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A SCESA E DISTORSIONI DELL ’ AGGIUSTAMENTO STRUTTURALE P ERCORSI DI TRA SFORMAZIONE E DINAMICHE DI DISIMPEGNO – Neoliberalismo, crisi economiche e

UNA QUESTIONE APERTA

A SCESA E DISTORSIONI DELL ’ AGGIUSTAMENTO STRUTTURALE P ERCORSI DI TRA SFORMAZIONE E DINAMICHE DI DISIMPEGNO – Neoliberalismo, crisi economiche e

metamorfosi delle società fanno il loro ingresso sulla scena mondiale attraverso percorsi strettamente intrecciati. Cosicché anche nel Maghreb, è un esteso scena- rio di crisi aggravata e di disillusione profonda che negli anni ’80 spinge i governi nelle dinamiche delle riforme neoliberali, con “l’imposizione-adozione”20dei pro- grammi di aggiustamento strutturale,21 e l’immediata proiezione della regione nelle problematiche di un tessuto mondiale sempre piú interconnesso, ma altresí attraversato da elementi diversi, e per molti aspetti anche slegati nelle loro strut- ture di fondo. Il punto di partenza – e la «novità» – è il riconoscimento, da parte dei governi maghrebini, di una crisi economica in atto, che apre problematiche profonde in tutta l’area e frantuma definitivamente il «mito dello sviluppo», nel

19Undp, Arab Human Development Report 2004, New York, 2005, p. 2.

20Bichara Khader, “L’ajustement structurel au Maghreb”, in Bichara Khader (a cura di), Alter-

natives Sud (Ajustement structurel au Maghreb), op. cit., p. 7.

21Come osserva Larbi Talha: “Dopo aver attraversato quasi due decenni (1960 -‘80) di crescita

relativamente sostenuta, le tre economie del Maghreb sono state alla fine colpite dalla crisi econo- mica mondiale che aveva cominciato a scuotere le economie capitaliste d’Europa, circa un decennio prima. La crisi che ha colpito, una dopo l’altra, l’economia marocchina, sin dalla fine degli anni ‘70, in seguito l’economia tunisina a metà degli anni ‘80, e infine l’economia algerina nel 1987-1988, si è manifestata attraverso una caduta simultanea dell’investimento, del consumo, del lavoro, e della capacità di importazione. Al contempo ha rivelato alla luce del giorno gli squilibri interni ed esterni che erano latenti: deficit crescente delle finanze pubbliche, inflazione accelerata dei prezzi, deficit cronico della bilancia delle partite correnti, slittamento inquietante del debito pubblico interno e del debito estero. L’acuirsi di questi squilibri e della crisi che ne è il rivelatore ha reso necessario la siste- mazione, uno dopo l’altro, in ciascuno dei tre paesi (Marocco, Tunisia e infine l’Algeria), di un insieme di misure, simili nelle loro grandi linee, di stabilizzazione e di aggiustamento strutturale” (Larbi Talha, “Croissance, crise et mutations économiques au Maghreb”, cit., p. 75). Anche in Mau- ritania le politiche di aggiustamento strutturale vengono avviate all’inizio degli anni ’80, di fronte alla minaccia di asfissia dell’economia nazionale e la crescita esorbitante del debito estero. Per quanto riguarda la Libia è nel 1987 – a fronte di una grave crisi fiscale dovuta a un rapido calo dei redditi da petrolio – che il paese autorizza la liberalizzazione dell’economia, con un piano di riforme molto simile alle raccomandazioni del Fmi. Gli obiettivi di queste riforme non verranno, tuttavia, portati a termine. Sarà dopo la sospensione dell’embargo (1999), di fronte al deterioramento della situazione economica del paese, che la Libia lancia una nuova politica di apertura economica e di liberalizzazione. Politica che prosegue dopo la revoca totale dell’embargo (2003).

