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N EL CONTESTO DEL MERCATO GLOBALE M ETAMORFOSI E INSTABILITÀ DEI SIGNIFICATI DI AVVENIRE – Soluzioni alternative verso lo sviluppo non possono,

UNA QUESTIONE APERTA

N EL CONTESTO DEL MERCATO GLOBALE M ETAMORFOSI E INSTABILITÀ DEI SIGNIFICATI DI AVVENIRE – Soluzioni alternative verso lo sviluppo non possono,

del resto, venire neppure dalle «virtú» delle politiche di privatizzazione; punto fondamentale dei programmi di aggiustamento strutturale, che hanno effettiva- mente condotto la regione verso cambiamenti importanti nel quadro legislativo, con l’obiettivo di promuovere il rafforzamento del settore privato. E la conse- guenza che le privatizzazioni dovrebbero subire in questi anni un’accelerazione: considerata soprattutto la pressione delle istituzioni di Bretton Woods. Ora, ciò che qui invece emerge in tutta la sua ampiezza, è l’impossibilità di promuovere la fiducia nel mercato. Perché le circostanze nelle quali le privatizzazioni si realiz- zano – e dove si riconferma, fra l’altro, il problema della non-trasparenza delle attività economiche – sviluppano fratture cosí ampie nei difficili rapporti tra sta- bilità sociale e pretesa «efficacia» economica, che è il tema dell’ “opposizione tra la folla e il mercato”199che invece si afferma in tutta la sua ampiezza. Tanto che nella stessa Tunisia, paese considerato relativamente «prospero», l’attenzione ricade ancora una volta sul rischio della frattura sociale. Perché “l’importanza dei licenziamenti che provocano le privatizzazioni in particolare non è facile da deter-

197Undp, Arab Human Development Report 2002, op. cit., p. 29.

198Samir Amin, “Préface”, in Fayçal Yachir, La Méditerranée dans la révolution technologique,

L’Harmattan, Paris, 1992, p. 9.

minare con precisione, tanto queste operazioni sono circondate di opacità; al mas- simo si conosce il nome dell’impresa privatizzata e il prodotto ufficiale della ven- dita (…). E intanto il sottoimpiego non cessa di ampliarsi fra gli attivi tunisini”.200 Già nel 1997 L’Économiste maghrébin scriveva che “(…) per i cinque prossimi anni ci si aspetta che 50.000 persone perderanno il lavoro a causa della ristruttu- razione delle imprese pubbliche”.201 E si tratta di un’osservazione che ora va acquistando una tonalità sempre piú aspra, se si considera che il processo di pri- vatizzazione conosce in questi ultimi anni, sotto l’effetto dell’Accordo di associa- zione con l’Unione europea, un’accelerazione e un’estensione notevoli. Anche se poi, in realtà, il settore privato in Tunisia resta ancora di dimensioni modeste, e comunque è posto sotto il controllo diretto o indiretto del settore pubblico. A conferma che se le «privatizzazioni» offrono effettivamente ai gruppi privati la possibilità di ampliare le loro dimensioni, “il loro sviluppo non può effettuarsi che in simbiosi con lo Stato (…); ciò che permette al potere politico di conservare il controllo del campo economico nonostante la sua regolazione supposta dalle leggi del mercato”.202E comunque, è in tutta la regione maghrebina che i programmi di privatizzazione, rivelando la loro inefficacia nel rimuovere le rigidità di econo- mie bloccate – e quindi caratterizzandosi per gli alti costi sociali, e assenza di svi- luppo203– esprimono quanto il problema chiave che rimane senza soluzione è la ristrutturazione del settore produttivo e con esso del tessuto politico e sociale. Con l’evidente conseguenza di quanto effettivamente le istituzioni finanziarie internazionali sono incapaci di regolare lo sviluppo attraverso nuove relazioni di dialogo, verso un confronto piú ampio sui significati di integrazione e di margi- nalità. Confermando e rafforzando – in opposizione al dilatarsi degli orizzonti del- l’epoca – l’assenza di un terreno favorevole a nuove idee. Ora tanto piú preoccu- pante, dal momento che l’esperienza dell’aggiustamento strutturale ha mostrato concretamente che è difficile, per non dire impossibile, privatizzare le imprese pubbliche, che costituiscono di per sé tanti monopoli, di produzione o di distri- buzione, senza farne dei veri e propri monopoli privati. In altri termini, privatiz- zare le imprese pubbliche in questi paesi (dove il settore privato è esso stesso

