“chiusura” da parte dei direttori
Giunti a questo stadio della nostra analisi, è necessario fare due puntualizzazioni. Innanzitutto è da precisare che, anche in questo ambito, generalizzare è allo stesso tempo inutile e dannoso, pertanto si deve affermare che non tutti gli appartenenti all'amministrazione penitenziaria devono essere considerati, a priori, autori di comportamenti quali quelli ora descritti; a conferma di ciò va sottolineata la differenza dei rapporti intercorrenti tra il magistrato di sorveglianza e l'amministrazione, a seconda che tali rapporti si instaurino con gli organi centrali o con gli organi periferici della stessa amministrazione.
Con le direzioni dei singoli istituti, anche se è capitato che più case di reclusione siano state dirette da una stessa persona, il rapporto è stato, ed è ad oggi, diretto e personale. È chiaro come una relazione simile possa portare ad un buon rapporto di collaborazione, basato sulla stima reciproca, ma anche, talvolta, a scontri violenti86. Tutto questo dipende molto dalle personalità e dalle convinzioni dei singoli, sempre entro i limiti di possibili atteggiamenti permessi dalla legge.
86
S. Bartole, Attribuzione ai giudici di funzioni non giurisdizionali e tutela della loro
78
A conferma di ciò deve dirsi che da parte dei direttori degli istituti si registrò un atteggiamento positivo nei confronti dell'emanazione della l. 354/197587. Almeno per quanto riguarda i primi anni di applicazione di tale norma si riscontrò un certo impegno ed una seria collaborazione con i magistrati di sorveglianza da parte dei direttori delle carceri. Questo dipese sostanzialmente da due fattori. Il primo è relativo alla crisi dell'istituzione carceraria che stava manifestandosi, come già rilevato nel capitolo precedente, in quegli anni88. L'applicazione della legge di riforma venne probabilmente vista come mezzo per "risanare" gli istituti di pena e per allentare la tensione, molto forte, all'interno degli stessi. Il secondo fattore è strettamente legato al precedente. Lo "sfascio" che stava investendo le carceri, inevitabilmente, aveva coinvolto anche gli operatori penitenziari. I direttori, come un po' tutti coloro che operavano nell'ambito carcerario, riconobbero nella riforma uno strumento per riabilitare la propria funzione, soprattutto a livello sociale89. Per questo si impegnarono attraverso iniziative e cooperazione con i magistrati di sorveglianza; avevano compreso che il carcere delineato dalla legge 354/1975 era completamente diverso dal carcere come era in realtà, 87 N. FRANCO, Magistrato di sorveglianza e amministrazione penitenziaria, cit., p. 453. 88 A. MARGARA, La magistratura di sorveglianza tra un carcere da rifiutare e una riforma da attuare, in E. BLOCH, G. GARRONE (a cura di), Il carcere dopo le riforme, cit., pp. 56‐57. 89 N. FRANCO, "Magistrato di sorveglianza e amministrazione penitenziaria, cit., p. 453.
79
e indirizzarono la loro azione a favore del cambiamento. Andava inoltre registrato che anche parte del personale di custodia partecipò con impegno a questo tentativo di mutamento. Purtroppo, dopo questo iniziale entusiasmo, le circostanze portarono ad una inversione di tendenza. Quali furono queste circostanze? Fondamentalmente mancò il sostegno da parte degli organi centrali, anzi sembrava che far parte di quella schiera di direttori penitenziari più entusiasti, o comunque più impegnati nel tentativo di attuare la riforma, non diciamo che nuocesse, ma certamente non favoriva avanzamenti di carriera90. Inoltre, fu inevitabile lo scontro tra le reali possibilità di cambiamento e le innovazioni previste dalla legge. I direttori si accorsero delle grandi difficoltà che sussistevano nel voler modificare alcuni elementi di un'istituzione, quella del carcere, basata su certi criteri di organizzazione e caratterizzata da una determinata finalità, rimasta praticamente immutata per quarantacinque anni91. La tensione all'interno delle carceri non era nel lungo periodo diminuita, ed anzi, si era aggiunta ad essa una forte delusione per la quasi completa frustrazione delle aspettative create 90 N. FRANCO, Magistrato di sorveglianza e amministrazione penitenziaria, cit., p. 454. 91 N. FRANCO, cit., p. 454, dove veniva specificato che il personale di custodia era, per la
maggior parte, ancora molto legato al carcere delineato dalla legislazione fascista, tanto da essere definito “impermeabile” all'attività della magistratura di sorveglianza; sempre sullo stesso argomento, con posizioni differenti, il commento di A. MARGARA, La
magistratura di sorveglianza tra un carcere da rifiutare e una riforma da attuare, in E.
BLOCH, G. GARRONE (a cura di), Il carcere dopo le riforme, cit., pp. 56‐57, dove l'autore sottolinea come i forti condizionamenti dovuti ad una tale struttura e concezione del carcere, non avevano comunque impedito una importante collaborazione.
80
negli animi dei detenuti dalla legge sull'ordinamento penitenziario. La volontà dei direttori penitenziari di collaborare con i magistrati di sorveglianza, si attenuò in misura considerevole, anche a causa delle azioni disciplinari promosse contro gli stessi. Tali provvedimenti offuscarono il prestigio degli appartenenti a questo ramo della magistratura, e sminuirono l'importanza del loro operato.
