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CAPITOLO PRIMO
Profili storici. Dalla legislazione‐Rocco al codice di rito del 1988 1. La politica penitenziaria del primo dopoguerra come strumento di consenso sociale Negli anni successivi alla prima Guerra Mondiale si manifestarono, in Europa e, in maniera molto marcata, anche in Italia, nuove teorie che univano la concezione retributiva della pena, corollario del principio di responsabilità individuale, alla concezione che affermava la pericolosità sociale del soggetto deviante e la necessità di introdurre le misure di sicurezza1.Successivamente, dagli anni 1921‐1922, la politica penitenziaria iniziò un progressivo avvicinamento alle teorie trattamentali. Alcuni dei principi della scuola positiva vennero trasfusi in circolari ministeriali nelle quali, ad esempio, i detenuti venivano considerati destinatari
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non tanto di repressione quanto di cura, e la concessione dei colloqui con il mondo esterno era meno ristretta2.
Con l'avvento del fascismo, si ebbe però “una netta involuzione sul piano del trattamento carcerario”3. Il regime volle rompere con qualsiasi “criterio di pietismo” nei confronti dei condannati alla pena detentiva4, introducendo in misura abnorme le misure di sicurezza, eliminando le attenuanti generiche, ripristinando in taluni casi anche la pena di morte, e prevedendo la retroattività di alcune sanzioni. Giovanni Novelli, considerato il padre della "scienza penitenziaria" quale disciplina autonoma dal diritto penale e processuale penale, nonché fondatore della Rivista italiana di diritto penitenziario, sottolineò come l'opinione pubblica, sotto l'effetto delle notizie relative alla materiale esecuzione delle pene, in particolare delle notizie di abusi e atti arbitrari ai danni dei detenuti, avesse espresso l'esigenza di un controllo particolare su questa fase di attuazione della potestà punitiva dello Stato5.
Poiché il fascismo voleva farsi universalmente accettare, e divenire un movimento di massa per meglio attuare il suo potere totalizzante, 2 E. FASSONE, La pena detentiva in Italia dall'800 alla riforma penitenziaria, Bologna, 1980, p. 50. 3 E. FASSONE, La pena detentiva in Italia dall'800 alla riforma penitenziaria, cit., p. 53. 4
Così E. ALTAVILLA, La parte generale del codice penale, Napoli 1934, citato da E. FASSONE, La pena detentiva in Italia dall'800 alla riforma penitenziaria, cit., nota n. 150, p. 66.
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G. NOVELLI, "L'intervento del giudice nell'esecuzione penale", in Rivista di diritto
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è facile pensare che le concessioni fatte dal legislatore negli anni 1930 e 1931, come ad esempio proprio il Giudice di sorveglianza di cui ci stiamo occupando, fossero palliativi utili soltanto ad ottenere consenso sociale e, quindi, obbedienza.
Conclusa questa ampia, ma doverosa, contestualizzazione è comunque indubbio rilevare che l'introduzione del Giudice di sorveglianza, e tutto ciò che essa nel tempo ha comportato, rappresentò un passo in avanti nello sviluppo del diritto penitenziario per come ancora oggi lo intendiamo.
4 2. La figura del giudice di sorveglianza nei codici‐Rocco e nel r.d. 18 giugno 1931, n. 787: primi segnali di garanzia per i detenuti L'introduzione della figura del giudice di sorveglianza coincise, come abbiamo sopra accennato, con l'approvazione da parte del Re d'Italia Vittorio Emanuele III del nuovo codice penale del 1930, e del nuovo codice di procedura penale del 1931, nonché con il regolamento per gli istituti di prevenzione e di pena approvato con R.D. 18 giugno 1931, n. 787.
La nuova concezione della pena quale strumento retributivo, e allo stesso tempo mezzo di riadattamento sociale del detenuto, aveva due corollari: quello della individualizzazione della pena e quello del riconoscimento di diritti soggettivi del detenuto in quanto persona privata della libertà. Sempre secondo questa nuova concezione era propria della pena anche un'utilità sociale, dato che la finalità rieducativa era strumentale rispetto alla necessità di preservare la comunità da soggetti che si fossero dimostrati socialmente pericolosi. Apparve evidente, sulla base delle enunciazioni di principio, anche se non sempre pienamente attuate, la ragione dell'istituzione dell'organo del giudice di sorveglianza: chi meglio di un magistrato avrebbe potuto risolvere eventuali contrasti tra l'amministrazione penitenziaria e i detenuti? Chi meglio di un magistrato avrebbe
5 potuto fornire quello strumento di garanzia sentito in quel momento storico così necessario? Chi meglio di un magistrato avrebbe potuto dare attuazione all'individualizzazione della pena, essendo oltretutto previsto un obbligo di visita periodico agli istituti penitenziari? All'articolo 144 c.p., rubricato “Vigilanza sull'esecuzione delle pene”, venne previsto che l'esecuzione delle pene detentive dovesse svolgersi sotto il controllo del giudice. Sembrò chiara e netta l'affermazione della competenza di un organo giurisdizionale nel momento esecutivo della pena. Tali funzioni dovevano essere esercitate presso ciascun tribunale e negli altri luoghi designati, con decreto del ministro della giustizia, dal giudice di sorveglianza del luogo in cui il condannato si trovava ad espiare la pena, a prescindere dal territorio di competenza del giudice che aveva pronunciato la sentenza di condanna.
Ancor più chiara, dunque, risultava essere la corrispondenza territoriale fra il luogo di espiazione della pena e il territorio geografico di competenza del giudice di sorveglianza. La scelta di un tale criterio dimostrava, inoltre, quanto la materia dell'esecuzione fosse stata oggetto di studio ed analisi, sia da parte della dottrina, sia da parte di coloro che parteciparono alla stesura dei due codici considerati.
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Indubbiamente, non possiamo sottovalutare che tale opzione venne prescelta anche per un motivo che potremmo definire "pratico‐ funzionale", tenendo conto del fatto che durante la propria “carriera penitenziaria” ogni detenuto avrebbe potuto trovarsi ad essere trasferito in diversi stabilimenti penitenziari per necessità processuali, sanitarie o per ricostituire legami parentali. Dunque sarebbe apparso impossibile attribuire una tale competenza al giudice dell'esecuzione, competente soltanto per il luogo in cui la sentenza di condanna era stata emessa.
L'esigenza di garanzia per il detenuto veniva rispettata attraverso l'articolo 4 del regolamento per gli istituti di prevenzione e di pena, che tra l'altro elencava minuziosamente le singole competenze del giudice di sorveglianza.
Si stabiliva che l'organo giudiziario in esame avesse l'obbligo di visitare ogni due mesi gli stabilimenti, ma non era proibito che queste visite fossero più frequenti. Quest'ultima affermazione assumeva maggior valore se si consideravano le spettanze del giudice di sorveglianza che richiedevano, e richiedono tutt'oggi, un contatto diretto con i detenuti, e viste le ragioni che avevano portato alla sua istituzione.
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È vero che la realtà delle cose è stata in alcuni casi, e lo è ancora, diversa, ma nel momento della creazione di questo organo è da ritenere che questo aspetto non fosse passato inosservato, anche se l'accettazione di una tale istituzione non fu certo assoluta.