200Fathi Chamkhi, “Tunisie: la politique de privatisation”, in Confluences Méditerranée, n. 35,

automne 2000, pp. 107-108.

201L’Économiste maghrébin, n. 196, p. 25.

202Michel Camau e Vincent Geisser, op. cit., pp. 61-62. Sull’argomento, v. anche Béatrice Hibou,

La force de l’obéissance. Économie politique de la répression en Tunisie, la Découverte, Paris, 2006.

203Come scrive Bichara Khader: “Occorre riconoscere che il settore privato dei paesi arabi non

è abituato a evolvere in una atmosfera competitiva e che i suoi metodi di gestione restano ampia- mente dominati dal carattere familiare e patriarcale dell’impresa. Le strutture di gestione sono cen- tralizzate; l’impresa è spesso sotto-capitalizzata e molto dipendente dai crediti bancari accordati su garanzie fondiarie o personali del capo dell’impresa, piú che sul merito dell’impresa stessa e dei pro- getti che essa realizza. Senza contare che la contabilità è raramente trasparente e non riflette la realtà delle attività intraprese” (Bichara Khader, “La privatisation dans le monde arabe: un remède mira- cle?”, in Bichara Khader (a cura di), Alternatives Sud [Le partenariat euro-méditerranéen vu du Sud], vol. VII, 2001, p. 57).

dominato dai monopoli) non vuol dire favorire l’avvento di un regime concorren- ziale, ma passare da un monopolio di Stato a un monopolio privato.204 Non è allora un caso se, anche in Algeria – di fronte alla fragilità di uno Stato che ha ampiamente perduto di credibilità – a prevalere, insieme al programma di ristrut- turazione industriale e di privatizzazione, non sono meccanismi di innovazione, ma piuttosto le forti connessioni tra potere e affarismo.205Rivelando pertanto la ferma tendenza a preservare, anzi a rafforzare, lo statu quo, perché oramai “l’opa- cità domina tutte le sfere che riguardano il denaro e i beni pubblici (…). E a guar- darvi da vicino, i tentativi di autonomizzazione degli operatori economici locali non sono percettibili. Se esistono, sono sporadici e rapidamente soffocati da coloro che decidono. Spesso attratti dai servizi, questi operatori privati tendono il piú delle volte a realizzare sostanziali profitti con un minimo di rischio. Le loro velleità di autonomia sono globalmente insignificanti”.206 Un po’ ovunque, del resto, nel mondo arabo il dibattito sottolinea con insistenza che “la privatizza- zione ha portato, in molti casi, alla vendita dei beni pubblici come in Egitto, in Tunisia, in Marocco e in Algeria. Cosicché la privatizzazione non appare tanto come creazione di nuove imprese che vengono ad arricchire il tessuto economico – particolarmente industriale – del paese, quanto piuttosto come spartizione – da chi e come? – dei beni pubblici”.207

