ἡ γλῶσσ᾽ ὀμώμοχ᾽, ἡ δὲ φρὴν ἀνώμοτος.

Si tratta di una citazione parafrasata, in cui sono mantenuti i termini del parallelo, γλῶσσα e φρήν, con qualche variazione nella scelta del verbo.

Nel verso euripideo il focus è sul giuramento sotto il duplice aspetto – non coincidente - della sua verbalizzazione e della sua interiorizzazione. Il verbo impiegato è ὂμνυμι, termine che veicola il significato “prestare giuramento”. E infatti, come già detto, grazie a questo verso apprendiamo che la Nutrice, secondo modalità che rimangono retrosceniche, ma che si lasciano agevolmente intuire, rivela ad Ippolito l’amore segreto della sua padrona, ma gli estorce nel contempo, sotto giuramento, la promessa del silenzio, una promessa che ha ovviamente in vista, prima di ogni altro, Teseo.222 Ippolito si trova d'un tratto coinvolto, al di là non solo della sua volontà, ma anche di ogni possibile previsione, nella vicenda, e nel disegno della Nutrice. Ed egli non può che rifiutarne le infami proposte, che lo inducevano a contaminare il letto del padre. La prima reazione è di tapparsi le orecchie, il suo rifiuto è radicale, è un rifiuto "di aver udito" ciò che la nutrice gli ha detto (v. 602 "quali parole nefande ho sentito! "). Ma l’opera è compiuta, irreversibilmente, con l’irreversibilità della parola pronunciata e non più cancellabile.223 Egli è obbligato al silenzio dal giuramento previamente estortogli

dalla Nutrice, e dall'ulteriore supplica (v. 605) con cui costei, scaltra utilizzatrice delle risorse del codice "rituale", ne rafforza ulteriormente il vincolo.224 Se aveva

un'immediata efficacia il rituale della supplica, il giuramento possiede una potenza ancora più temibile: per un Greco, infrangere il giuramento prestato con le

222 La Nutrice era ricorsa al rituale della supplica per costringere Fedra a parlare; ora essa ripete questi gesti, ma con un’intenzione opposta: si tratta questa volta di far tacere Ippolito. Per la centralità della parola e del non detto in questo dramma, cfr. LONGO 1989, 47-66.

223 Si può incidentalmente osservare, secondo una definizione moderna, ma che vale anche per l’antico,

come il giuramento sia un fenomeno genuinamente performativo.

224 E lo stesso coro, che quand'è il momento potrebbe, e vorrebbe, ristabilire la verità proclamando l'innocenza di Ippolito, è costretto al silenzio, perché questa volta è Fedra che, per opposte ragioni, gli ha strappato il relativo giuramento (vv. 713-714).

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formalità di rito, invocando su di sé la punizione divina in caso di spergiuro, equivaleva a sottoscrivere la propria sentenza di morte.225 Inoltre, l’ osservanza del

giuramento era imposta non solo dal codice "rituale", ma anche dal codice "eroico", "cavalleresco": spergiurare significa anche abdicare al proprio kleos, che impone la lealtà verso gli impegni assunti di fronte agli dèi come agli uomini. Questo ci dà ragione del silenzio di Ippolito (un silenzio che sarà appunto l’artefice del suo kleos), della sua accettazione di un segreto di cui egli è oramai complice giurato.226

Nel Simposio il contesto è differente, il verbo ὂμνυμι è sostituito da quello, semanticamente forse meno pregnante, di promettere, non di certo per un’errata conoscenza del verso, ma dettata per la volontà di adattarlo al contesto. Non vi è infatti nessun giuramento, se non un accordo preventivo a disquisire d’amore ( «nessuno, Erissimaco, ti voterà contro la tua proposta. Non ti contraddirò io che dico di conoscere solo le cose d’amore…»; 177d6 ss.) - accordo che si dimostrerà basato su presupposti ambigui. In effetti, Erissimaco aveva proposto di fare il discorso più bello possibile su Eros e aveva invitato Fedro a parlare per primo, poiché disteso al primo posto e padre del discorso; ma Socrate, nell’accettare i termini dell’agone simposiaco, li aveva anche implicitamente corretti (177e4-5). “saremo soddisfatti solo se gli oratori ἱκανῶς καὶ καλῶς εἴπωσιν”. Il termine ἱκανῶς sottolinea come il criterio estetico, almeno nelle intenzioni di Socrate, non sarà esclusivo e che la verità su Eros dovrà essere raggiunta anche dialetticamente, poiché ἱκανῶς accompagna e puntualizza, nei dialoghi platonici, le tappe

