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Il Manifesto diventa un partito politico

Sono trascorsi due anni dalla nascita della rivista Il Manifesto e, per il gruppo di fondatori, è giunto il momento di effettuare un bilancio complessivo circa gli esiti dell’esperienza politica vissuta. L’analisi dei dirigenti è di segno indubbiamente positivo per quanto riguarda l’organizzazione, dal momento che il lavoro “collettivo” della redazione, annunciato sul primo numero del 23 giugno 1969, non solo aveva consentito di raggiungere un numero molto significativo di lettori, ma si era gradualmente trasformato in una rete militante così estesa da lambire la maggioranza delle province italiane e da contare sul supporto di una rappresentanza politica almeno nelle più grandi fabbriche italiane. Il Manifesto era quindi riuscito a dotarsi di un’organizzazione formale, uno dei requisiti necessari che contraddistinguevano i partiti tradizionali, insieme con l’orientamento ideologico comune e la partecipazione a elezioni competitive1. Il Manifesto poteva vantarsi di essere l’unica forza politica nell’ambito delle sinistre extraparlamentari ad aver raggiunto un simile risultato. La vita stessa della redazione si era consolidata nel corso della preparazione dei tredici fascicoli mensili, diretti da Rossanda e Magri. Le riviste venivano portate a Bari per la stampa e l’editore aveva il compito di inviarle in edicola, lasciando cinquemila copie ai promotori per provvedere alle modeste spese sostenute per la sede e per le iniziative editoriali. Il Manifesto mensile, curato dai due direttori insieme con Luigi Pintor, Aldo Natoli, Luciana Castellina, Valentino Parlato e Ninetta Zandegiacomi, si struttura naturalmente intorno ai temi principali che avevano provocato la scissione dal Partito Comunista Italiano. Ogni numero è aperto da uno o più editoriali di attualità, prosegue con una rassegna di analisi e di ricerche, affronta una cronaca puntuale delle lotte operaie condotta insieme con i protagonisti sul posto, termina con documenti e scritti di cultura politica, italiana o internazionale. Gli editoriali sono di norma affidati al gruppo dei promotori, le cronache delle lotte sono

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coordinate da Ninetta Zandegiacomi o Massimo Serafini, i materiali e i documenti sono spesso provenienti da tutto il mondo perché, come ha scritto Rossanda, “il ’68 aveva prodotto una grande officina di idee”2 e favorito lo scambio con una nutrita serie di interlocutori. Tratti caratteristici della rivista, nei primi anni di vita, diventano il contatto diretto e stabile con le sinistre sindacali di Trentin e Garavini, lo scontro con gli altri gruppi della sinistra extraparlamentare, l’espressione del dissenso di fondo nei confronti del Pci e la questione del movimento comunista internazionale. I lettori sembrano premiare le scelte politico-editoriali della rivista e i contenuti tematici proposti. Essi, sull’onda della spinta partecipativa postsessantottina, giungono ad esprimere anche la domanda di nuovi luoghi di confronto e di scambio, al di fuori delle tradizionali sedi di partito. L’ossatura del radicamento territoriale de

Il Manifesto, tra il 1969 e il 1971, si può rintracciare in una specifica serie di ambiti

riconducibili alla sinistra marxista: nei circoli politico-culturali interni alla tradizione del movimento operaio – il riferimento è ai circoli Arci, e ai molti dedicati a Rosa Luxemburg o a Carlo Marx - dove si ritrovavano a confrontarsi anche i socialisti di sinistra e del nuovo dissenso cattolico, tra cui spiccano le esperienze dall’Isolotto di Firenze3e del circolo Maritain di Rimini.4 Il Manifesto raccoglie nuovi militanti soprattutto nei collettivi studenteschi e in quelli che si definivano “studenti-operai”,

2 R. ROSSANDA, Le radici di un’eresia comunista, in “Il Manifesto”, 28 novembre 2009.

3 In conseguenza del decreto Arcivescovile dell’8 marzo 1955, nasce la Beata Maria Vergine Madre delle Grazie, circoscrizione parrocchiale del Villaggio dell’Isolotto (Firenze) inizialmente presso l’Oratorio della Madonna della Querce – edificio quattrocentesco di via Palazzo dei Diavoli –, poi nella nuova chiesa Santa Maria Madre delle Grazie in piazza dell’Isolotto– edificio in costruzione dal 1952 e consacrato nel dicembre 1957 –, il giovane sacerdote Don Enzo Mazzi, nominatone parroco, celebrerà il suo ministero. Fin da subito la nuova parrocchia intraprese un progetto di pastorale missionaria che accentuava l'orizzontalità nel rapporto sacerdote-fedeli: nella Chiesa si svolgevano delle Assemblee, ossia riunioni dove la Comunità alla lettura delle sacre scritture affiancava la discussione su problematiche sociali e sviluppava riflessioni politiche. La Comunità parteciperà sempre più attivamente al dibattito nella Chiesa toccata dal Concilio, intervenendo con nuove istanze sociali e operando per spingere la Santa Sede all'accoglimento delle istanze provenienti dai movimenti di base.