È poi interessante sottolineare come immediatamente dopo l'emanazione del nuovo codice penale si avvertì il bisogno, se non proprio di giustificare, di delimitare esattamente e in maniera rigorosa la portata di una tale innovazione, nell'ambito della fase esecutiva della pena. Questa necessità venne sostenuta fortemente dal potere esecutivo, il quale, emanando il regolamento per gli istituti di prevenzione e di pena, determinò meticolosamente le materie di competenza del giudice di sorveglianza, e le forme di tale competenza, senza lasciare spazio a possibili integrazioni interpretative di natura analogica. Non mancavano certo voci favorevoli alla possibilità di allargare in via interpretativa le competenze del giudice di sorveglianza6, ma la maggior parte della dottrina considerava l'elencazione contenuta nell'articolo 4 del citato regolamento come tassativa.
In un commento al codice penale, redatto da due segretari della commissione ministeriale incaricata della riforma dello stesso codice,
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G. F. FALCHI, Le funzioni penitenziarie del giudice di sorveglianza, in Il pensiero giuridico
penale, Messina, 1934, pp. 15‐16. L'autore affermava lo stesso principio in materia di
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si leggeva poi la precisazione che l'istituzione di tale organo, nonché le sue attribuzioni, non voleva assolutamente prefigurare lo scardinamento del principio dell'immutabilità della pena, sia relativamente alla specie di questa, sia relativamente alla sua durata7. Vediamo quindi che, nonostante la consapevolezza della necessità e della utilità del giudice di sorveglianza, lo si istituì con molta circospezione e cautela.
Le funzioni del giudice di sorveglianza erano tripartite in funzioni ispettive, funzioni deliberative e funzioni consultive. Per quanto riguarda le funzioni ispettive va detto che queste erano la manifestazione di un potere generale di "vigilanza" sulla retta applicazione delle leggi e dei regolamenti all'interno degli stabilimenti penitenziari, nei confronti dei detenuti. È da precisare, però, che tale carattere di indeterminatezza non significava che il giudice di sorveglianza avesse un potere di vigilanza globale su quello che avveniva all'interno degli istituti di prevenzione e di pena, senza sorta di limitazioni. Egli doveva assicurarsi della regolarità legale e regolamentare solo di ciò che riguardava il detenuto: assicurarsi, cioè, che la pena venisse regolarmente applicata, che in tale applicazione non ci fossero eccessi o deficienze, che si rimanesse
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C. SALTELLI, E. R. DI FALCO, Commento teorico‐pratico del nuovo codice penale, Vol. I, parte seconda, Roma, 1930, p. 663
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fedeli a ciò che era stato stabilito nella sentenza di condanna, ma anche che lo stesso detenuto osservasse le norme legislative e regolamentari che esplicavano la loro efficacia all'interno degli stabilimenti.
Proprio queste caratteristiche del potere di vigilanza del giudice di sorveglianza, strettamente connesso alla vita carceraria dei detenuti condannati nei confronti dei quali l'amministrazione penitenziaria attuava la potestà punitiva dello Stato, escludevano la competenza di questo organo giudiziario verso detenuti imputati, non ancora condannati definitivamente. Essendo stato previsto un tale potere, si sentì la necessità di precisare quale fosse la natura dei rapporti intercorrenti tra i giudici di sorveglianza e i direttori degli istituti. Basti per ora evidenziare che si affermò molto chiaramente che tra questi due organi non esisteva, né sarebbe potuta instaurarsi, una gerarchia funzionale8.
Relativamente alle funzioni deliberative del giudice di sorveglianza si poteva notare come, nell'ambito dell'esecuzione delle pene detentive, queste rappresentassero la maggior parte delle funzioni di tale figura, nonché quelle che più incidevano sulla quotidiana vita carceraria dei detenuti. Le funzioni in oggetto riguardavano
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G. VELOTTI, Appunti sul giudice di sorveglianza, in Rassegna di studi penitenziari, 1971, p. 410; sembrava di parere concorde G. NOVELLI, L'intervento del giudice nell'esecuzione
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essenzialmente due materie di natura diversa. Difatti eravamo in grado di individuare attribuzioni deliberative che riguardavano il trattamento e la condizione dei detenuti, e quindi, sostanzialmente, funzioni il cui esercizio andava a modificare lo stato penitenziario dei reclusi, e attribuzioni deliberative che direttamente incidevano su diritti soggettivi, principalmente di natura patrimoniale, dei detenuti9.
Per mutamento dello stato penitenziario dei reclusi dovevano intendersi le seguenti ipotesi:
‐ variazione della condizione psichica o fisica del detenuto ex art. 40 reg.;
‐ assegnazione a sezioni speciali degli istituti penitenziari dei detenuti di età compresa fra 18 e 25 anni ex art. 29 reg.;
‐ scelta sulla destinazione dei condannati per delitti non colposi inizialmente ristretti in celle di osservazione, con provvedimenti di proroga dell'osservazione in isolamento, oppure di trasferimento del condannato in case di punizione, o di rigore, oppure in case per minorati fisici o psichici o, infine, con provvedimenti di ammissione del soggetto medesimo alla vita in comune; 9 D. MASTANDREA, Del giudice di sorveglianza. Esecuzione delle pene detentive, in Rivista italiana di diritto penitenziario, 1931, p. 1537.
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‐ assegnazione del condannato ad una pena superiore ad anni cinque, che avesse tenuto buona condotta, a stabilimenti di riadattamento sociale, e relativo provvedimento di revoca; ‐ possibilità di ordinare il ricovero del detenuto presso un
manicomio giudiziario, o in una casa di ricovero o di custodia nel caso in cui fosse sopravvenuta un'infermità psichica o fisica tale da rendere impossibile la prosecuzione della normale detenzione;
‐ competenza a dichiarare l'inammissibilità delle richieste di liberazione condizionale che risultassero manifestamente infondate.
Per quanto riguarda, infine, le funzioni consultive attribuite al giudice di sorveglianza l'articolo 4, comma 3°, reg., e l'articolo 144, comma 2° c.p., prevedevano gli unici due casi in cui veniva richiesto obbligatoriamente il parere del giudice stesso:
‐ ammissione alla liberazione condizionale10, basando il parere sulla personale conoscenza del detenuto, ma anche sulle informazioni e sui dati che egli assumeva tramite le cartelle biografiche e i rapporti informativi delle autorità carcerarie11;
10 In base al R.D. 28 maggio 1931, n. 602, art. 43, competente a concedere la liberazione
condizionale era, in ogni caso, il ministro della giustizia.
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D. MASTANDREA, Del giudice di sorveglianza. Esecuzione delle pene detentive, cit., p. 1544.
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‐ procedimento per la concessione, attraverso regio decreto, della grazia.
E' importante sottolineare che in tali ipotesi l'assunzione del parere del giudice di sorveglianza era condizione necessaria per la legittimità, e per la regolarità formale dei provvedimenti che dovevano essere emessi, ma per quanto riguardava il contenuto dei provvedimenti stessi tale parere non era vincolante: non ci si doveva, cioè, conformare necessariamente ad esso12. 12 G. F. FALCHI, Le funzioni penitenziarie del giudice di sorveglianza, cit., p. 30.