225 Una forza analoga, e non meno coartante di quella del giuramento, hanno le maledizioni (arai), come quella che Teseo lancerà irrevocabilmente contro il figlio; si tenga presente che un’arà per il caso di inadempienza, è parte delle formule di giuramento.

226 Quando Teseo, tratto in inganno dal "testamento" di Fedra, porterà in piazza ciò che egli in buona fede ritiene sia la verità (v. 885 "Ippolito ha osato / attentare al mio letto"), e chiamerà a raccolta i cittadini di Trezene, facendo appello alla città, Ippolito si trova ad essere, per il giuramento prestato, posto in condizione di non potersi difendere, e tutte le argomentazioni cui egli ricorre per convincere il padre della propria innocenza restano senza effetto, perché egli non può rivelare la verità che lo avrebbe salvato, e cioè che Fedra, e non lui, aveva concepito la passione adulterina e incestuosa.

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dell’argomentare e del confutare.227 Dal momento che i discorsi che si erano

susseguiti avevano rispettato il primo e non il secondo criterio, si capisce bene lo sconcerto di Socrate, sottolineato dall’anafora della negazione (οὐκ ᾔδη … οὐ δ᾽ εἰδὼς):228 il tono è serio, nonostante una sottile ironia, evidenziata subito dopo

dalla citazione euripidea, lo pervada.229 Il testo platonico gioca sulla polarità,

offerta dal verso tragico, dei termini γλῶσσα e φρήν, indicanti rispettivamente l’atto verbale e l’atto intellettivo, quella contrapposizione tra esteriorità e interiorità, o ancora se vogliamo tra quello che appare (principio estetico) e quello che in realtà è, apparenza e verità di cui parlava Avery e per cui, secondo lo studioso, il verso divenne famoso.

L’intervento di Socrate, segna, quindi, uno stacco, una cesura profonda nello svolgimento del dialogo. A sottolineare tale cesura è lo stesso Socrate che si preoccupa di prendere le distanze dai contenuti dei precedenti discorsi, dai criteri e dai modelli encomiastici cui si sono ispirati gli altri oratori. Dal suo punto di vista, nella lunga dichiarazione d’intenti che precede il suo intervento (198c5- 199b5), questa contrapposizione si fa più articolata e si trasforma nel contrasto insanabile fra il codice encomiastico al quale tutti gli oratori precedenti si sono scrupolosamente attenuti, e un encomio che sull’argomento convenuto dica la verità.230 Da un punto di vista narrativo, poi, la citazione sottolinea tale cesura e va

a chiudere la sezione inaugurata da quella di Erissimaco della Melanippe saggia,231

a cui avevano fatto seguito, come più volte detto, una serie di discorsi basati su

227 Moltissimi gli esempi: Prot.312d8, 324c8, 338e4, 339c1; Euthyd. 278d1; Gorg. 448b1, 453 a6, 461b1, 487b7, 487e2, 488 a5, 495 a8, 501b2, Meno 75b11; Phaed. 71 a9, 77 a5, 84c7, 85d8, 87 a3, etc. Nella stragrande maggioranza dei casi l’avverbio è legato ai verbi ἔχω, λέγω, ἀποδείκνυμι, σκοπέω e simili, per indicare una dimostrazione sufficiente.

228 Nella stessa direzione va l’allusione a Medea 1044 (χαιρέτω βουλεύματα τὰ πρόσθεν) qui come il poeta tragico ricorre a citazioni di poeti, non per mostrare la sua bravura, ma il suo profondo sconcerto.