4 L'associazione nasce ufficialmente nel 1965 per iniziativa di un gruppo di cattolici impegnati attorno ai temi sollevati dal dibattito conciliare e dalle encicliche di Papa Giovanni XXIII. In particolare, l’attenzione è posta sull’impegno dei cristiani nella vita politica e sociale e sui temi etico-religiosi. Il circolo J. Maritain svolge in quegli anni un ruolo attivo nell’ambito del più vasto movimento denominato dei "gruppi spontanei" assieme a riviste come «Testimonianze» di Padre Ernesto Balducci e «Questitalia» di Wladimiro Dorigo. Al centro del dibattito vi sono il superamento della dottrina sociale della Chiesa, l’autonomia del cristiano nell’impegno politico e sociale e un’etica che abbia come riferimento lo sviluppo integrale dell’uomo. L’impegno continua negli anni postconciliari sui temi del rinnovamento della Chiesa italiana. Negli anni Settanta il Circolo J. Maritain prende parte attiva alle lotte sociali, politiche e civili di quegli anni, collocandosi nel movimento che nell’ambito del rinnovamento conciliare, va sotto il nome di “sinistra cristiana”.

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alla ricerca di un coordinamento nazionale della loro iniziativa e di un contributo alla loro incerta formazione.

Come ricorda Luciana Castellina, “inizialmente fummo quasi imbarazzati dalla domanda: non solo non eravamo attrezzati a rispondervi, non eravamo neppure sempre in grado di capire chi

era che ci chiedeva di assumere il nostro nome e di ricevere il nostro timido imprimatur”.5

Questa prima fase aggregativa, in cui evidentemente la domanda di militanza e di mobilitazione giunge in maniera spontanea dai gruppi che riconoscono alla rivista il ruolo di autorevole guida politica, è contraddistinta da tre caratteristiche principali, utili a inquadrare il fenomeno nella sua complessità. Il primo nucleo organizzato di militanti, distribuiti in maniera disomogenea sul territorio nazionale, è molto più giovane dal punto di vista anagrafico rispetto ai dirigenti della rivista ed è assai eterogeneo dal punto di vista sociale: due dati significativi che indicano come la proposta politica della nuova formazione comunista abbia conquistato simpatizzanti ed aderenti soprattutto al di fuori della cerchia del Partito Comunista Italiano, in particolare modo penetrando tra le generazioni più giovani che si era affacciate sulla scena politica nel corso del 1968.

La dinamica di strutturazione de Il Manifesto sul territorio costituisce una conferma indiretta alle tesi dello storico Stephen Hellman, il quale, nell’ambito della ricerca condotta a proposito dell’identità comunista nell’area del Triangolo Industriale6, mette in rilievo che la nuova generazione di militanti, attivi tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio del decennio successivo, esprimono una cultura politica molto diversa da quella precedente. In particolare, gli esponenti del movimento, maggiormente propensi alla dimensione pratico-progettuale, apparivano poco legati alla tradizionale subcultura comunista e più disinvolti nei rapporti con il partito tradizionale, ora spogliato di ogni forma di idealizzazione e vissuto con spirito più

5 L. CASTELLINA, Il tempo lungo del collettivo, in “Il Manifesto”, 28 novembre 2009.

6S.HELLMAN, Militanti e politica nel Triangolo Industriale, inA.ACCORNERO,R.MANNHEIMER,C. SEBASTIANI, L’identità comunista: i militanti, la struttura, la cultura del PCI, Editori Riuniti, Roma 1983, p.406.

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laico. Da questo punto di vista, l’esperienza de Il Manifesto consente di osservare ancora con maggiore chiarezza il passaggio da “partito-militante” a “partito elettorato”, in cui vengono meno l’adesione politica fondata sulla fidelizzazione ideologica e la dimensione di militanza “totale”7, sostituite da un corpo di aderenti e simpatizzanti più eterogeneo e mobile. Il Manifesto era infatti continuamente investito da sollecitazioni contraddittorie da parte dei circoli territoriali, in cui si mescolavano iscritti provenienti dalla tradizione della sinistra, alcuni dei quali non riuscivano nemmeno ad immaginare un’attività politica che non avesse un risvolto parlamentare, mentre altri, i più giovani, erano animati da una sospettosa motivazione ideologica antistituzionale, che li spingeva verso una mobilitazione di stampo più radicale.

