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7. Le garanzie procedurali e la posizione della difesa

7.3 Il contributo della Corte di giustizia

Per quanto riguarda la tutela dei diritti fondamentali nell’Unione, questa si era sviluppata sotto la spinta innovatrice della Corte di giustizia, sollecitata dalle forti pressioni delle Corti costituzionali italiana e tedesca, che avevano lamentato le vistose carenze dell’ordinamento comunitario sul tema, opponendo alla forza della

I, sent. 22 settembre 2006, n. 35616, Cat Berro), è seguita la decisione del caso Somogyi, con individuazione di tale misura nell’art. 175 nello specifica ipotesi del processo contumaciale (C. Cass., Sez. I, sent. 12 luglio 2006, n. 32678, Somogyi), fino a giungere al caso Dorigo, con il quale la Cassazione ha poi concluso che il giudice dell’esecuzione, ai sensi dell’art. 679 c.p.p. deve dichiarare l’ineseguibilità del giudicato formatosi all’esito del processo penale dichiarato non equo anche se nell’ordinamento processuale non è stato ancora introdotto uno strumento idoneo ad instaurare il nuovo processo (C. Cass, Sez. I, sent. 1° dicembre 2006, Dorigo). Importanti sono anche le nuove interpretazioni delle norme previste dal codice di rito a seguito dell’attività giurisprudenziale della Corte di Strasburgo, come per il principio del ne bis in idem espresso dall’art. 649 c.p.p., che deve operare anche prima del passaggio in giudicato della sentenza, di cui al caso Donati (C. eu. dir. uomo sent. 13 maggio 2004, n. 63242/00, Donati c/ Italia) o, ancora, alla “sentenza pilota” per il caso Scoppola (C. Cass., Sez. Un. pen., sent. 11 febraio 2010, n. 16507, Scoppola), ed il caso Ercolano (C. Cass., Sez. Un. pen., sent. 24 ottobre 2013, n. 18821, Ercolano), circa la violazione degli artt. 6 e 7 della CEDU (rispettivamente sul processo equo e sull’irretroattività/retroattività della legge penale sfavorevole/favorevole, comportante, quest’ultimo, un vizio nell’intero sistema, trattandosi di norme generiche di diritto penale sostanziale, che non implicano una violazione solo per il singolo caso) in merito alla disciplina del rito abbreviato disposta con il dl. 300/2000 ed all’art. 673 del codice di rito, per la revoca della sentenza in caso di abolizione del reato. Sul punto è poi intervenuta la stessa Corte costituzionale (C. Cost. sent. n. 210/2013) enunciando il principio secondo cui la revoca ex art. 673 c.p.p. deve essere disposta non solo in caso di abrogazione e dichiarazione d’illegittimità costituzionale della norma incriminatrice, ma anche per contrasto con il diritto europeo (UE/CEDU). Cfr. E.APRILE, La tutela dei diritti fondamentali e le nuove garanzie del processo penale, in APRILE–SPIEZIA, Cooperazione giudiziaria penale nell’Unione europea prima e dopo il

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sua primauté436, la teoria dei cd. “contro limiti” e la tutela riservata ai diritti fondamentali delle rispettive costituzioni.

Per quanto riguarda la giurisprudenza italiana, sulla base della copertura costituzionale offerta dall’articolo 11 Cost.437

, la Corte costituzionale aveva confermato l’efficacia immediata del diritto comunitario direttamente applicabile, da far prevale sulle fonti interne configgenti anche di rango costituzionale, con il