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3. Il periodo di transizione dal secondo dopoguerra al 1975. I primi tentativi di riforma dell’ordinamento penitenziario
Nonostante i profondi mutamenti storici, politici ed istituzionali verificatisi in Italia dopo la fine del secondo conflitto mondiale, le norme riguardanti il sistema penitenziario rimasero formalmente invariate fino al 1975. Dopo la caduta del fascismo, la proclamazione della Repubblica e dopo l'emanazione della Costituzione, continuò la vigenza del codice penale, così come del codice di procedura penale, e del regolamento penitenziario. Tutti, naturalmente, con parziali modificazioni relative agli elementi di natura spiccatamente fascista, che furono in qualche modo soppressi.
Gli anni immediatamente successivi alla liberazione erano caratterizzati da un altissimo indice di criminalità, da carceri sovraffollate13 e da un'opinione pubblica poco attenta, come era naturale per una società impegnata nella ricostruzione dopo un conflitto bellico, alle condizioni di vita dei detenuti. Ciò era comprensibile, date le difficili circostanze in cui si trovava la popolazione, essa stessa afflitta da problemi di sopravvivenza quotidiana.
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E. FASSONE, La pena detentiva in Italia dall'800 alla riforma penitenziaria, cit., p. 69, nonché G. NEPPI MODONA, Appunti per una storia parlamentare della riforma
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Per i governi di Togliatti e Gullo, fra la prima metà del '45 e la prima metà del '47, le preoccupazioni relative al sistema penitenziario erano quindi considerate secondarie, anche da un punto di vista politico. Inoltre il carcere veniva ritenuto in quegli anni il miglior "luogo di soggiorno" per i criminali fascisti14.
I giuristi d'ispirazione cattolica fecero nuovamente sentire la loro voce, precedentemente soffocata dal fascismo, forti anche della crescente importanza del partito della Democrazia cristiana. Essi sostenevano, relativamente alla pena, la funzione di purificazione del colpevole, creando ancora una volta, come era accaduto durante il regime, anche se con motivazioni diverse, una fusione tra diritto e morale15.
Ma la funzione rieducativa della pena non era ancora un concetto del tutto accettato. È vero che tale concetto era stato inserito nella Costituzione all'articolo 27, comma 3°, ma proprio i lavori dell'Assemblea costituente relativi alla stesura di tale norma dimostravano la cautela e la diffidenza nei confronti di una simile affermazione nell'ambito della legge fondamentale dello Stato.
Durante la discussione non mancarono, infatti, voci contrarie all'inserimento nella Carta costituzionale della finalità rieducativa
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E. FASSONE, La pena detentiva in Italia dall'800 alla riforma penitenziaria, cit., p. 69.
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della pena; si espresse, ad esempio, il timore che un tale dettato avrebbe potuto portare all'eliminazione della funzione retributiva16. Queste opposizioni provenivano, però, da parti diverse e in maniera disorganica: non vi era, quindi, un netto ed organizzato schieramento di opposizione. Probabilmente anche il fatto che alcuni membri dell'Assemblea avessero personalmente avuto esperienze di vita nelle carceri del regime, e che, quindi, conoscessero le condizioni e la realtà nelle quali vivevano i detenuti, ha fatto sì che l'affermazione della funzione rieducativa della pena, ma anche del senso di umanità cui essa deve ispirarsi, fossero principi stabiliti dalla Costituzione. Nel 1948 venne istituita una commissione parlamentare d'inchiesta, e le venne attribuito l'incarico di “indagare, vigilare e riferire al Parlamento relativamente alle condizioni dei detenuti, e ai mezzi utilizzati all'interno delle carceri al fine di assicurare la disciplina nelle stesse”. Al termine dei lavori (21 dicembre 1950) la commissione parlamentare presentò delle proposte che poco si discostavano da un regolamento precedentemente elaborato a livello ministeriale nel 1947. Gli unici aspetti innovativi contenuti nella proposta della commissione parlamentare furono quelli relativi a brevi licenze, a diminuzioni della pena, a rappresentanze di detenuti interne alle
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G. NEPPI MODONA, Appunti per una storia parlamentare della riforma penitenziaria, cit., p. 326.
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carceri, e, fatto molto importante, una "raccomandazione" diretta ai capi delle Corti d'appello di non attribuire ai giudici di sorveglianza incarichi diversi da quelli della sorveglianza medesima17.
Una maggiore accettazione della funzione rieducativa della pena si ebbe solo nella seconda metà degli anni '50, in un quadro politico parzialmente mutato, vista la presenza più incisiva all’interno delle assemblee parlamentari delle forze di sinistra. In questi anni si pose maggiore attenzione alla prevenzione speciale, anche perché le condizioni di vita "in ambiente libero", erano migliorate. L'Italia in quegli anni era attraversata da un notevole benessere materiale, il processo di ricostruzione post‐bellica poteva dirsi concluso, e quindi anche le condizioni di vita "in ambiente chiuso", cioè negli istituti penitenziari, potevano migliorare18.
Si andava affermando in quegli anni un filone di pensiero secondo il quale doveva porsi molta attenzione nei confronti della personalità del soggetto, e quindi la retribuzione non poteva essere considerata finalità esclusiva della pena. Si cominciava a parlare di una flessibilità dell'esecuzione, necessaria all'efficacia dell'attività rieducativa19.
17 G. NEPPI MODONA, Appunti per una storia parlamentare della riforma penitenziaria,
cit., pp. 330‐331. Va precisato che all'epoca non era previsto il divieto del cumulo di funzioni.
18 E. FASSONE, La pena detentiva in Italia dall'800 alla riforma penitenziaria, cit., pp. 88‐89. 19
E. FASSONE, La pena detentiva in Italia dall'800 alla riforma penitenziaria, cit., pp. 91‐92, dove l'autore riporta il pensiero di Pietro Nuvolone, secondo il quale essendo l'imputabilità la categoria legale tramite la quale si rileva la capacità del soggetto ad
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Tale percorso proseguì fino all'inizio degli anni '60: fu proprio nel 1960 che venne presentato il primo progetto di riforma penitenziaria dal ministro di grazia e giustizia Guido Gonnella alla Camera col disegno di legge n. 239320. Una delle maggiori innovazioni contenute nel disegno di legge in esame era rappresentata dalla previsione di un aumento dei poteri dell'autorità giudiziaria in ambito penitenziario; si propose l'istituzione di uffici di sorveglianza, composti da magistrati cui non avrebbero dovuto essere attribuite altre funzioni. Si considerò anche una certa forma limitata di semilibertà, per pene superiori ai cinque anni con concessione del beneficio nell'ultimo anno di espiazione, e di permessi, concedibili solo al fine di permettere ai detenuti di visitare familiari che si trovassero in imminente pericolo di vita21.
Il Parlamento non prese mai in esame il disegno di legge Gonnella, poiché decadde per la fine della legislatura nel 1963. Deve comunque dirsi che proprio dal 1960 ebbe inizio il lungo e difficile processo che porterà poi alla legge 26 luglio 1975, n. 354.
adeguarsi ai precetti normativi, e non potendo ottenere una valutazione esatta di tale capacità, né l'eventuale influsso di elementi esterni all'individuo, non può concepirsi la pena in termini esclusivamente retributivi. Sia la retribuzione, che la rieducazione, devono essere considerate esigenze logiche della pena.