L’aspetto piú sorprendente del «sistema» è ancora una volta la sua incomuni- cabilità. La visione del Fmi e della Banca mondiale è, in effetti, cosí lontana dalle problematiche concrete dei paesi nei quali interviene che, nell’indicare la strada delle privatizzazioni, non prende neanche in considerazione come “nel contesto arabo «il padrone dell’impresa» si avvicina piú allo sfruttatore che all’innovatore (…). [E molti] mettono l’accento sulla dimensione volatile, cioè parassitaria del- l’imprenditoria nei paesi arabi che funziona in gran parte secondo le logiche della rendita”.208Perché ciò che costantemente appare è che “la borghesia locale manca spesso di spirito d’impresa, preferisce il profitto immediato, il guadagno facile, le attività speculative, piuttosto che le attività produttive”.209 E in assenza di una imprenditoria capace di assumersi i rischi e muovere verso il cambiamento e l’in- novazione, “gli imprenditori si accontentano di rendite di protezione (licenze,

204Larbi Talha, “Croissance, crise et mutations économiques au Maghreb”, cit., p. 77.

205 Mahmoud Merhi, “Pouvoir et affairisme: l’Algérie des réseaux”, in Confluences Méditer-

ranée, n. 45, printemps 2003, pp. 107-114.

206Ivi, p. 111.

207Samir Amin e Ali El Kenz, op. cit., pp. 141-142. Nella stessa Mauritania, le analisi non cessano

di segnalare che le privatizzazioni – asse centrale dei programmi di aggiustamento strutturale – hanno in primo luogo favorito i gruppi piú vicini al potere. La corruzione ha cosí potuto trovare nicchie favorevoli per un suo facile sviluppo; fino a mettere in luce la potente crescita di un affarismo sem- pre piú privo di ogni scrupolo (Abdel Wedoud Ould Cheikh, “Les habits neufs du sultan Sur le pou- voir et ses (res)sources en Mauritaine”, in Maghreb-Machrek, n. 189, automne 2006, p. 49).

208Éric Gobe, “À la recherche des entrepreneurs arabes”, in Les Cahiers de l’Orient, n. 55, 1999,

p. 8.

contingentamenti, etc.) o di mercati pubblici”.210 Nello stesso Marocco, il paese che ha pienamente aderito alla sfida dell’apertura economica e dell’inserzione internazionale, l’osservazione costante è che “una nuova cultura economica deve soppiantare comportamenti contro-produttivi, associati alla concorrenza sleale, ai privilegi e alle posizioni di rendita”.211

Vi è però un altro aspetto che occorre altresí considerare, e che con forza emerge dai programmi di privatizzazione. Questa volta, con lo sguardo rivolto alle potenzialità di una forte tendenza verso l’innovazione, e in tal senso centrando l’attenzione sull’evidente orientamento dei programmi di privatizzazione a far emergere «attori nuovi», quale elemento chiave nell’ottica di dinamizzare il tes- suto economico. Il campo allora si dilata. E al contempo si contrae e si ripiega sulle tante difficoltà e contraddizioni del presente. Ma è questo «bagliore» di avvenire che, rapidamente proiettato oltre le forme attuali del libero mercato, si impone quale tematica fondamentale, che richiama all’attenzione l’esigenza di muovere su un’estensione piú ampia e piú generosa dei suoi significati. Verso una traiettoria velocemente proiettata in direzione del «nuovo», alla ricerca di nuove creatività. In questo senso, e solo in questo senso – con percorsi che superano quindi ampiamente motivazioni e soluzioni neoliberali – la problematica dei «nuovi attori» – indubbiamente ancora in via di definizione per quanto riguarda i suoi significati piú concreti – fa già parte dello sconvolgimento dei valori in corso a livello mondiale.