L’oscillazione culturale, politica e generazionale del corpo militante de Il Manifesto è un fattore che incide in maniera significativa sulla difficoltà nell’individuare una specifica linea politica strategica, come dimostra la seconda parte del bilancio, quanto meno controverso, effettuato dai dirigenti della rivista. A leggere attentamente il lungo articolo pubblicato nell’estate del 19718 è possibile cogliere un giudizio di natura ambivalente. Da una parte, il collettivo di promotori è convinto della fondatezza della propria analisi, condotta a proposito dell’evoluzione politica degli scenari locali e internazionali. I motivi che stavano all’origine della rottura con il Partito Comunista Italiano nel 1969 erano stati effettivamente suffragati dagli eventi successivi: il Pci non era stato in grado di cogliere la portata dell’eccezionale mobilitazione sociale iniziata con il 1968 e quest’ultima non aveva goduto di uno sviluppo spontaneo, neppure attraverso il recupero di teorie o di forme organizzative del passato. Le maggioranze di governo si erano succedute senza riuscire a incidere sui problemi del Paese, vittime di una paralisi che sembrava eterna. L’accento posto nelle Tesi per il comunismo sull’importanza dell’obiettivo dell’”aggregazione”, che a molti era apparso un generico intento unitario, aveva colto il rischio reale della settorializzazione del movimento, disperso in mille rivoli, spesso contrapposti. Il

7 S.BELLASSAI,La morale comunista. Pubblico e privato nella rappresentazione del PCI (1947-1956), Carocci, Roma, 2000.

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Manifesto aveva intuito i principali limiti della sinistra: l’illusione del partito

comunista di poter compiere un aggiornamento attraverso battaglie politiche interne, l’illusione del sindacato di raccogliere i frutti delle lotte dell’autunno caldo per aprire una nuova prospettiva, quella del movimento che sperava in un crollo spontaneo del sistema, logorato dalla sua pressione. Anche sul fronte internazionale, la rivista aveva saputo leggere con sufficiente precisione l’acuirsi della conflittualità nei confronti dell’occidente capitalista, della crisi della cosiddetta “competizione pacifica”, lo svuotamento progressivo del partito sovietico e la definitiva rottura degli equilibri del sistema comunista internazionale. Se lo sforzo di elaborazione compiuto per decifrare i mutamenti profondi della contemporaneità sembrava essere stato premiato, altrettanto non si poteva dire per quanto riguarda le conclusioni delle Tesi e gli obiettivi di strategia politica. I dirigenti de Il Manifesto denunciano pubblicamente il fallimento di uno dei punti fondamentali della propria piattaforma teorica, ovvero la costituzione, per aggregazione, di un polo politico e organizzativo alternativo, capace di calamitare il consenso della masse e incanalarlo verso un’azione unitaria alla ricerca dello sbocco rivoluzionario. Le cause oggettive sono rintracciate in primo luogo nell’incapacità del movimento sessantottino di abbandonare il piano della spontaneità – nell’articolo si avanza un tentativo di comparazione anche con gli analoghi limiti dell’esperienza francese – per dotarsi di una linea strategica definita e di un’organizzazione formale, a partire da un sedimento teorico reale. Inoltre, le Tesi avevano individuato la rivoluzione culturale quale principale punto di riferimento alternativo per le forze rivoluzionarie in occidente: in realtà si era visto come, al di là di una passione utopica nei confronti di Mao, la Cina non era stata in grado di provocare mutamenti significativi al di fuori dei propri confini geografici.

