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Contro il “frontismo” del Partito Comunista Italiano

Dal nuovo ordine del sistema socialista internazionale, le Tesi passano a trattare dell’Italia. L’analisi critica de Il Manifesto è rivolta, in primo luogo, al cosiddetto

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“riformismo”, ovvero all’esperienza politica del centrosinistra, che non solo aveva fallito sul piano dell’attuazione delle riforme, ma era stata anche responsabile dell’indebolimento generale degli strumenti del potere politico nei confronti dello sviluppo del capitalismo: “la crisi delle istituzioni rappresentative, la simbiosi tra élites tecnocratiche e gruppi monopolistici, la disgregazione clientelare degli apparati politici, fanno sì che alla crescita quantitativa della funzione pubblica nell’economia e nella società non corrisponde affatto una reale autonomia del potere pubblico: esso ha ridotto ad apparato di mediazione e di compensazione in un meccanismo che gli sfugge”.30 Le cause dell’insuccesso dell’esperienza riformista italiana sono poste in un rapporto di diretta proporzionalità con le criticità del capitalismo maturo, tali da aggravare le tradizionali arretratezze del Paese, prima tra tutte il Mezzogiorno. Nelle

Tesi si sostiene che le difficoltà strutturali dell’economia – “il peso dei grandi gruppi,

la mancanza di un sistema di relazioni industriali, le forti differenziazioni di reddito, il privilegio e la proliferazione dei nuovi ceti medi”31 – abbiano portato, da una parte, alla stagnazione del sistema produttivo, dall’altra a una profonda crisi sociale i cui più evidenti segnali sono la paralisi delle istituzioni pubbliche, lo sfaldamento delle forze politiche, l’acutizzazione delle differenze sociali, la nascita di nuovi movimenti di lotta che “per ampiezza e qualità è probabilmente il tratto specifico della crisi italiana”.32

Il Partito Comunista Italiano, proprio a causa della priorità assegnata alle alleanze politiche, alla via parlamentare e dunque alla sostanziale adesione all’ipotesi riformista, aveva contribuito ad allontanare i partiti comunisti dalla prospettiva rivoluzionaria. In particolare, la linea strategica del Pci, la “via italiana al socialismo”, sarebbe stata interpretata come “uno schema strategico di avanzata al socialismo al cui centro viene a trovarsi una maggioranza parlamentare di forze democratiche riunite intorno a un programma di riforme. Lo schema, in ultima analisi, della politica del Fronte Popolare o dei governi di unità nazionale”.33 Secondo il Manifesto, il

30 Perché le tesi, in “Il Manifesto”, cit., p.3.

31 La crisi italiana, in “Il Manifesto”, cit., p. 31.

32 Ivi, p. 33.

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cosiddetto “neofrontismo” del partito comunista si legava sia a un’inadeguata conoscenza della nozione di socialismo da parte della sua classe dirigente, sia all’incapacità di cogliere la nuova domanda sociale che proveniva dalle masse, cioè la costruzione di un nuovo sistema sociale, di una nuova linea internazionale, di un nuovo rapporto tra base e vertice, a partire da una critica radicale al riformismo e alla democrazia delegata.

Il secondo punto di accusa nei confronti del partito comunista riguarda la mancanza di autonomia nei confronti di Mosca: nonostante le risoluzioni del XII congresso, i rapporti tra il Pci e l’Unione Sovietica erano rimasti ancora quelli tradizionalmente esistenti tra una sezione dell’Internazionale e il centro del comunismo mondiale. Una posizione incompatibile, si sostiene nelle Tesi, con i presupposti del nuovo internazionalismo proletario, cui Aldo Natoli dedica un’approfondita riflessione politica in sede di Comitato Centrale:

L'internazionalismo proletario, comunista, non può coesistere né con un privilegio accordato ai gruppi dirigenti dell'URSS […] népiù in generale con un rapporto diplomatico verso i gruppi dirigenti con il potere. Essere dalla parte della Rivoluzione d'Ottobre significa, al contrario, opporsi criticamente a tutto ciò che oggi allontana dai valori e dallefinalità di quella prima rottura rivoluzionaria, a tutto ciò che oggi oscuragli ideali del comunismo; e opporvisi con fiducia nelle masse e nelle forzenuove che lo sviluppo stesso di quelle società tende a liberare, ma chetrovano ostacolo in profonde distorsioni strutturali, in degenerazioni burocratiche, in un intreccio di autoritarismo e spoliticizzazione, in nuove stratificazioni sociali che non un generico appello alla democrazia puòsuperare. Perciò dobbiamo essere non certo con un "modello " cinese, ma con l'ispirazione egualitaria e la mobilitazione di massa che accompagna lo sforzo di edificazione della società cinese e il ruolo mondiale diquella rivoluzione. Perciò dobbiamo essere attivamente, se non con il " nuovo corso " cecoslovacco, con la rivendicazione di democrazia proletaria che oggi si scontra con la "normalizzazione " burocratica e militare.Evitare eli misurarsi con queste scelte significa riaccendere una ipotecapesante sulla nostra autonomia, e continuare ad ancorare il movimento operaio d'occidente a una scelta di blocco piuttosto che a una linea di classe, a garanzie di " potenza " che solo apparentemente lo rafforzano, ma inrealtà lo paralizzano.34