20 M. BUONAMANO, La riforma penitenziaria al Parlamento. Osservazioni e indicazioni, in
Rivista di studi penitenziari, 1973, p. 173
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G. NEPPI MODONA, Appunti per una storia parlamentare della riforma penitenziaria, cit., p. 340.
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Nel 1968 Gonnella fu nuovamente nominato Ministro della giustizia. Egli rielaborò il precedente progetto di legge e lo presentò al Senato. Furono, però, necessari due anni perché la legge venisse discussa in commissione giustizia del Senato, e da questa assemblea approvata. Per quale motivo l'esame di un disegno di legge non così differente dai precedenti richiese un lasso di tempo così lungo rimane ancora oggi ignoto: molto probabilmente non si considerava la riforma "urgente". Per chi governava il paese, forse, il carcere e, più in generale, l'intero sistema dell'amministrazione penitenziaria erano settori funzionanti dello Stato.
In realtà, al di fuori di questa visione burocratica, la riforma era tutt'altro che un atto da rimandare. La situazione che andava creandosi nelle carceri italiane a cavallo tra gli anni '60 e gli anni '70, era proprio il sintomo della necessità di un cambiamento.
Il disegno di legge n. 538, approvato dal Senato nel 1971, conteneva delle modifiche rispetto all'originario testo governativo. Tra queste ricordiamo la previsione degli interventi del magistrato di sorveglianza in forma giurisdizionale per ciò che atteneva alla modificazione delle pene e delle misure di sicurezza. Inoltre, degna di nota, era anche la previsione della competenza di tale magistrato in tema di concessione della liberazione condizionale (proposta che
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implicava la sottrazione di tale competenza al ministro di grazia e giustizia). La previsione di una forma contenziosa per la semilibertà, per le licenze concedibili ai soggetti in tale regime, per la liberazione anticipata e per quella condizionale, nonché per la remissione del debito per spese di giustizia, portavano inevitabilmente a parlare della flessibilità dell'esecuzione della pena, necessaria, come sostenne Marcello Buonamano22, allora ispettore generale nell'amministrazione penitenziaria, per l'applicazione sostanziale dell'articolo 27, comma 3°, della Costituzione.
Lo stesso Marcello Buonamano non accettava, però, che la giurisdizionalizzazione dell'esecuzione penale implicasse maggiori poteri per il magistrato di sorveglianza, potremmo dire di "interferenza" con l'attività svolta dall'amministrazione carceraria. Erano previste infatti, per il magistrato di sorveglianza, talune attività amministrative in posizione di supremazia nei confronti dell'amministrazione carceraria23.
Ma anche per questo disegno di legge si ripeté l'iter dei precedenti: decadde a causa della fine di legislatura.
22 M. BUONAMANO, La riforma penitenziaria al Parlamento. Osservazioni e indicazioni,
cit., pp. 180‐182‐
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L'autore non concepisce altri poteri attribuiti al Magistrato di sorveglianza nel disegno di legge del Senato, tra i quali ad esempio quello di autorizzare la censura della corrispondenza, o quello di vigilare sulla custodia preventiva. Naturalmente, relativamente alle modificazioni introdotte dal disegno di legge in esame, ci si limita ad indicare quelle che più riguardano i rapporti fra magistrato di sorveglianza e amministrazione penitenziaria.
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4. Iil nuovo ordinamento introdotto con la l. 26 luglio 1975, n. 354. Il diverso ruolo del magistrato di sorveglianza
Nel corso della VI legislatura si ripartì, nel processo di riforma dell’ordinamento penitenziario, dalla Commissione giustizia del Senato: correva l'anno 1973. Nel passaggio del disegno di legge alla Camera molti deputati dichiararono la necessità di procedere rapidamente all'approvazione della legge di riforma, ma vi fu chi, come l'onorevole Padula (DC), si schierò nettamente contro ad un tale atteggiamento, manifestando forti perplessità proprio nei confronti degli "ampi" poteri che venivano attribuiti dal disegno legge al magistrato di sorveglianza24. Da questo momento in poi i lavori dell’aula della Camera furono caratterizzati da una netta inversione di tendenza. Si neutralizzarono, quasi completamente, gli avanzamenti ottenuti in Senato, e la stessa maggioranza parlamentare si schierò contro i principi più innovativi della legge di riforma.
Al Senato non rimase che approvare il testo di legge predisposto dalla Camera, anche se profondamente modificato, per evitare ulteriori ritardi nella emanazione di una legge di riforma quanto mai necessaria.
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G. NEPPI MODONA, Appunti per una storia parlamentare della riforma penitenziaria, cit., p. 357.
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Per ciò che atteneva in modo specifico alla magistratura di sorveglianza e alle competenze attribuitele dalla legge 354/1975, si doveva sottolineare l'affermazione, da parte della Corte costituzionale, per mezzo della sentenza 27 giugno 1974, n. 20425, di un basilare principio relativo alla funzione rieducativa della pena, e al controllo giurisdizionale sull'esecuzione della stessa, che avrebbe dovuto caratterizzare l'opera della Magistratura di sorveglianza, e che avrebbe dovuto creare un'ulteriore "legittimazione", oltre l'art. 27, 3° comma, Cost., alla sua attività.
La legge 354/1975 venne suddivisa in due titoli: il primo rubricato “Trattamento penitenziario”; il secondo rubricato “Disposizioni relative all'organizzazione penitenziaria”. Il capo secondo di tale titolo, dedicato alla magistratura di sorveglianza, era titolato “giudici di sorveglianza”26: questa apparve fin da subito una reminiscenza del sistema penitenziario delineato dai codici Rocco e dal regolamento del 1931, poiché nelle singole norme della legge di riforma tale organo viene indicato come “magistrato di sorveglianza”.
25 Vedi infra cap. II. 26
G. DI GENNARO, M. BONOMO, R. BREDA, Ordinamento penitenziario e misure
alternative alla detenzione, 2° ed., Milano 1980, pp. 309 e ss., nonché MINISTERO DI
GRAZIA E GIUSTIZIA (a cura del), Ordinamento penitenziario. Misure preventive e limitative
della libertà. Legge e regolamento. Disposizioni complementari, Milano 1977, pp. 29 e ss.; Lex. Legislazione italiana, anno LXI, Parte I, Torino, 1975, pp. 1366 e ss. Tale dizione verrà
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Con l'articolo 68 si istituirono gli uffici di sorveglianza presso i tribunali esistenti nelle sedi di cui alla tabella A allegata alla legge; le circoscrizioni dei tribunali rappresentavano l'area territoriale che ricadeva sotto la giurisdizione di ogni singolo ufficio di sorveglianza. Gli uffici di sorveglianza dovevano essere considerati quali entità autonome, sia da un punto di vista organizzativo, che da un punto di vista amministrativo. Anche la stessa previsione della costituzione di tali uffici “presso i tribunali esistenti”, doveva essere intesa come una mera indicazione spaziale, e non nel senso che gli uffici di sorveglianza facessero parte del tribunale presso il quale erano costituiti27.