I dirigenti della rivista riconoscono inoltre di aver compiuto tre principali errori politici, che avrebbero influito in maniera negativa sulle possibilità di successo delle

Tesi per il comunismo. Il primo di questi è il ritardo con cui essi avevano deciso di

manifestare apertamente le proprie posizioni politiche all’interno del Partito Comunista Italiano: la nascita de Il Manifesto era risultata tardiva rispetto alla fase ascendente del movimento, sul quale non era riuscito a incidere in maniera profonda. Il secondo limite era riconducibile, a parere del direttivo, in un’eccessiva genericità

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dell’appello unitario: chi erano veramente i destinatari della proposta politica delle

Tesi? Quali forze avrebbero dovuto aggregarsi per dare vita a un nuovo soggetto

politico, alternativo a sinistra? A posteriori, Rossanda, Natoli, Magri rilevano l’incoerenza tra il piano teorico e le esperienze realizzate a livello territoriale, dove si erano costituiti – come abbiamo visto – circoli eterogenei e animati da spinte diverse. Infine, il terzo nodo critico ha a che vedere proprio con la questione della soggettività politica. Il tema della definizione organizzativa, indispensabile per rendere credibile la prospettiva di strategia politica, era stato rimandato troppo a lungo. Il Manifesto non aveva ancora deciso se continuare ad essere una rivista culturale o diventare a tutti gli effetti una forza politica organizzata, se trasformare lettori e simpatizzanti in militanti e se guidarli attraverso un percorso di mobilitazione formale. Un ritardo che, per ammissione degli stessi protagonisti, si legava anche al tentativo di evitare tensioni e lacerazioni interne, dal momento che l’opzione partitica non era unanimemente condivisa.

I dirigenti de Il Manifesto, nel quadro di un aggiornamento dell’analisi politica ed economica internazionale, giungono alla riformulazione dei propri obiettivi strategici, decidendo di sciogliere ogni riserva e di trasformare la rivista, che ormai è diventata un quotidiano, in un partito politico vero e proprio. A spingere verso simili conclusioni concorrono, oltre che la valutazione positiva dell’espansione organizzativa sui territori, anche le condizioni congiunturali, ritenute particolarmente favorevoli. La crisi monetaria che stava affliggendo le economie occidentali e, in particolare, le difficoltà della Democrazia Cristiana a mantenere stabilmente la maggioranza governativa, facevano pensare a una nuova, imminente “onda alta” del movimento.9 Questa volta Il Manifesto non si sarebbe lasciato cogliere impreparato, ma avrebbe saputo presentarsi all’opinione pubblica come autorevole forza rivoluzionaria.

Noi rifiutiamo lo smarrimento che, nel momento della prima controffensiva della destra, si impadronisce sia dei partiti riformisti che dei gruppi extraparlamentari. Rifiutiamo il ripiegamento dei primi in una pura e passiva difesa della democrazia, perché ci sembra oltretutto incapace, nel lungo periodo, anche solo di impedire la soluzione autoritaria. Rifiutiamo, come sostanzialmente opportunistica, anche la scelta dei gruppi minoritari che abbandonano i contenuti più avanzati e il terreno stesso della lotta di massa per ritagliarsi un 9 Ibidem, p. 8.

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ruolo di testimonianza, una zona di conflitti esemplari ma isolati, o un lavoro di pura preparazione ideologica.10

Il Manifesto si candida dunque a diventare il nuovo partito della classe operaia in

Italia, dotandosi di un’organizzazione stabile, in cui i militanti avrebbero potuto partecipare attivamente e consapevolmente alla definizione della linea politica e al dibattito interno. Il tentativo è quello di sottrarsi alla logica del partito di massa, in cui si contrapponevano un vertice e la base, per favorire invece il lavoro in collettivi di intervento, sufficientemente ristretti per non dover operare divisioni dei compiti e gerarchie di alcun tipo. La base sociale di riferimento, pur senza preclusioni di sorta, è individuata in maniera naturale nel proletariato e, in particolare, nella classe operaia, che, negli intenti, avrebbe dovuto costituire la maggioranza della forza organizzata del nuovo soggetto politico. Oltre all’assetto organizzativo, nell’articolo vengono evidenziati anche alcuni temi che avrebbero dovuto costituire gli altrettanti punti programmatici della nuova agenda politica de Il Manifesto: la fabbrica come luogo di rilancio dell’economia italiana, la riqualificazione economico-sociale del Sud Italia, il rinnovamento delle istituzioni e in particolare della scuola, al fine di sottrarle al dominio incontrastato della borghesia.

Nel documento non si riscontrano contenuti particolarmente innovativi, sia rispetto alle precedenti Tesi, sia in relazione alla tradizione della sinistra marxista italiana. Inoltre, al momento, l’obiettivo rivoluzionario viene lasciato sullo sfondo, probabilmente per essere trattato, insieme con la proposta complessiva di trasformazione in partito, nel corso della prima Assemblea nazionale del movimento, annunciata per il successivo mese di novembre. Nelle intenzioni dei promotori, l’appuntamento avrebbe dovuto diventare il punto di partenza per un percorso costituente finalizzato alla costruzione del nuovo partito.

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