quale si era effettivamente creduto. La promessa delle istituzioni finanziarie internazionali è di risolvere la situazione di crisi stimolando innanzitutto la cre- scita e la stabilità, per ristabilire i grandi equilibri macroeconomici e promuovere quindi – su queste basi – l’inserimento della regione nella nuova logica globale, sullo sfondo di un’evidente estensione delle nuove reti di connessione attraverso il pianeta. In questo senso, e visto in prospettiva, l’orientamento è chiaramente rivolto verso una maggiore integrazione dei paesi maghrebini nel sistema mon- diale attraverso l’estendersi delle nuove aperture e il conseguente indebolirsi delle frontiere. Ma al contempo si tratta di un piano assai vincolante per l’evolu- zione della regione, la cui visione dello sviluppo, per la sua riuscita, è stretta- mente legata a un programma di riforme volto innanzitutto a ristabilire i grandi equilibri macroeconomici, in un contesto di liberalizzazione dell’economia e di apertura sull’esterno. Dove ad imporsi – e in via prioritaria – è l’efficacia del modello di mercato, cosí come è oggi definito dalle istituzioni di Bretton Woods, con il conseguente disimpegno dello Stato e la riduzione delle spese pubbliche (incluse le spese sociali della sanità e dell’educazione).22 Ad emergere è allora l’urto profondo con le dinamiche del quadro sociale della regione, sull’incapacità del progetto neoliberale di cogliere l’ampiezza dei suoi sviluppi che, sotto la spinta della mondializzazione, ora riorienta e dilata il campo del confronto, «assi- milando» al contempo l’estendersi del riflesso di un fenomeno nuovo e in evolu- zione: l’irruzione della società civile nel «governo» della mondializzazione. E da qui anche l’accrescersi delle tensioni in simbiosi con l’estendersi del «potere» neoliberale. Mentre nello stesso tempo – sulla problematica aperta della riorga- nizzazione dei sistemi interni e internazionali – le riforme, che si realizzano nel- l’ambito dell’aggiustamento strutturale, provocano nel Maghreb un profondo cambiamento del tessuto economico e sociale, e imprimono alla regione l’«urgenza» di nuove tracce, che inevitabilmente aprono sui rischi e sulle sfide della nuova realtà mondiale. Svelando cosí l’estendersi di una ricca rete di legami – in termini di nuove interconnessioni e interdipendenze di problematiche – attraverso le diverse aree geografiche e culturali del pianeta. E da questo punto di vista l’internazionalizzazione della regione è definitivamente avviata. Ma non senza provocare accese contraddizioni e ferme chiusure. In primo piano la con- statazione che nel mondo arabo “la mondializzazione è generalmente considerata

22 In riferimento all’ideologia liberale delle istituzioni di Bretton Woods, Joseph E. Stiglitz

afferma: “Le idee e le intenzioni che hanno presieduto alla creazione delle istituzioni economiche internazionali erano buone ma, nel corso degli anni, sono a poco a poco cambiate e si sono total- mente trasformate. L’orientamento keynesiano del FMI, che sottolineava le insufficienze del mer- cato e il ruolo dello Stato nella creazione di lavoro, ha ceduto il posto all’inno del libero mercato degli anni ottanta, nel quadro di un nuovo «consensus di Washington» – il consensus tra il FMI, la Banca mondiale e il Tesoro americano sulla buona politica da seguire per i paesi in via di sviluppo – che ha segnato una svolta radicale nella concezione dello sviluppo e della stabilizzazione” (Joseph E. Stiglitz, Globalization and Its Discontents, W.W. Norton, New York, 2002 [tr. fr., La grande désil-

molto piú come una minaccia esterna che come un’occasione di raggiungere l’e- conomia mondiale”.23