Gli effetti del processo di «apertura», avviato dal neoliberalismo, sono lontani dall’essere definiti. Conservazione e trasformazione effettivamente si sovrappon- gono e si intrecciano, rafforzando uno scenario di instabilità e di tensioni, che acquista un carattere tanto piú acceso se consideriamo che i paesi maghrebini, sul- l’urgenza di promuovere le riforme, si stanno orientando verso una maggiore libe- ralizzazione economica, che inevitabilmente svela e approfondisce le tante fragi- lità della regione, lasciando senza soluzione l’estendersi di un’esigenza concreta di rinnovamento. E tuttavia qui imprimendo, proprio attraverso l’aggravarsi delle contraddizioni, tracce fondamentali – in termini di problematiche aperte – sui percorsi della mondializzazione, che oramai muove, come si è già visto, verso la chiusura dell’era della produzione materiale e il delinearsi della nuova era del- l’immateriale. Affermando che è proprio nei significati della fine di un’epoca, che allora occorre analizzare il rapido evolversi del neoliberalismo e anche delle sue ferme rigidità, con il riflesso immediato sui limiti di un modello che aveva innan- zitutto promesso di riportare la crescita. Mentre, è proprio la crescita economica – tappa essenziale del processo di aggiustamento – che ora scopre i tanti e diversi

210Abdelkader Sid Ahmed, Le développement asiatique…, op. cit., pp. 11-12.

211Noureddine el Aoufi, Omar Belkheiri, Mohammed Bensaïd, Karima Ghazouani, Abid Iha-

diyan, “Indicateurs économiques de la gouvernance démocratique au Maroc”, in Critique économi-

significati della sua fragilità, esasperandone le contraddizioni, nel momento stesso in cui svela la sua limitata capacità di risposta, quale soluzione per lo sviluppo del ventunesimo secolo. E non solo perché la crescita nel Maghreb oggi si impone per i suoi percorsi instabili, oscillanti secondo gli anni; e comunque rimanendo sem- pre modesta e insufficiente alle esigenze dei paesi.212 Ma soprattutto perché occorre sempre considerare che non può di per sé rappresentare un obiettivo capace di regolare i nuovi rapporti di interdipendenza, a confronto con l’emer- genza della complessità sociale che, proiettata sulla scena mondiale, si trova a diretto confronto con le nuove sfide dell’immateriale sull’evolversi delle nuove tecnologie e l’imporsi di un ambiente economico complesso e instabile, innanzi- tutto attraversato da un mutamento assai profondo. Dove è il paradigma stesso della crescita economica che si trasforma. E si aprono nuovi percorsi allo svi- luppo, nell’esigenza di cogliere l’evoluzione dell’insieme delle problematiche eco- nomiche, politiche, sociali e culturali, oramai decisamente trasportate su piú ampi livelli di confronto. In sostanza a sottolineare, come osserva Eric J. Hobsbawm, che “la distribuzione sociale piú che la crescita dovrà dominare la vita politica del prossimo millennio (…). In un modo o in un altro, la sorte dell’umanità dipende dalla restaurazione delle autorità pubbliche”.213

Indubbiamente l’accento posto dall’aggiustamento strutturale sulla dinamica della crescita economica, richiama all’attenzione il favoloso successo materiale ottenuto dal mondo occidentale, e la sua indiscutibile importanza per il progresso del ventesimo secolo, con i suoi effetti fondanti nella storia economica del mondo industrializzato. Ma ora, sull’affermarsi di una sua lettura, al contempo parziale e valorizzante, occorre sottolineare che la crescita economica in sé, sebbene ele- mento ancora indispensabile per lo sviluppo dei paesi maghrebini, non è né socialmente strutturante né destrutturante. La storia economica degli ultimi anni a livello mondiale dimostra molto bene come la crescita può convivere con un’am- pia illegalità, con una diffusa disoccupazione e con una grave povertà, almeno che non intervengano altri meccanismi e altri principi di coesione sociale. Elementi oggi difficili da cogliere nella complessa evoluzione dei loro significati, anche per- ché il campo d’azione, da un lato apre su territori piú vasti e nuovi orizzonti del sapere; e dall’altro, sulle spoglie della crisi dello Stato sociale, da cui prende forza il primato di una «razionalità» ora essenzialmente tecnica che, non riuscendo ad affrontare la complessità del nuovo scenario interno e internazionale, continua a misurare – come sostiene Christian Comeliau – il progresso delle società dando