L’attacco critico nei confronti del Pci si inasprisce a proposito della disciplina interna al partito, ai metodi di gestione del dissenso e del potere, ai meccanismi di funzionamento del centralismo democratico. Il Manifesto denuncia apertamente l’assenza di spazi adeguati alla discussione e al confronto, l’eccesso di verticismo. L’argomentazione fondamentale delle Tesi è incentrata sulla necessità di rifondare le regole di condotta interna, in primo luogo attraverso la possibilità di espressione del dissenso. Non è sufficiente, scrive Rossanda, “un semplice miglioramento d’un

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meccanismo che però, finora, non riconosce il dissenso, come blocco di idee e posizioni, ma soltanto il diritto del dissenziente di esprimersi singolarmente e - fuori dai momenti congressuali o nel CC o nell'istanza di base - attraverso meccanismi regolati dal gruppo dirigente”.35 I limiti posti alla discussione all’interno degli organismi politici negano infatti qualsiasi possibilità di elaborazione ed esplicitazione comune, mentre il sistema avrebbe dovuto consentire di presentare piattaforme politiche anche contrapposte, in una libera dialettica tra maggioranza e minoranza. Il

manifesto, inoltre, condanna in maniera esplicita i fondamenti del centralismo

democratico, che aveva condotto a una progressiva involuzione del partito, ormai subordinato a una burocrazia bizantina: la formazione della volontà politica collettiva attraverso il dibattito condotto in unità sequenziali, dall’alto verso il basso, non è ritenuto adeguato a un partito di massa, essendo stato piuttosto teorizzato per la formazione di quadri di matrice leninista.

La gravità dei limiti del Partito Comunista Italiano, dalla collocazione internazionale a quelli della forma-partito, è all’origine, si scrive nelle Tesi, della crescente divaricazione tra sezioni e società, con conseguenze rilevanti anche per quanto atteneva alla credibilità stessa del socialismo: si avanza esplicitamente l’ipotesi che la strategia politica “frontista” sia la principale causa del fallimento della rivoluzione in Occidente.

È Aldo Natoli a indagare, in prospettiva storica, le cause delle ambiguità politiche del Partito Comunista Italiano, alla radice della divisione politica con Il Manifesto.

Io credo che non si tratti di una questione marginale, o di correzione tattica, ma che essa implichi una revisione radicale di scelte politiche e in fin dei conti venga a coincidere con l’esigenza da noi posta, all’atto di nascita de Il Manifesto, e cioè l’esigenza di una rifondazione del Pci. Poiché, a ben guardare, se si vogliono ricercare le radici dell’ambiguità attuale della strategia del Pci e del suo modo di essere, bisogna ripercorrere le tappe della sua formazione storica, quale partito aderente alla III internazionale e soffermarsi, in particolare, a quei momenti critici quando il partito veniva bruscamente riplasmato secondo il modello staliniano, e determinate svolte e modificazioni profonde, anche contradditorie, della sua strategie, venivano recepite dall’alto, come obbligo riflesso di scelte compiute nel Comintern sotto la spinta prevalente di Stalin; e poi trasmesse dal vertice al quadro, come direttive e senza più un dibattito che permettesse una maturazione reale. Penso al VI congresso del Comintern (1928) e al X Plenum dell’esecutivo (1929), alla linea di lotta contro il “socialfascismo”. […] Togliatti una volta parlò di doppiezza: ebbene, le ambiguità di oggi non sono che la continuità storica di quella doppiezza.36

35 R.ROSSANDA, Lettera ai dirigenti del PCI, In “Il Manifesto”, numero 7, dicembre 1969, p. 16.

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Il partito nuovo, teorizzato da Palmiro Togliatti all’indomani della Liberazione, non sarebbe riuscito, dunque, a sgravarsi della pesante eredità post-leninista, che, attraverso una sorta di “bolscevizzazione forzata”, aveva trasmesso al partito italiano – così come anche alle altre formazioni comuniste occidentali- la sua struttura fortemente accentrata e verticistica, facendo venire meno gli spunti teorici più innovativi e creativi dell’esperienza ordinovista.