Il problema delle riforme nel Maghreb – che non può, del resto, presentarsi scisso dai bisogni delle popolazioni – acquista il riflesso, sempre piú marcato, di società dove “la crisi ha preso la forma di un incremento notevole dell’intolle- ranza per l’ineguaglianza”.24Scoprendo in tal senso uno scenario di grave blocco politico sull’incisivo estendersi delle frammentazioni sociali; e nel momento stesso in cui – insieme al diffondersi del neoliberalismo – si assiste a livello interno ed internazionale al restringersi degli spazi della negoziazione, in opposizione alle promesse di «apertura» e di libera diffusione dell’informazione. Provocando, pertanto, seri effetti di saturazione e di paralisi nella gestione del cambiamento. Perché la problematica chiave, e ancora lontana dall’essere risolta, è che le isti- tuzioni di Bretton Woods “non sono rappresentative delle nazioni che coprono”.25 E da qui l’amplificarsi del loro carattere prevalentemente rigido e «impermeabile», che le conduce a creare sistemi rigorosamente codificati, impo- nendosi sulla scena mondiale senza gli strumenti necessari per potersi confron- tare, e per poter convincere. Tanto che il problema ampiamente dibattuto, all’in- crocio delle nuove realtà, è che “il «liberalismo» politico ed economico si pre- senta (...) come una postura importata, in rottura con le tradizioni e i comporta- menti dominanti [in loco], cioè in contraddizione con questi (…)”.26Si tratta di un aspetto assai sofferto nel Maghreb, che fa riemergere tematiche di domina- zione e di dipendenza, riconfermando sul piano interno l’assenza di dialogo tra potere e società.27Cosicché ad affermarsi è l’effettiva persistenza di uno stato di

23Clement M. Henry, “Le choc de la mondialisation au Moyen Orient”, in Annuaire de l’Afri-

que du Nord, tome XL, Cnrs, Paris, 2004, p. 44.

24Abdelbaki Hermassi, “State, Legitimacy and Democratisation in the Maghreb”, in Nicholas

S. Hopkins e Saad Eddin Ibrahim (a cura di), Arab Society: Class, Gender, Power and Development, The American University in Cairo Press, Cairo, 1997, p. 56. L’autore osserva che nel Maghreb: “Al di sopra e oltre le disparità fra le fasce di reddito, ciò che ha reso piú acuta la consapevolezza del gap tra le varie categorie sociali è stato il comportamento dei nuovi ricchi. (…) Un consumo osten- tato produce ostilità e rabbia nelle classi popolari e sfiducia fra i giovani, in particolare studenti. Con la proliferazione dei titoli di studio, le masse degli studenti hanno perduto la speranza di raggiun- gere uno status simile a quello che le generazioni precedenti di diplomati aveva ottenuto. Sempre piú, successo e mobilità sono legati a favoritismo, clientela, regionalismo piuttosto che al lavoro e alla competenza. I politici stessi (…) fanno poco per rimuovere l’impressione che essi vivono di poli- tica e non per la politica” (ivi, pp. 56-57).

25Joseph E. Stiglitz, Globalization..., op. cit. (tr. fr., p. 45). Cosí spiega l’autore: “Mentre la quasi

totalità delle attività del FMI e della Banca mondiale (e certamente l’insieme dei loro prestiti) si eser- citano oggi nel mondo in via di sviluppo, queste istituzioni hanno al loro vertice rappresentanti del mondo industrializzato (per prassi o per accordo tacito, il FMI è sempre diretto da un europeo, la Banca mondiale da un americano). I dirigenti sono scelti a porte chiuse, e non si è mai ritenuto necessario richiedere la minima esperienza preliminare in riferimento al mondo in via di sviluppo” (ivi, pp. 44-45).

26Alain Roussillon, “L’Egypte et l’Algérie au péril de la libéralisation”, in Les Dossiers du Cedej,

Cedej, Le Caire, 1996, p. 4.

27In Algeria, per esempio, “nel 1988, al momento di avvio [del processo di riforme], non vi è stata