212Su questo argomento è importante segnalare che: “Oltre alla bassa efficienza degli investi-

menti, la crescita nei paesi arabi, è stata seriamente ostacolata da una bassa e declinante produttività del lavoro. La bassa produttività è una sfida fondamentale per la regione” (Undp, Arab Human

Development Report 2002, op. cit., p. 87).

un’importanza prioritaria e quasi esclusiva al tasso di crescita economica.214Men- tre, con le sue radicate «inamovibilità» e ancora piú radicate contraddizioni, modella i percorsi dello sviluppo sulla frenetica ricerca del consensus illegitti- mando il disaccordo.215A diretto confronto e in simbiosi è intanto lo Stato sociale stesso che si offusca, disegnando profonde linee di frattura nel tessuto sociale. E, quindi, a segnalare come il Welfare State – che ha rappresentato la base della coe- sione sociale nell’Europa della crescita economica – ora restringe, invece, il suo campo di azione, non potendo piú rispondere all’ampiezza dei nuovi problemi posti dalla globalizzazione e dalla mondializzazione, dal momento che è lo Stato stesso che perde di influenza sull’esigenza di gestire una realtà sempre piú aperta alla scena mondiale. E simultaneamente si assiste alla “disintegrazione della sag- gezza dominante nei paesi avanzati”;216e l’affermarsi della constatazione che “la crescita economica è l’ossessione del nostro tempo”217: slogan unidimensionale che non può misurare la complessità delle nostre società per le dimensioni che esse hanno acquisito, per le loro aspirazioni di benessere, l’intensità crescente dei loro legami, e anche per l’estensione e gravità dei loro problemi.218

Come allora giudicare oggi il mercato globale, il «nucleo» centrale dell’ideolo- gia dominante, l’optimum da realizzare, se non innanzitutto interrogando i multi- pli percorsi di continuità e rottura con il passato. Da cui emerge come nell’evolu- zione della modernità occidentale, il mercato aveva saputo – al di là delle sue numerose contraddizioni – cogliere le occasioni favorevoli che le diverse sfide offrivano, grazie a un continuo processo di negoziazione e rinegoziazione. Evi- tando cosí i gravi rischi insiti nell’estendersi di incontrollati spazi di inerzia di fronte al dilatarsi delle attese, quale risposta concreta all’imporsi delle nuove opportunità. Non è quindi oggi neppure pensabile che la semplice diffusione di un’ideologia predelineata, basata sul consensus e orientata sulla sola visione neoli- berale del mercato, possa indicare la via per questo nuovo millennio: innanzitutto caratterizzato dall’ingresso sulla scena mondiale di un «affollarsi» di popoli e di culture diverse. Indubbiamente potrà ancora accelerare ed esasperare contraddi- zioni e tensioni sul rapido lacerarsi delle frontiere, aggravando ulteriormente le situazioni di instabilità. Ma per dover poi – e inevitabilmente – cedere il passo ai nuovi percorsi di avvenire, e ai nuovi attori della modernità. Perché la problema- tica aperta sulla scena mondiale – come affermano Samir Amin e Ali El Kenz – è che “l’unificazione del mondo attraverso il mercato e l’egemonia, lontano dal costituire la regola nella storia del capitalismo in vigore, sono l’eccezione di corta durata e fragile”.219

214 Christian Comeliau, La croissance économique: mesure ou démesure?, juillet 2004,

< http://ced.u-bordeaux4.fr/GresPrg04/BAO4comeliau.pdf >.

215Jean Baudrillard, “L’hystérésie du millenium”, in Le débat, n. 60, mai-août 1990, pp. 65-73. 216Paul R. Krugman, Pop Internationalism, op. cit. (tr. fr., p. 136).

217Christian Comeliau, La croissance économique: mesure ou démesure?, cit., p. 2. 218Ivi, pp. 2-5.