Tali uffici appartenevano all'amministrazione giudiziaria. Se si considerava, poi, che l'istituzione degli Uffici in questione rispose alla necessità di prevedere un organo esterno all'amministrazione, competente in materia di controllo sull'attuazione della legge penitenziaria, risultava evidente l'impossibilità di considerarli parte dell'organizzazione penitenziaria.
Circa le motivazioni per le quali vennero previsti e istituiti gli uffici di sorveglianza, queste furono individuate nella volontà di far rientrare la fase dell'esecuzione penale nell'ambito della competenza e
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A. MARGARA, Magistratura di sorveglianza, in G. VASSALLI (a cura di), Dizionario di
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dell'organizzazione, appunto, dell'autorità giudiziaria, e nella volontà di modificare sostanzialmente il carattere della fase esecutiva. Questa era stata, infatti, precedentemente strutturata in maniera tale da risultare statica; nel 1975 si volle creare una fase esecutiva nuova, dinamica, tesa a dare attuazione alla previsione costituzionale della finalità rieducativa della pena, senza però creare un processo bifasico, composto, cioè, da due diverse fasi decisionali autonome28. “I magistrati addetti agli uffici di sorveglianza non devono essere adibiti ad altre funzioni giudiziarie”: come abbiamo visto nel capitolo precedente, una tale previsione non figurava né nel codice penale, né nel codice di procedura penale Rocco, e neanche nel regolamento per gli istituti di prevenzione e pena. I giudici di sorveglianza, potevano quindi essere adibiti ad altre funzioni, e questo portava tale autorità giudiziaria a doversi destreggiare tra i suoi innumerevoli compiti, con grave danno all'efficienza ed efficacia della sua azione in ambito penitenziario. Probabilmente è proprio questo ciò di cui si è tenuto conto nel momento in cui si inserì una tale norma all'interno della legge. È poi indubbio che con la legge 354/1975, le funzioni e le
28 A. MARGARA, Magistratura di sorveglianza, in G. Vassalli (a cura di), Dizionario di diritto
e procedura penale, cit., pp. 608‐609, nonché dello stesso autore, Relazione. Parte prima. Considerazioni generali sulle attività degli uffici di sorveglianza, in C.S.M, Diritto penitenziario e misure alternative, (Grottaferrata, 25‐30/03/1979), Roma 1979, p. 27, e Il magistrato di sorveglianza quale garante di conformità alla legge dell'attività penitenziaria, in V. Grevi (a cura di), Alternative alla detenzione e riforma penitenziaria,
Bologna, 1982, p. 204.
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competenze del magistrato di sorveglianza siano aumentate, e che quindi anche questo dato abbia influito sulla considerazione della necessità di liberarlo da qualsiasi funzione diversa da quella, appunto, di "sorveglianza".
La magistratura di sorveglianza era una magistratura specializzata, ma la specializzazione non si otteneva tanto tramite studi o preparazioni universitarie particolari. Anzi, da questo punto di vista sarebbe necessario prevedere una maggiore preparazione criminologica, psicologica e pedagogica, per coloro che sceglievano, o accettavano un incarico nella magistratura di sorveglianza: preparazione allora quasi inesistente. Bensì la specializzazione si doveva conseguire con la pratica, con la conoscenza dei detenuti e della realtà in cui essi vivevano, della realtà in cui dovevano tornare a vivere. Quindi adibire temporaneamente un magistrato d'appello o di tribunale, esterno "alla sorveglianza", alla funzione di magistrato di sorveglianza, poteva portare a gravi conseguenze, sia per i detenuti, sia per la società, sia per il "sostituto" stesso che si sarebbe trovato ad affrontare difficili situazioni.
Sempre con la legge 354/1975 i poteri e le competenze della magistratura di sorveglianza, sia nella sua attività di organo monocratico che in quella di membro di un organo collegiale, sono
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stati sensibilmente aumentati. L'intervento della citata autorità giudiziaria si presentava potenzialmente molto più incisivo rispetto a quello del giudice di sorveglianza previsto dai codici Rocco. Questo dipese anche dall'introduzione nell'ordinamento penitenziario di istituti quali, a titolo d'esempio, l'affidamento in prova o la semilibertà, e dalla volontà di "giurisdizionalizzare" la fase esecutiva del processo penale.
Appariva quindi inevitabile che il "vecchio" giudice di sorveglianza acquistasse, oltre ad una nuova nomenclatura, quella di magistrato, anche nuove forme e nuove competenze.
Per quanto concerneva le attribuzioni del magistrato di sorveglianza, venne introdotta la sezione di sorveglianza, competente circa la concessione delle misure alternative. Questo portava alla sottrazione dalla competenza del magistrato di sorveglianza, proprio delle materie che rappresentavano la maggior parte delle vicende modificative delle modalità di esecuzione delle pene detentive, materie che, quindi, incidevano profondamente sulla libertà dell'individuo. Venne sostenuto che le attribuzioni dell'organo monocratico contenute nella legge di riforma dell'ordinamento penitenziario, erano espressione di una “concezione del magistrato di sorveglianza essenzialmente quale organo di garanzia della legalità
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nell'esecuzione della sanzione detentiva di tipo tradizionale, sia pure in un'ottica più spiccatamente ispirata alla finalità della rieducazione”29.
L'articolo che, invece, si occupava delle funzioni del magistrato di sorveglianza, quale organo monocratico, era l'articolo 69 della legge di riforma.Al comma 1° di tale norma, si statuiva che “il magistrato di sorveglianza “vigila sull'organizzazione degli istituti [...] e prospetta al ministro le esigenze dei vari servizi”.
Il comma 2° dell'articolo in esame stabiliva quali erano le funzioni esercitate dal magistrato di sorveglianza nei confronti degli imputati. L'autorità giudiziaria citata doveva vigilare al fine di assicurare che la custodia di questi soggetti venisse eseguita “in conformità delle leggi e dei regolamenti”30. Tali previsioni erano espressione della necessità di un controllo da parte di un organo esterno, terzo, sulla retta applicazione della legge all'interno delle carceri.
Il controllo del magistrato di sorveglianza non doveva, inoltre, essere inteso solo come mezzo per assicurare unicamente la legalità dell'attività penitenziaria, ma doveva intendersi comprensivo anche di una valutazione di merito, in quanto si trattava di “valutare la
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F. BRICOLA, L'intervento del giudice nell'esecuzione delle pene detentive: profili
giurisdizionali e profili amministrativi, in Studi in onore di Biagio Petrocelli, Tomo I, Milano,
1972, pp. 307‐308.
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F. BRICOLA, L'intervento del giudice nell'esecuzione delle pene detentive: profili
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funzionalità dell'azione penitenziaria rispetto al raggiungimento degli scopi che le devono essere propri”31.
Uno tra i principali di tali scopi era l'attuazione, nei confronti di detenuti e internati, di un trattamento rieducativo32.
L'esercizio di una simile funzione era basato su mezzi di conoscenza rappresentati, innanzitutto, dalla stessa iniziativa del magistrato di sorveglianza, tramite visite, esame di documenti, colloqui ecc., ma anche la comunicazione automatica dell'autorità carceraria al magistrato di sorveglianza di tutti gli atti compiuti, relativi all'organizzazione e al funzionamento dei servizi.