fragilità dell’intera regione, sulla quale si riflette l’estendersi di risultati assai deludenti, in riferimento ai programmi neoliberali, che lasciano senza soluzione le gravi tensioni insite nel ritardo a modificare la struttura politica, economica e istituzionale dell’area. Perché “nel mondo arabo il bilancio degli anni ’90 per- mette di concludere che le riforme non sono riuscite a rilanciare la crescita eco- nomica e non costituiscono che strategie di gestione della crisi”.28La conclusione diffusa è che “i funzionari del Fmi trattano le difficoltà dei Pvs con metodi stan- dardizzati che non tengono conto della specificità di ogni paese (…). [Tanto che] la riduzione del deficit di bilancio intacca spesso le spese sociali e danneggia lo sviluppo umano, scopo ultimo di ogni sviluppo”.29A questo livello di gravi frat- ture – sul quale si disegna l’ingresso della regione nel ventunesimo secolo – la problematica dominante è che le società maghrebine rimangono avvolte in una morsa di vecchie e nuove costrizioni, a confronto con la realtà di “una riforma economica incompiuta”30che aggrava in profondità la fragilità dei sistemi. Men- tre cresce la marginalizzazione dell’area, sottolineando come “la crisi dell’inser- zione internazionale (...) è la forma piú acuta, piú esasperata della crisi (...)”.31 Con la conseguenza che il punto chiave, sul quale si sofferma il dibattito nell’a- nalizzare questi percorsi di «apertura» sulla scena mondiale – effettivamente penetranti ma assai contraddittori – è che “l’insieme dei progetti proposti in nome del liberalismo non si sono dati l’obiettivo di far uscire il mondo arabo dalla sua paralisi. Si trattava, come altrove, di politiche di corto respiro di gestione della crisi, e niente piú; non si trattava di stabilire un ordine mondiale nuovo, stabile al di là della crisi”.32Tanto che all’inizio del ventunesimo secolo,

della sua applicazione” ( Mohammed Liassine, “Les réformes économiques en Algérie: une transition vers l’économie de marché”, in Annuaire de l’Afrique du Nord, tome XXXV, Cnrs, Paris, 1998, p. 61). E sempre in Algeria, in occasione dell’accordo del 1994 con il Fmi per l’adozione del pro- gramma di aggiustamento strutturale, non vi è stato “né dibattito nella società, né auto-organizza- zione seria degli attori sociali; l’aggiustamento strutturale si è insinuato come una fatalità in una società anestetizzata dalla tragedia quotidiana della violenza politica” (Adel Abderrezak, “Libérali- sation économique et privatisations”, in Confluences Méditerranée, n. 45, printemps 2003, p. 98).

Identiche osservazioni valgono per il Marocco: “Dopo la crisi del 1983 che ha costretto il paese a ricorrere al Fmi e alla Banca mondiale, l’alternanza economica è stata subita, mai discussa pubbli- camente, ancora meno assunta dai partiti politici”(Francis Ghiles, “Le pays entre dans la mondiali- sation par effraction” in Le Monde diplomatique, juin 2001, p. 14).

28Hakim Ben Hammouda, L’économie politique du post-ajustement, Karthala, Paris, 1999, p. 56. 29Michel el Rassi, “Le Maroc sous la houlette du Fonds monétaire international”, in Les Cahiers

de l’Orient, n. 58, 2000, p. 78.

30Abdelatif Benachenhou, “Bilan d’une réforme économique inachevée en Méditerranée”, in

Les Cahiers du Cread, n. 46/47, 1999, p. 67.

31Larbi Talha, “Des économistes maghrébins s’interrogent sur la nouvelle donne de l’insertion

internationale”, in Revue des Mondes musulmans et de la Méditerranée, n. 85-86, 1999, p. 260.

32Samir Amin, “Présentation”, in Samir Amin (a cura di), Le Maghreb: enlisement ou nouveau

départ?, L’Harmattan, Paris, 1996, p. 18.

In riferimento ai deludenti risultati ottenuti, il rapporto del Femise osserva che “il pil dei paesi arabi non rappresenta che l’1,9% del pil mondiale, il loro reddito per abitante non supera il 14% della media Ocse, la disoccupazione resta sempre elevata e le esportazioni di merci non superano il 3,5% delle esportazioni mondiali. Considerato che i paesi del Medio Oriente e dell’Africa del Nord

la constatazione è che “le differenze di sviluppo e le culture politiche sono troppo importanti per considerare una reale interpenetrazione economica. La frattura Nord-Sud, al contrario, rischia di approfondirsi”.33