Indubbiamente, parlando in senso generale, furono deteriorati anche i rapporti con gli organi centrali dell'amministrazione penitenziaria. Come già è stato sottolineato, questi non sostennero i direttori degli istituti nel momento in cui iniziarono a manifestare l'intenzione di operare a favore dell'attuazione della legge di riforma. Abbiamo poi visto fino a quale punto potesse spingersi il rifiuto dell'intervento del magistrato di sorveglianza nel carcere, ben rappresentato dal comportamento tenuto, talvolta, nei confronti degli ordini di servizio emanati dalla citata autorità giudiziaria. Certamente, una delle cause principali di un tale atteggiamento di opposizione alla magistratura di sorveglianza (e quindi, all'attuazione della legge di riforma, della quale l'autorità giudiziaria in esame era strumento fondamentale) da parte degli organi amministrativi centrali, risiedeva nel fatto che la finalità meramente custodialistica del carcere, e la conseguente
81
organizzazione penitenziaria, erano ancora elementi validi, e fini perseguibili, per la maggior parte degli appartenenti a tali organi. Non a caso la loro formazione, e la loro esperienza, si erano sviluppate proprio nell'ambito di tale finalità e di una simile organizzazione, basata soprattutto sull'ordine e la sicurezza. Inevitabilmente, questo portò allo scontro tra due diverse motivazioni, teleologicamente divergenti: si verificò, quindi, un fortissimo contrasto tra modalità d'azione e concezioni del carcere completamente antitetiche92. Inoltre, mancò l'accettazione della riforma e del ruolo più incisivo della magistratura di sorveglianza, anche da parte dei magistrati "applicati" alla direzione generale93. Certamente la natura dei rapporti intercorrenti tra amministrazione e magistrati di sorveglianza, non favorì l'attuazione della legge. Da parte loro, gli organi legislativi, non attuarono nessun intervento teso a regolamentare in maniera precisa le relazioni ora considerate, né si operò al fine di chiarire quale fosse la reale volontà parlamentare circa l'efficacia delle funzioni, soprattutto quella di vigilanza, del magistrato di sorveglianza di fronte all'amministrazione, nonché circa 92 A. MARGARA, La magistratura di sorveglianza tra un carcere da rifiutare e una riforma da attuare, cit., pp. 55‐56. 93
N. FRANCO, Magistrato di sorveglianza e amministrazione penitenziaria, cit., p. 453, dove l'autore sostiene che questi magistrati pretendevano di “essere gli unici depositari della autentica interpretazione della legge”.
82
l'effettiva intenzione, o meno, di cambiare il modo di essere del carcere.
Da questo punto di vista erano significative le modifiche apportate al "novello" ordinamento penitenziario dalle due leggi del 1977, sopra considerate. Tali espressioni del potere legislativo erano manifestazioni di una volontà "ambigua", tenendo conto anche del fatto che seguirono di poco la legge di riforma, ma l'atteggiamento preponderante sembrava essere stato quello di conservare il carcere così com'era, di chiuderlo ulteriormente, di isolarlo. La legge doveva essere presente, all'interno dello stesso, tramite un'autorità giudiziaria specifica, alla quale erano stati attribuiti, sulla carta, poteri abbastanza incisivi, ma che, nella pratica quotidiana, venivano
ignorati da chi operava all’interno delle strutture94. Un addetto alla direzione generale degli istituti di prevenzione e di
pena95, poco dopo l'emanazione della legge di riforma, ebbe a sostenere che il magistrato di sorveglianza fosse da ritenersi il
94 N. FRANCO, cit., p. 454, dove l'autore riporta sommariamente lo svolgimento di un
incontro promosso dall'amministrazione penitenziaria con i magistrati di sorveglianza. Il tema oggetto di tale incontro era la giusta interpretazione e attuazione delle norme della legge 354/1975, relative ai permessi e alle misure alternative. I Magistrati di sorveglianza prestarono molta attenzione a tutto ciò che venne detto anche se, in qualità di magistrati, non erano tenuti a dare ascolto ad organi amministrativi circa l'interpretazione e attuazione di una legge. Mai, però, si chiese loro cosa pensassero, ad esempio, alle norme relative ai trasferimenti (materia di esclusiva competenza dell'amministrazione) o circa le difficoltà dei servizi carcerari. In pratica, si voleva dire ai Magistrati di sorveglianza come fare il proprio lavoro in maniera da andare tutti d'accordo, e tale maniera era seguire gli orientamenti dell'amministrazione. Non si chiedeva assolutamente uno scambio di opinioni.
95
G. NESPOLI, Ciò che resta allo Stato‐amministrazione dopo la legge sull'ordinamento
83
“dominus dell'intera vicenda penitenziaria”96. Lo stesso autore ebbe a parlare, poi, di macroscopici e significativi "spossessamenti" subiti dallo Stato ‐ amministrazione a favore dell'autorità giudiziaria di sorveglianza. Principalmente lo preoccupava la sottrazione all'amministrazione del potere di auto‐organizzarsi, attuata dalla legge 354/1975 con il suo articolo 16, secondo il quale la commissione incaricata di predisporre il regolamento interno di ciascun istituto doveva essere presieduta dal magistrato di sorveglianza: “l'ossequio eccessivo al generale principio della giurisdizionalizzazione dell'esecuzione penale ha portato (…) alla vulnerabilità dell’antico e pacifico criterio: quello dell'autogoverno dell'amministrazione, anche a livello periferico97. Inoltre, anche la possibilità di reclamo prevista dall'articolo 69, 5° comma, lett. b), venne, nella pratica, considerato un grave "spossessamento" del potere disciplinare dell'amministrazione penitenziaria, compiuto anche tramite l'articolo 38 o.p., il quale prevedeva la tassatività delle infrazioni disciplinari sanzionabili. La magistratura era ormai priva di qualsiasi potere di intervento rilevante in ambito penitenziario. 96 G. NESPOLI, cit., p. 254. 97
G. NESPOLI, Ciò che resta allo Stato‐amministrazione dopo la legge sull'ordinamento
84
7. Un ulteriore indebolimento delle garanzie giurisdizionali: il