Il 2° comma dell'articolo 69 o.p. si occupava, come già si è sottolineato, delle funzioni esercitate dal magistrato di sorveglianza nei confronti degli imputati. Tale magistrato doveva vigilare al fine di assicurare che la custodia di questi soggetti venisse eseguita “in conformità delle leggi e dei regolamenti”. In relazione a questo comma, si doveva procedere al collegamento con l'articolo 15, comma 2° o.p., nel quale si affermava che gli imputati potevano essere ammessi a partecipare ad attività educative, culturali, lavorative o di formazione professionale, in seguito ad una loro
31 G. DI GENNARO, Il giudice nell'esecuzione penitenziaria, cit., p. 8. 32 Il potere di controllo in esame, nonostante la generica dizione dell'articolo 69, non può esplicarsi sugli istituti di carcerazione preventiva, poiché nei confronti degli imputati non può parlarsi di trattamento rieducativo. L'articolo 1, in relazione al trattamento rieducativo, parla infatti solo di “condannati e internati”.
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richiesta, salvo che l'autorità giudiziaria competente non ritenesse opportuna la partecipazione (autorità che poteva essere anche il magistrato di sorveglianza in accordo con l'autorità procedente33). Anche nell'ambito del nuovo ordinamento penitenziario, il magistrato di sorveglianza aveva competenza in materia di misure di sicurezza. Infatti al comma 3° dell'articolo 69 si stabiliva che il magistrato di sorveglianza “sovrintende all'esecuzione delle misure di sicurezza personali non detentive”.
Il comma 4° dell'articolo 69 o.p. era una norma34 che, nella pratica, poneva non pochi problemi soprattutto per ciò che atteneva ai rapporti tra magistrato di sorveglianza e amministrazione carceraria. Tale comma prevedeva che il magistrato di sorveglianza approvasse il programma di trattamento35, e che il provvedimento a tal fine emesso fosse un ordine di servizio.
Lo stesso comma continuava, prevedendo che il magistrato di sorveglianza impartiva le disposizioni a suo giudizio necessarie per
33 A. MARGARA, Il magistrato di sorveglianza quale garante di conformità alla legge
dell'attività penitenziaria, in V. GREVI, Alternative alla detenzione e riforma penitenziaria, cit., p. 215. 34 In seguito alla Legge 10 ottobre 1986, n. 663, l'originario comma 4° è divenuto il comma 5°, parzialmente modificato, nel quale, come vedremo, non si parla di ordine di servizio, provvedimento che il Magistrato di sorveglianza non utilizza più, ma di decreto. 35 Il comma in esame fa riferimento al programma di trattamento «di cui al terzo comma dell'articolo 13», dove si stabilisce che, sulla base dell'osservazione e delle indicazioni in merito al trattamento rieducativo da effettuare, viene compilato, per ciascun condannato e internato, un programma modificabile a seconda delle esigenze nel corso dell'esecuzione.
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tutelare i diritti e gli interessi dei detenuti e internati, e per attuare la loro rieducazione.
Le attività "giurisdizionalizzate" che si svolgevano sia davanti all'organo monocratico, che davanti alla Sezione di sorveglianza, rivestivano, a seconda della materia, tre forme: ‐ il procedimento di sorveglianza; ‐ il procedimento di sicurezza; ‐ il procedimento degli incidenti di esecuzione36. 36 Lo schema generale di tale procedimento è stato ripreso da A. Margara, "Magistratura di sorveglianza", in G. Vassalli (a cura di), Dizionario di diritto e procedura penale, cit., pp. 621‐628.
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5. Reazioni critiche alla legge di riforma. Tensioni nei rapporti fra magistratura di sorveglianza e amministrazione penitenziaria
Almeno per quanto riguardava i primi anni di applicazione del nuovo ordinamento penitenziario si riscontrarono un certo impegno ed una seria collaborazione con i magistrati di sorveglianza da parte dei direttori degli stabilimenti carcerari affinché si potesse attuare al meglio la riforma penitenziaria. Questo dipese sostanzialmente da due fattori. Il primo era relativo alla crisi dell'istituzione carceraria che stava manifestandosi, come già rilevato, in quegli anni37. L'applicazione della legge di riforma venne probabilmente vista come mezzo per "risanare" gli istituti di pena, per allentare la tensione, molto forte, all'interno degli stessi. Il secondo fattore era strettamente legato al precedente. Lo "sfascio" che stava investendo le carceri, inevitabilmente, aveva coinvolto anche gli operatori penitenziari. I direttori riconobbero nella riforma uno strumento per riabilitare la propria funzione, soprattutto a livello sociale38.
Per questo si impegnarono attraverso iniziative e cooperazione con i magistrati di sorveglianza: avevano compreso che il carcere delineato dalla legge 354/1975 era completamente diverso dal carcere come
37 A. MARGARA, La magistratura di sorveglianza tra un carcere da rifiutare e una riforma da attuare, in E. BLOCH, G. GARRONE (a cura di), Il carcere dopo le riforme, Milano 1979, pp. 56‐57. 38
N. FRANCO, Magistrato di sorveglianza e amministrazione penitenziaria, in Quale
giustizia, 1978, p. 453.
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era in realtà, e indirizzarono la loro azione a favore del cambiamento. Anche parte del personale di custodia partecipò con impegno a questo tentativo di mutamento. Purtroppo, dopo questo iniziale entusiasmo, le circostanze portarono ad una inversione di tendenza. Fondamentalmente mancò il sostegno da parte degli organi centrali, ed anzi, sembrava che far parte di quella schiera di direttori penitenziari più entusiasti, o comunque più impegnati nel tentativo di attuare la riforma, certamente non favorisse avanzamenti di carriera.39
Un addetto alla direzione generale degli istituti di prevenzione e di pena, Guglielmo Nespoli40, poco dopo l'emanazione della legge di riforma, definì il magistrato di sorveglianza quale “dominus dell'intera vicenda penitenziaria”. Lo stesso autore parlava, poi, di “macroscopici e significativi spossessamenti subiti dallo Stato ‐ amministrazione” a favore dell'autorità giudiziaria di sorveglianza. Principalmente lo preoccupava la sottrazione all'amministrazione del potere di auto‐organizzarsi, attuata con la legge 354/1975. 39 N. FRANCO, Magistrato di sorveglianza e amministrazione penitenziaria, cit., p. 454. 40
G. NESPOLI, Ciò che resta allo Stato‐amministrazione dopo la legge sull'ordinamento
penitenziario, in Giustizia penale, 1976, p. 253 e ss.
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6. La “riforma della riforma”: la legge 10 ottobre 1986, n. 663 (c.d. legge Gozzini)
In materia di uffici di sorveglianza, nel decennio successivo all’emanazione della legge sull’ordinamento penitenziario “l'esigenza che si avverte in modo più acuto è quella di urgenti interventi riparatori che valgano a restituire un senso ed una dignità agli organi di sorveglianza, nel solco tracciato dalla (medesima) nuova normativa”41. Teniamo conto che in quegli anni era ancora operante il regime delle carceri di massima sicurezza, che durerà, da un punto di vista formale, fino al 1984 (anno nel quale si interruppe la reiterazione dei decreti applicativi dell'articolo 90 o.p.).