“Occorre bruciare l’aggiustamento strutturale?”, si domandava Jeune Afrique économie alla fine degli anni ‘90,34riassumendo cosí il nodo della questione. Per- ché effettivamente i Pas hanno suscitato poche speranze nella possibilità di costruire un sistema di equilibrio in favore dello sviluppo, pur facendo emergere quanto lo statu quo è in esaurimento. Non è allora un caso, se in assenza di pro- spettive di cambiamento convincenti, la tendenza decisamente confermata sono i consensus negativi: “Appena conosciuto, questo programma è applicato in un clima di ostilità generale. Il governo combatte palmo a palmo, con accanimento, per ottenere il massimo di facilitazioni dal Fondo, concedendo il minimo di ciò che è considerato come contrario all’interesse nazionale. L’opposizione, quando ve n’è una, denuncia il carattere antipopolare delle misure decretate. Vi è una spe- cie di unione nazionale informale che si costituisce – tutti uniti contro il Fondo”.35 E si tratta di una realtà cosí penetrante che apre la riflessione su questioni fonda- mentali dei meccanismi dell’epoca. Considerato, anche e innanzitutto, che – come osserva Joseph E. Stiglitz – “le due istituzioni avrebbero potuto sottomettere ai paesi diversi orientamenti possibili di fronte alle sfide dello sviluppo e della tran- sizione, e se esse l’avessero fatto, forse questo avrebbe potuto stimolare la loro vita democratica. Ma erano tutte e due animate dalla volontà collettiva del G7, vale a dire dei governi dei sette paesi industriali avanzati piú importanti, e in particolare dei loro ministri delle Finanze e segretari al Tesoro. Ora, troppo spesso, un vivo dibattito democratico sulle diverse strategie possibili era veramente ciò che essi desideravano meno”.36

Sono dinamiche di conservazione e di trasformazione che si incrociano e inte- ragiscono, improntando di sé, in un’azione congiunta, il clima complesso dell’e- poca con i suoi accesi sconvolgimenti. Il punto cruciale è l’affermarsi della “libe- ralizzazione come «fenomeno sociale globale» e come «aporia»”.37Dal momento

(MENA) rappresentano il 10,2% della superficie terrestre e il 4,5% della popolazione mondiale, tali cifre sono assolutamente insufficienti. (…) La parte dei paesi arabi nelle esportazioni mondiali è marginale. Negli ultimi due decenni, le esportazioni della regione sono aumentate solo del 4,4%, mentre le esportazioni mondiali hanno avuto un incremento superiore al 216%” (Femise, Rapport

Femise 2004 sur le partenariat euro-méditerranéen, décembre 2004, pp. 36, 37, < www.femise.org >).

33Gilbert Grandguillaume e Jean-Pierre Peyroulou, “Le Maghreb en mal de médiations”, in

Esprit, n. 308, octobre 2004, p. 80.

34Mohamed Yessoufou Saliou, “Faut-il brûler l’ajustement structurel?”, in Jeune Afrique éco-

nomie, n. 262, 13 avril - 3 mai 1998, pp. 28-41.

35Omar Akalay, “Économies du Maghreb: les consensus négatifs”, in Annuaire de l’Afrique du

Nord, tome XXXV, Cnrs, Paris, 1998, p. 44.

36Joseph E. Stiglitz, Globalization…, op. cit. (tr. fr., p. 40).

37Alain Roussillon, “La libéralisation comme «phénomène social global» et comme «aporie»”,

Association française de science politique, cinquième congrès 23-26 avril 1996, Institut d’Études politiques, Aix-en-Provence, pp. 1-16.