229 Si potrebbe notare che lo stesso verso che del resto non a caso uno dei simposiasti, qualche anno dopo rispetto alla data drammatica, parodierà nelle sue commedie.

230 A riguardo vedi NIGHTINGALE 1993.. 231 Cfr. supra cap. 3.

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una concezione retorica dell’encomio.232 Viene, dunque, richiamato Fedro, che in

qualità di pater tou logou:

ὅρα οὖν, ὦ Φαῖδρε, εἴ τι καὶ τοιούτου λόγου δέῃ, περὶ Ἔρωτος τἀληθῆ λεγόμενα ἀκούειν, ὀνομάσει δὲ καὶ θέσει ῥημάτων τοιάυτῃ ὁποία δἄν τις τύχῃ.

Con queste parole si conclude la premessa metodologica di Socrate. Se la prendiamo alla lettera, dobbiamo dedurne che nessuno dei logoi pronunciati fino a quel momento sia stato portatore della benché minima verità. Allo stesso modo, però, ci aspettiamo che il discorso di Socrate-Diotima sia privo di abbellimenti, poco curato nella forma.

4.5 Analisi e confronto II

Di seguito i due testi: Teeteto 154d4

ἡ μὲν γὰρ γλῶττα ἀνέλεγκτος ἡμῖν ἔσται, ἡ δὲ φρὴν οὐκ ἀνέλεγκτος Ippolito 612

ἡ γλῶσσ᾽ ὀμώμοχ᾽, ἡ δὲ φρὴν ἀνώμοτος

Anche in questo caso ci troviamo di fronte ad una citazione letterale nella sua ripresa dei due termini γλῶττα e φρὴν in posizione enfatica, e adattata al contesto per quanto riguarda la scelta del verbo. Il testo platonico, infatti, per i motivi di cui sopra, e per quelli che si cercherà di evidenziare, interviene sul verso euripideo sostituendo il verbo ὂμνυμι con un altro afferente a un campo semantico differente

232 Secondo SANSONE 1996,63, dei richiami ad Euripide ci sarebbero anche nei discorsi di Fedro (179b-c), Pausania (180cd) e Aristofane (189c), mentre in quello di Agatone vi è una citazione del fr.663 Kannicht (196e2-3)..

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(e non leggermente affine, come nel caso del Simposio) e collocando l’azione nel futuro. La scelta dell’autore ricade sul costrutto verbo essere e l’aggettivo ἀνέλεγκτος (un composto di ἐλέγχω), ripreso in anafora nella seconda parte con valore negativo. Si ha quindi un cambiamento di prospettiva: il focus non è più su un’azione compiuta il cui esito permane nel tempo, ma su valore momentaneo.

Posto di fronte all’esempio dei dadi, Teeteto aveva chiaramente espresso la sua difficoltà dichiarando di non sapere scegliere fra le due opzioni: la prima, in linea con la tesi protagorea da lui sostenuta, consiste nell’affermare che non è possibile che qualcosa divenga più numeroso senza subire un accrescimento; la seconda, in linea con l’evidenza dell’esempio formulato, consiste invece nell’affermare che è possibile(154d3-e5). Ed ecco la contraddizione in cui cade, che fa venire in mente a Socrate quelle parole di Euripide, per cui adesso la lingua non sarà contraddetta, mentre il pensiero sì. Il passo, ma ancor di più quello successivo (154d8-e5),233 è

pervaso da un evidente ironia antisofistica. Si palesa in esso, già a una prima e superficiale lettura, una contrapposizione fra i sofisti, presentati come professionisti della parola, e Socrate, che si professa dilettante: sono messi a confronto, in altri termini, il verbalismo sofistico e un’analisi filosoficamente corretta. Come sottolinea Aronadio,234 il sarcasmo antisofistico si articola in una

precisa critica metodologica mirante a sottolineare come sia necessario valutare bene le affermazioni formulate se si vuole evitare di cadere in contraddizione. La polarità γλῶττα/φρὴν offerta dal verso tragico indica che Teeteto, affermando che è possibile che qualcosa divenga più numeroso senza subire un accrescimento, direbbe il vero, a condizione che allontani la mente dalla tesi protagorea; nella battuta successiva la polarità λόγοι/τὰ τῶν φρηνῶν sottintende allora sarcasticamente che i sofisti si spacciano per professionisti della parola senza in