L'esistenza di simili carceri, e la sostanziale disapplicazione della normativa contenuta nella legge 354/1975, relativa al trattamento (sia penitenziario, che rieducativo), portarono alla conseguenza di una pressoché completa sottrazione di intere fasce di detenuti alla giurisdizione della magistratura di sorveglianza. Inoltre, fu solo nel 1982‐1983 che l'emergenza terrorismo diminuì. Le esigenze di prevenzione generale e di "repressione" della criminalità avevano stentato quindi per lungo tempo ad attenuarsi, e, di conseguenza, i principi ispiratori della legge 354/1975, non avevano ancora trovato
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C. Saltalamacchia, "Gli uffici dei magistrati di sorveglianza. Ipotesi di ristrutturazione", in C.S.M., Problemi attuali della magistratura di sorveglianza, cit., p. 69.
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piena attuazione, nonché completa accettazione nella coscienza civile e negli operatori del diritto.
Le problematiche che il magistrato di sorveglianza doveva affrontare erano, dopo quasi sette anni di pratica attuazione della legge del 1975, sempre le stesse. Sussistevano ancora complicazioni relative ai rapporti con l'amministrazione penitenziaria, mancavano i supporti necessari all'attività del magistrato di sorveglianza, l'osservazione della personalità del detenuto in istituto era quasi inesistente a causa della sproporzione tra personale a ciò adibito e numero dei detenuti ospitati all’interno degli stabilimenti. L'esigenza di una "riforma della riforma” andava affermandosi con maggiore urgenza.
Uno tra i primi segnali di questa tendenza in espansione nell’ambito esecutivo fu la legge 21 giugno 1985, n. 297 (che convertiva con modifiche il decreto‐legge 22 aprile 1985, n. 144), la quale stabilì una diminuzione del lasso di tempo che il detenuto doveva trascorrere in carcere, al fine di rendere possibile l'osservazione della personalità in un mese soltanto.
Si poteva vedere, quindi, come negli anni precedenti alla legge 663/1986 già si considerasse la pena detentiva come risposta sanzionatoria non universalmente adeguata ed idonea. Ci si rese conto della necessità di una certa differenziazione tra condannati e
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condannati, si ritenne che la società civile doveva essere maggiormente coinvolta nell'opera di ri‐socializzazione, e che il carcere doveva essere aperto ulteriormente.
Ciò che era mancato alla riforma del 1975, era stata una effettiva differenziazione all'interno degli istituti a seconda del condannato da considerare. La "diversificazione" di trattamento operata tramite la reiterazione automatica del decreto ministeriale 4 maggio 1977, non aveva seguito nessun criterio veramente preciso e rigoroso, e niente era stato modificato circa il trattamento penitenziario dei "pericolosi"; il trattamento, non solo rieducativo, bensì le stesse garanzie dei più fondamentali diritti personali, erano state semplicemente eliminate.
Un gruppo ristretto di individui particolarmente attenti alle problematiche penitenziarie, decise, già prima del 1984, che era il momento di compiere una riforma della materia della sicurezza. Questo piccolo comitato di "temerari" era costituito da Mario Gozzini, Alessandro Margara e Antonio Caponnetto.
Il disegno di legge venne presentato al Senato nel 1983, ma si dovette aspettare la successiva legislatura, durante la quale il disegno di legge fu immediatamente oggetto di lavoro della Commissione giustizia del Senato.
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Elemento caratterizzante i lavori della commissione giustizia sul disegno di legge in esame fu la fondamentale collaborazione del direttore generale dell'amministrazione penitenziaria, Nicolò Amato. Il direttore generale rispose ampiamente alle svariate domande postegli circa lo stato delle carceri, ed espresse la propria opinione circa le proposte che erano sul tavolo di lavoro della commissione giustizia42.
Circa l'iter della legge 663/1986, possiamo notare come, a differenza di ciò che accadde in sede di approvazione della legge 354/1975, vi fu una stretta collaborazione tra i diversi rami del Parlamento e tra gli addetti ai lavori, cioè i magistrati di sorveglianza e l’amministrazione penitenziaria. La presenza di “notevoli giuristi” in seno alla commissione giustizia del Senato, fu per qualcuno43 elemento determinante per tale collaborazione.
Ad un tratto, infatti, tra il 1984 e il 1985, il governo manifestò la volontà di allargare lo spettro di incidenza dei lavori in atto.
Il ministro Martinazzoli preferì, però, lavorare sul disegno di legge del senatore Mario Gozzini, anziché presentare un'autonoma proposta del governo: segno questo, inconfutabile, della consapevolezza della
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M. GOZZINI, Anche se con molte lacune, in Il Ponte, 1995, pp. 7‐8.
43 E. SOMMA, Premessa. Palingenesi, razionalizzazione, e «sperimentazione» nella novella
penitenziaria del 1986, in L. 10/10/1986 n. 663. Modifiche alla legge sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà,
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necessità di un intervento normativo rapido, non solo a causa dello scadere dell'applicazione dei decreti emanati ex art. 90 o.p. avutasi con l'ottobre del 1984, e quindi della necessità di regolamentare le carceri che, di fatto, permanevano di massima sicurezza, ma anche in relazione a tutto l'ordinamento penitenziario, in considerazione del mutato stato della criminalità, nonché del problema del sovraffollamento delle carceri.
Nel corso del 1986, il disegno di legge "rimbalzò" molto rapidamente da un ramo del Parlamento all'altro. Tutto ciò portò ad una approvazione molto celere di una legge, nata inizialmente come modifica di un singolo articolo della precedente legge 354/1975, divenuta poi un ampio intervento globale, che molto ha inciso sulla vita penitenziaria, sulle forme di esecuzione della pena, ma soprattutto ha ridisegnato (coadiuvata, in questo, dal nuovo codice di procedura penale) un nuovo ruolo per la magistratura di sorveglianza.
La legge 663/1986, con il suo articolo 20, è intervenuta modificando l'articolo 68 della legge 354/197544. Veniva eliminato qualsiasi richiamo al tribunale quale "sede" dell'ufficio di sorveglianza. Apparve ancor più chiaro il fatto che i tribunali presso i quali in realtà
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Vedremo più oltre come la legge 10 ottobre 1986, n. 663, sia intervenuta anche sotto il profilo della denominazione dell'organo collegiale di sorveglianza.
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gli uffici di sorveglianza si trovavano, svolgevano una funzione di determinazione meramente spaziale dell'ubicazione degli uffici stessi e dei limiti della loro giurisdizione.
Alcun nesso funzionale era riconoscibile. Ciò avveniva non più solo in base ad argomenti di carattere sistematico, giurisprudenziali o dottrinali45, bensì anche in base alla lettera della stessa norma fondamentale in materia di esecuzione penale.
Ciò che è mancato alla legge del 1986 è stato un intervento proprio sulla tabella A) allegata alla legge stessa. Era da più parti definita irrazionale l’ubicazione degli uffici di sorveglianza, spesso lontani dagli istituti di pena rientranti nella loro giurisdizione. Tale situazione portava i magistrati di sorveglianza ad essere dei giudici “itineranti”, con notevole dispendio di tempo ed energie, che meglio potevano essere impiegate46.
Niente di tutto questo è stato fatto con la legge in esame; le giurisdizioni rimasero, sostanzialmente, invariate, e con esse le problematiche che ne scaturivano.