che ciò che innanzitutto emerge – e che in via prioritaria occorre considerare – è che si tratta del trasferimento di un progetto di modernità che, elaborato in Occi- dente, viene ora rapidamente trasportato su spazi e tempi diversi dalla scena poli- tico-sociale che lo aveva caratterizzato. E quindi provocando, sull’esteso muta- mento del campo di azione, una profonda trasformazione delle sue motivazioni e delle sue strutture, che di fatto annullano, fino a renderla «inoperante», la dia- lettica prima conosciuta. Da qui l’emergere – proprio attraverso l’approfondirsi delle tante fratture e disillusioni – del problema cruciale dell’esigenza di un nuovo sistema di valori sulla necessità di una regolamentazione diversa, che sap- pia ritrovare i collegamenti fondamentali tra politica, economia e società. Perché ciò che forse è piú importante rilevare, è che non passerà molto tempo che le società, cosí come il pensiero economico – sull’evidente mutamento del modo di interpretare l’avvenire – si troveranno di fronte a diversi e infiniti modi di evol- versi e trasformarsi, nell’obiettivo di ricercare i nuovi significati e le nuove con- figurazioni degli equilibri necessari per lo sviluppo e per l’effettiva realizzazione di una realtà di pace e di sicurezza, orientata su piú ampie concezioni dell’«umano». Possiamo allora sostenere che l’epoca attuale conferma bene quanto osservava J. M. Keynes: “(...) le piú aspre contese e le diversità di opi- nione piú profondamente sentite si avranno probabilmente negli anni prossimi non in questioni tecniche, in cui gli argomenti (...) sono principalmente econo- mici, ma in quelle che, in mancanza di termini migliori, possono chiamarsi psi- cologiche o, forse, morali”.38Da questo punto di osservazione, il mondo di oggi è ricco di sfide aperte, e segna un campo esteso di problematiche crescenti, dove a riemergere è il noto problema, ma ora sempre piú acuto, di dover colmare la frattura fra democrazia e strategie di sviluppo. Perché malgrado le migliori inten- zioni del discorso dominante, la realtà mette in rilievo quanto effettivamente “di tutti gli impedimenti alla rinascita araba, le restrizioni politiche sullo sviluppo umano sono le piú tenaci”.39E a diretto confronto, sull’accrescersi delle tensioni a livello mondiale, vi è ora anche la deludente e drammatica considerazione che, dopo gli attentati dell’11 settembre, “alcuni aspetti di come è stata condotta la «guerra al terrorismo» è arrivata a porre reali minacce alle libertà civili e alle riforme nel mondo arabo e oltre”.40 Fino a parlare di “crisi della democrazia dopo l’11 settembre”.41 Confermando cosí – ma ora su un piano crescente di lacerazioni profonde – che le sfide dello sviluppo non sono innanzitutto econo- miche o tecniche; esse sono politiche.42 E qui centrando l’attenzione su un

38John Maynard Keynes, La fine del laissez-faire e altri scritti, (Raccolta di saggi tratti da The Col-

lected Writings of J. M. Keynes, Macmillan, London), Bollati Boringhieri, Torino, 1995, (1ª edizione

1991), p. 42.

39Undp, Arab Human Development Report 2004, op. cit., p. 4. 40Ivi, p. 157.

41Ivi, p. 67.

«carattere» chiave del ventunesimo secolo, da cui occorre far partire l’analisi e interrogare, attraverso l’acuirsi di incomprensioni e fratture, l’estensione del cam- biamento e i contenuti profondi della modernità.

VERSO LO SVILUPPO. LE TENSIONI MULTIPLE DELLA POVERTÀ. – Nel Maghreb

il meccanismo delle fratture è intanto pienamente avviato confermando, anche e innanzitutto, i gravi effetti provocati dall’assenza della dialettica democrazia-svi- luppo. Tanto che le piú sorprendenti contraddizioni, in tema di sviluppo, deri- vano proprio dalle difficoltà a ridare consistenza al legame sociale, imponendo all’attenzione, in un clima di preoccupante chiusura del campo politico, il nuovo e grave problema delle ineguaglianze – che ora si afferma quale questione fonda- mentale dell’epoca – con l’aumento degli squilibri e delle frustrazioni che esse ine- vitabilmente comportano di fronte all’estendersi incontrollato degli spazi di esclu- sione. Perché l’indebolimento del tessuto sociale e culturale è oramai diventato generalizzato. E da qui anche il riemergere del problema della povertà, nei suoi significati multidimensionali, che penetra in profondità la complessa questione delle ineguaglianze crescenti – con le sue ampie e nuove dimensioni che con par-