436 Fin dalla storica sentenza Costa c/ Enel, (C. giust. CE sent. 25 luglio 1964, C-6/64, in Racc. 1964,

p. 1127 ss.), la Corte di giustizia aveva rilevato che l’integrazione del diritto comunitario negli ordinamenti giuridici nazionali «ha per corollario l’impossibilità per gli Stati di far prevalere, contro un ordinamento giuridico da essi accettato a condizione di reciprocità, un provvedimento unilaterale ulteriore, il quale pertanto non potrà essere opponibile all’ordine comune. Se l’efficacia del diritto comunitario variasse da uno Stato all’altro, in funzione delle leggi interne posteriori, ciò metterebbe in pericolo l’attuazione degli scopi primari del Trattato». La natura sui generis dell’ordinamento comunitario, quale ordinamento giuridico integrato con quelli nazionali, implica tutt’ora la prevalenza fisiologica del norme europee sulle norme interne. In altre parole, la primauté del diritto comunitario è indispensabile condicio sine qua non per il funzionamento e per la stessa esistenza dell’Unione. La capacità delle norme comunitarie (quali regolamenti e direttive self-executing) di produrre effetti diretti negli ordinamenti nazionali si salda con il principio della prevalenza, nel senso che senza quest’ultimo la norma comunitaria non potrebbe concretamente operare. Un principio che comporta, per gli atti direttamente applicabili, la disapplicazione delle norme nazionali contrastanti ad opera di ogni operatore del diritto interno, e, quindi, da parte non solo dei giudici (come sancito dalla Corte di Lussemburgo, c. giust. CE sent. 9 marzo 1978, C-106/77, Simmenthal, in Racc. 1978, p. 629 ss.; c. giust. sent. 14 dicembre 1995, C-312/93, Peterbroeck, dove si è specificato il compito del giudice interno, tenuto a valutare la compatibilità delle norme statali con le disposizioni dirette UE pur in assenza di specifica sollecitazione dalle parti), ma anche dei pubblici funzionari che si trovino a doverle applicare (22 giugno 1989, C-103/88, Fratelli Costanzo, ID., 9 settembre 2003, C-198/01, Consorzio Industrie Fiammiferi). Un percorso a cui è corrisposta, sul versante italiano, la parallela giurisprudenza della Corte costituzionale, che ha considerato l’ordinamento comunitario e nazionale come distinti, ma altresì coordinati ed integrati, riconoscendo con il caso Granital (C. Cost. sent. n.170/1984) che, nelle materie di sua competenza, il diritto europeo ha il primato su quello italiano, sulla base dell’art. 11 Cost ed indipendentemente dal carattere precedente o successivo delle norme in contrasto. L’unico vincolo è rappresentato dalla necessaria efficacia diretta degli atti comunitari affinché possano essere direttamente disapplicate dagli operatori giuridici interni, altrimenti la norma statale contrastante potrà essere rimossa avverso una declaratoria di illegittimità costituzionale per violazione degli artt. 11 e (adesso) 117, comma 1, Cfr. A.CELOTTO, L’Italia e l’Unione europea, in FRANCO MODUGNO (a cura di), Lineamenti di diritto pubblico, Giappichelli, 2008, pp. 237-241; cfr. R.E.KOSTORIS, Le fonti, op. cit., p. 37.

437 La lettura “eurofriendly” delle limitazioni alla sovranità nazionale di cui all’art. 11 della

Costituzione è stata lo strumento di cui la Corte costituzionale si è servita per giustificare i vincoli derivanti dai Trattati. Ma con il progredire del processo di integrazione europea, l’art. 11 ha iniziato ad apparire sempre più inadeguato, tanto da lamentare la necessità di introdurre una nuova norma ad hoc nella Costituzione, un “articolo europeo” così come è accaduto in Germania con l’art. 23 neue Fassung GG o in Austria con la revisione dell’art. 23 da a) ad f) della Costituzione federale, al fine di indicare con maggiore precisione la cornice costituzionale nella quale si inseriscono i rapporti tra l’Italia e l’Unione europea. Cfr. P.RIDOLA, Diritto comparato e

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limite, dei principi supremi dell’ordinamento e dei diritti inviolabili dell’uomo438

. Il Bundesverfassungsgericht aveva invece affermato che “so lange” (fino a quando) il diritto comunitario non avesse provveduto ad una tutela dei diritti equivalente a quella offerta dalla Costituzione tedesca, esso si sarebbe riservato il controllo sulla compatibilità delle norme europee alle garanzie fondamentali riconosciute dall’articolo 23 BVG439

.

Due posizioni che rischiavano di intaccare il principio del primato ed il carattere unitario del diritto comunitario, spingendo la Corte di giustizia ad assumere il sindacato sulla conformità della normativa europea alle tutele sopra riportate, definite come “principi generali del diritto comunitario” 440

, per la cui ricostruzione i giudici di Lussemburgo si sono ispirati alle “tradizioni costituzionali comuni”, nonché ai principi della CEDU, anche nel significato loro attribuito dalla Corte europea.

I giudici di Lussemburgo avevano così elevato la tutela dei diritti fondamentali a condizione di legalità dell’operato delle istituzioni comunitarie e del diritto derivato, da interpretare ed applicare nel loro rispetto. Un principio che la Corte aveva provveduto ad estendere anche agli atti dell’(ex) Terzo Pilastro con la ben nota sentenza Pupino441.

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Corte costituzionale italiana, sent. n. 183/1973: «in base all’art. 11 Cost. sono state consentite limitazioni di sovranità unicamente per il conseguimento delle finalità ivi indicate; e deve quindi escludersi che siffatte limitazioni […] possano comunque comportare per gli organi della CEE un inammissibile potere di violare i principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale, o i diritti inalienabili della persona umana». Si giungeva, così, ad una visione gradualistica delle fonti: il diritto comunitario come fonte di rango costituzionale, ma in “posizione mediana” tra i “principi fondamentali”, ad esse ad ogni modo superiori, e le “comuni” norme costituzionali, ad essere inferiori, ammettendo quindi una “triplicazione” all’interno del genus norme costituzionali. (Ruggeri, 1993, 284) Cfr. A.CELOTTO, L’Italia e l’Unione europea, op. cit., p. 241.

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Bundesverfassungsgericht, sent. 29 maggio 1974, Solange I (BverfGE 37, 271).

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C. giust. CE sent. 12 novembre 1969, C-29/69, Stauder, in Racc. 1969, p. 419 ss.; Id. 17 dicembre 1970, C-11/70, Internationale Handelsgesellschaft; in Racc. 1970, p. 1125 ss.; Id. 14 maggio 1974, C-4/73, Nold, in Racc. 1974, p. 491 ss.

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