45 Lo stesso C.S.M. si era pronunciato nel senso dell'erroneità dell'assunto in base al quale
gli uffici di sorveglianza sarebbero stati delle sezioni speciali, ulteriori rispetto a quelle ordinarie, dei tribunali presso i quali erano costituiti, e le sezioni di sorveglianza sezioni speciali della corte d'appello. Il C.S.M. sosteneva, quindi, la piena indipendenza degli organi giudiziari di sorveglianza nei confronti degli altri organi giudiziari presso i quali si trovavano; v. L. PEPINO, sub art. 20 l. 10/10/1986 n. 663 (Modifiche alla legge
sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), in Lp, 1987, p. 209.
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G. ZAPPA, Gli uffici dei magistrati di sorveglianza. Ipotesi di ristrutturazione, in C.S.M., Problemi attuali della magistratura di sorveglianza, cit., p. 93.
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Un'importante innovazione apportata, invece, dall'articolo 20 della legge 663/1986, riguardava le categorie di magistrati addetti agli uffici di sorveglianza. Il nuovo comma 2° dell'articolo 68 o.p., stabiliva che venissero assegnati agli uffici di sorveglianza, oltre ai già previsti magistrati di tribunale e di appello, anche magistrati di cassazione. Con la legge Gozzini la magistratura di sorveglianza acquisì poteri maggiori, sia in relazione all'esecuzione inframuraria, sia in relazione all'esecuzione penale attuata fuori dal carcere.
Questo ampliamento di competenze, raggiunto tramite un allargamento dell'incidenza di poteri già esistenti, nonché tramite l'inserimento di nuovi compiti, riguardava sia il giudice monocratico, che l'organo collegiale. Da un punto di vista unitario si poteva affermare che si era compiuta una razionalizzazione della distribuzione delle competenze in materia di esecuzione penale47, della quale la magistratura di sorveglianza risultava il principale motore ed il garante per eccellenza della sua legittimità e legalità. La funzione di vigilanza rimase invariata anche in relazione alla legalità dell'esecuzione della custodia preventiva.
L'attività in esame ha subì, invece, un ampliamento, per ciò che atteneva alle misure di sicurezza. Secondo l'articolo 69, comma 3°, o.p., come modificato dalla legge 663/1986, il magistrato di
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sorveglianza “sovraintende all'esecuzione delle misure di sicurezza personali”. Venne eliminata la specificazione “non detentive”: con tale modifica si attuava una delle razionalizzazioni di cui si è detto sopra e da questo momento il magistrato di sorveglianza, nell'esercizio della sua funzione di vigilanza sulle misure di sicurezza personali, non incontrava alcun limite relativo all'oggetto del suo controllo48.
Anche in materia di reclami dei detenuti concernenti “l'attribuzione della qualifica lavorativa, la mercede, la remunerazione nonché lo svolgimento delle attività di tirocinio e di lavoro e le assicurazioni sociali; le condizioni di esercizio del potere disciplinare, la costituzione e la competenza dell'organo disciplinare, la contestazione degli addebiti e la facoltà di discolpa”, previsti dal comma 6° dell'articolo 69 o.p., la legge 663/1986 intervenne in relazione al procedimento che il magistrato di sorveglianza doveva adottare per assumere una decisione, nonché in relazione alla forma che questa doveva rivestire.
Per quest'ultimo punto, l'art. 21 l. 663/1986 sostituì, ancora una volta, l'originario ordine di servizio con una ordinanza ricorribile in
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L. PEPINO, Commento (art. 21), in L. 10/10/1986 n. 663. Modifiche alla legge
sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà, in Legislazione penale, 1987, p. 214, con il quale si dichiara d'accordo F. DELLA
CASA, sub art. 69, in V. GREVI, G. GIOSTRA, F. DELLA CASA (a cura di), Ordinamento
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cassazione. Tale ordinanza era il provvedimento conclusivo della procedura prevista dall'articolo 14‐ter, espressamente richiamato dal comma in esame.
L'articolo 14‐ter, inserito dalla legge 663/1986, stabiliva una procedura ad hoc per i reclami contro l'applicazione o la proroga del regime di sorveglianza particolare, da presentarsi al tribunale di sorveglianza49. All'ultimo comma dell'articolo citato si trovava un richiamo, per ciò che non fosse espressamente disposto nella norma in esame, al procedimento di sorveglianza contenuto nel Capo II‐
bis del Titolo II della l. 354/1975.
Il magistrato di sorveglianza doveva essere “immediatamente” informato da parte del direttore dell'istituto o del centro di servizio sociale della sopravvenienza di un titolo di esecuzione di una pena detentiva, nei confronti di soggetti in espiazione di pena sotto la forma dell'affidamento in prova, della semilibertà o della detenzione domiciliare; l’organo monocratico di sorveglianza disponeva, inoltre, la sospensione provvisoria della misura alternativa.
Da questa panoramica sulle competenze principali del magistrato di sorveglianza, emerge come il suo ruolo, grazie alla legge 663/1986, si
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Il regime di sorveglianza particolare fu introdotto dalla legge 10 ottobre 1986, n. 663 con il suo articolo 1. È evidente, ed emergeva anche dall'iter legislativo della stessa legge, la volontà del legislatore di regolamentare con l'articolo 14‐bis (che, appunto disciplina la sorveglianza particolare) il problema della sicurezza in carcere nei confronti di soggetti che presentassero una certa incompatibilità alla vita in comune e insofferenza al rispetto delle regole di vita consociata, all'interno del carcere.
41
sia caratterizzato più nettamente in senso giurisdizionale, o per lo meno giudiziario. Il magistrato di sorveglianza interveniva sempre nel momento in cui si presentavano situazioni di particolare delicatezza concernenti limitazioni o espansioni della libertà del detenuto. Egli agiva quale garante dei diritti dei soggetti reclusi e quale giudice terzo tra questi e l'amministrazione. Era l'organo giudiziario che più da vicino osservava il percorso dei condannati. Sotto questo profilo la "legge Gozzini" intervenne ampliando competenze e incarichi già esistenti.
"Tribunale di sorveglianza" era la nuova denominazione dell'organo collegiale di sorveglianza50. La legge 663/1986 aveva aumentato notevolmente le funzioni e le competenze dell'organo collegiale. Oltre alle competenze “tradizionali” erano rinvenibili la competenza sulla concessione della detenzione domiciliare, quella in materia di liberazione condizionale, quella sul rinvio obbligatorio o facoltativo dell’esecuzione della pena detentiva51.
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Questa nuova denominazione è stata vista come «segnale di valorizzazione delle differenziazioni interne alla giurisdizione», v. L. PEPINO, Commento (art. 22), in L.
10/10/1986 n. 663. Modifiche alla legge sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà, in Legislazione penale, 1987, p. 222.
L'autore voleva sottolineare la volontà del legislatore di porre ben in evidenza la separatezza tra la corte d'appello e il tribunale di sorveglianza.
51
Con l'articolo 29 la Legge 10 ottobre 1986, n. 663 ha abrogato la Legge 12 febbraio 1975, n. 6, costitutiva della competenza in materia di liberazione condizionale, v. L. PEPINO, Commento (art. 22), cit., nota n. 12, p. 224