L’IMPORSI DELLA SOCIETÀ: ANCORA UNA VOLTA. – Sulla scena maghrebina il

neoliberalismo continua intanto il suo percorso, attraverso l’estendersi di un piano ampio di riforme che, al di là degli itinerari specifici che acquista nei sin- goli paesi, muove su realtà che effettivamente si trasformano, e tuttavia in sim- biosi con un processo che frena qualsiasi ricostruzione dei sistemi interni sulla base della fiducia e della stabilità. Perché ciò che occorre innanzitutto conside- rare – come si è già visto – è che autoritarismo e apertura convivono nel Magh- reb del ventunesimo secolo. Richiamando all’attenzione una marcata tendenza a svincolare le riforme in corso da progetti coerenti e strutturati, in riferimento ai bisogni profondi delle società e all’esigenza di promuovere benefici per l’intera popolazione della regione. Nello stesso Marocco, dove il governo di alternanza politica (1998-2002) avrebbe dovuto dare un nuovo slancio al paese, in realtà le promesse di cambiamento non si sono realizzate, e “la monarchia è rimasta l’at- tore centrale del sistema politico”,220 confermando – ancora una volta – la per- manenza di una situazione caratterizzata dall’immobilismo nel modo di gover- nare e da una politica debole in termini di sviluppo economico e sociale. Tanto che le stesse riforme del Codice della famiglia (la Moudawana) o del Codice del lavoro,221 approvate senza un dibattito aperto, si rivelano in realtà prive della forza necessaria per riorganizzare su nuove basi la questione del legame sociale. E quindi volte ad esprimere, e con chiara evidenza, come il discorso sulle riforme in realtà si situa nelle grandi linee di frattura tra Stato e società.222 Tanto che anche per quanto riguarda la Moudawana, indubbiamente riforma molto impor- tante di Mohammed VI, l’osservazione è che essa “per numerosi membri del-

220Khadija Mohsen-Finan e Malika Zeghal, “Le Maroc, entre maintien de l’ouverture politique

et «fin du laxisme»”, in Rémy Leveau (a cura di), Afrique du Nord Moyen-Orient. Espace et conflits, Édition 2004-2005, op. cit., p. 119.

221La riforma del Codice della famiglia è stata adottata all’unanimità dalla Camera dei deputati

il 16 gennaio 2004; e la riforma del Codice del lavoro, anch’essa votata all’unanimità, è stata adot- tata il 22 giugno 2003.

222In riferimento al nuovo Codice della famiglia, Omar Brouksy osserva: “La «presentazione»

di questo progetto al Parlamento, da parte del re, si accorda meno a un percorso dinamico e razio- nale della democrazia rappresentativa, parlamentare, quanto piuttosto a una concessione regia (…). Non vi è stata nessuna riunione della commissione parlamentare della giustizia, della legislazione e dei diritti dell’uomo, incaricata di «dibattere» sul progetto riformato della Moudawana. (…) I depu- tati si sono trovati di fronte a una concentrazione monarchica delle forme di legittimità – religiosa, politica e sociale – che li ha bloccati, sostituendo al dibattito di fondo la propensione a controllare il Parlamento, al fine di emarginarlo, se non addirittura di superarlo” (Omar Brouksy, “Le proces- sus d’adoption de la Moudawana, entre la prééminence du roi et la lassitude du Parlement”, in

Annuaire de l’Afrique du Nord, tome XLI, Cnrs, Paris, 2005, pp. 240-242).

Per quanto poi riguarda il nuovo Codice del lavoro e le nuove leggi di protezione sociale, Myriam Catusse rileva che: “L’insieme di questi progetti di riforme (…) non ha in fin dei conti e paradossalmente che suscitato pochi dibattiti pubblici riguardo alle loro sfide. I deboli tassi di pro- tezione sociale e l’assenza di copertura effettiva spiegano sicuramente in parte le reazioni di defe- zione o di disinteresse di cui esse hanno potuto essere l’oggetto” (Myriam Catusse, “Les réinven-