233 «οὐκοῦν εἰ μὲν δεινοὶ καὶ σοφοὶ ἐγώ τε καὶ σὺ ἦμεν, πάντα τὰ τῶν φρενῶν ἐξητακότες, ἤδη ἂν τὸ λοιπὸν ἐκ περιουσίας ἀλλήλων ἀποπειρώμενοι, συνελθόντες σοφιστικῶς εἰς μάχην τοιαύτην, ἀλλήλων τοὺς λόγους τοῖς λόγοις ἐκρούομεν: νῦν δὲ ἅτε ἰδιῶται πρῶτον βουλησόμεθα θεάσασθαι αὐτὰ πρὸς αὑτὰ τί ποτ᾽ ἐστὶν ἃ διανοούμεθα, πότερον ἡμῖν ἀλλήλοις συμφωνεῖ ἢ οὐδ᾽ ὁπωστιοῦν». 234 A RONADIO 2016,147.

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realtà avere adeguatamente elaborato sul piano teorico quanto vengono affermando, tanto che si trovano costretti a formulare affermazioni risibili e a oscillare, posti di fronte a determinate questioni, fra risposte contrastanti. Nella parte finale del passo (154d8-e5), infine, Socrate delinea un correttivo metodologico, che consiste nel consolidare il piano dell’espressione mediante il θεάσασθαι αὐτὰ πρὸς αὑτὰ τί ποτ᾽ ἐστὶν ἃ διανοούμεθα, inteso come accertamento del significato delle affermazioni per verificarne almeno la coerenza ed evitare esiti meramente verbalistici.235

Inoltre, come osserva sempre Aronadio, l’espressione θεάσασθαι αὐτὰ πρὸς αὑτὰ τί ποτ᾽ ἐστὶν ἃ διανοούμεθα è ambigua, poiché il relativo ἃ può indicare sia le rappresentazioni mentali sia le cose rappresentate. Questa ambiguità raccoglie l’ambiguità dei precedenti riferimenti all’ambito linguistico. Il parallelismo fra la γλῶττα della prima parte e i λόγοι della seconda parte non sembra essere perfetto: la γλῶττα era ἀνέλεγκτος, mentre i λόγοι sono in battaglia l’uno con l’altro, sicché uno di essi potrebbe essere falso o, nel migliore dei casi, di essi va verificata la symphonia. Ora se la γλῶττα era ἀνέλεγκτος, è, platonicamente, perché in quell’occasione il detto corrispondeva al reale, il linguaggio alla cosa designata. Dunque, nella prima parte del passo (154d3-6) la polarità γλῶττα/φρὴν nascondeva un contrasto tra realtà vera e veramente descritta, da un lato, e rappresentazione teorica del reale non adeguata, dall’altro. Nella seconda parte del passo (158d8-e5) si nasconde, allora, l’indicazione del corretto modo di procedere dal punto di vista platonico: occorre dapprima exetazein i costrutti teorici, per poi essere in condizione di dialegesthai (nel senso forte, platonico, della dialettica). Nella parte finale del passo (154e3-5) si delinea il radicale correttivo metodologico, che consiste nel badare preliminarmente al piano dei contenuti (prima che a quello del linguaggio o delle rappresentazioni mentali): Socrate spiega come dare luogo all’exetazein ta phronon, nel senso che bisogna andare a guardare (theasasthai)

235 fr. F

ERRARI 2011,262 n. 82, il quale si sofferma sull’impiego dei verbi exetazein e symphonein, dei quali rileva la marca socratica.

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che cosa sono per se stesse le cose che noi facciamo oggetto del nostro dianoeisthai, e cercare su questo piano (quello delle cose rappresentate e non quello delle rappresentazioni) la symphonia, quella symphonia che la sfera dell’empirico (a cui la tesi di Teeteto/Protagora fa esclusivo riferimento) non può assicurare.

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5.Ione 533d4

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