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Il procedimento per reclamo ex art. 35 bis o.p. Verso un'effettiva tutela dei diritti del detenuto?

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CAPITOLO PRIMO 

Profili storici. Dalla legislazione‐Rocco al codice di rito del 1988                      1.  La politica penitenziaria del primo dopoguerra come strumento  di consenso sociale     Negli anni successivi alla prima Guerra Mondiale si manifestarono, in  Europa e, in maniera molto marcata, anche in Italia, nuove teorie che  univano la concezione retributiva della pena, corollario del principio  di  responsabilità  individuale,  alla  concezione  che  affermava  la  pericolosità sociale del soggetto deviante e la necessità di introdurre  le misure di sicurezza1.

Successivamente, dagli anni 1921‐1922, la politica penitenziaria iniziò  un  progressivo  avvicinamento  alle  teorie  trattamentali.  Alcuni  dei  principi  della  scuola  positiva  vennero  trasfusi  in  circolari  ministeriali  nelle  quali,  ad  esempio,  i  detenuti  venivano  considerati  destinatari 

 

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non tanto di repressione quanto di cura, e la concessione dei colloqui  con il mondo esterno era meno ristretta2.

Con  l'avvento  del  fascismo,  si  ebbe  però  “una  netta  involuzione  sul  piano  del  trattamento  carcerario”3.  Il  regime  volle  rompere  con  qualsiasi “criterio di pietismo” nei confronti dei condannati alla pena  detentiva4,  introducendo  in  misura  abnorme  le  misure  di  sicurezza,  eliminando le attenuanti generiche, ripristinando in taluni casi anche  la pena di morte, e prevedendo la retroattività di alcune sanzioni. Giovanni  Novelli,  considerato  il  padre  della  "scienza  penitenziaria"  quale  disciplina  autonoma  dal  diritto  penale  e  processuale  penale,  nonché  fondatore  della  Rivista  italiana  di  diritto  penitenziario,  sottolineò  come  l'opinione  pubblica,  sotto  l'effetto  delle  notizie  relative  alla  materiale  esecuzione  delle  pene,  in  particolare  delle  notizie di abusi e atti arbitrari ai danni dei detenuti, avesse espresso  l'esigenza  di  un  controllo  particolare  su  questa  fase  di  attuazione  della potestà punitiva dello Stato5. 

Poiché  il  fascismo  voleva  farsi  universalmente  accettare,  e  divenire  un movimento di massa per meglio attuare il suo potere totalizzante,    2 E. FASSONE, La pena detentiva in Italia dall'800 alla riforma penitenziaria, Bologna, 1980,  p. 50.  3  E. FASSONE, La pena detentiva in Italia dall'800 alla riforma penitenziaria, cit., p. 53. 4

  Così  E.  ALTAVILLA,  La  parte  generale  del  codice  penale,  Napoli  1934,  citato  da  E.  FASSONE, La pena detentiva in Italia dall'800 alla riforma penitenziaria, cit., nota n. 150, p.  66. 

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  G.  NOVELLI,  "L'intervento  del  giudice  nell'esecuzione  penale",  in  Rivista  di  diritto 

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è  facile  pensare  che  le  concessioni  fatte  dal  legislatore  negli  anni  1930  e  1931,  come  ad  esempio  proprio  il  Giudice  di  sorveglianza  di  cui  ci  stiamo  occupando,  fossero  palliativi  utili  soltanto  ad  ottenere  consenso sociale e, quindi, obbedienza.

Conclusa  questa  ampia,  ma  doverosa,  contestualizzazione  è  comunque  indubbio  rilevare  che  l'introduzione  del  Giudice  di  sorveglianza,  e  tutto  ciò  che  essa  nel  tempo  ha  comportato,  rappresentò un passo in avanti nello sviluppo del diritto penitenziario  per come ancora oggi lo intendiamo.                                       

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2. La figura del giudice di sorveglianza nei codici‐Rocco e nel r.d. 18  giugno 1931, n. 787: primi segnali di garanzia per i detenuti   L'introduzione della figura del giudice di sorveglianza coincise, come  abbiamo sopra accennato, con l'approvazione da parte del Re d'Italia  Vittorio Emanuele III del nuovo codice penale del 1930, e del nuovo  codice di procedura penale del 1931, nonché con il regolamento per  gli  istituti  di  prevenzione  e  di  pena  approvato  con  R.D.  18  giugno  1931, n. 787.

La  nuova  concezione  della  pena  quale  strumento  retributivo,  e  allo  stesso  tempo  mezzo  di  riadattamento  sociale  del  detenuto,  aveva  due corollari: quello della individualizzazione della pena e quello del  riconoscimento  di  diritti  soggettivi  del  detenuto  in  quanto  persona  privata  della  libertà.  Sempre  secondo  questa  nuova  concezione  era  propria  della  pena  anche  un'utilità  sociale,  dato  che  la  finalità  rieducativa  era  strumentale  rispetto  alla  necessità  di  preservare  la  comunità da soggetti che si fossero dimostrati socialmente pericolosi.  Apparve evidente, sulla base delle enunciazioni di principio, anche se  non  sempre  pienamente  attuate,  la  ragione  dell'istituzione  dell'organo  del  giudice  di  sorveglianza:  chi  meglio  di  un  magistrato  avrebbe  potuto  risolvere  eventuali  contrasti  tra  l'amministrazione  penitenziaria  e  i  detenuti?  Chi  meglio  di  un  magistrato  avrebbe 

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5  potuto fornire quello strumento di garanzia sentito in quel momento  storico così necessario? Chi meglio di un magistrato avrebbe potuto  dare attuazione all'individualizzazione della pena, essendo oltretutto  previsto un obbligo di visita periodico agli istituti penitenziari? All'articolo 144 c.p., rubricato “Vigilanza sull'esecuzione delle pene”,  venne  previsto  che  l'esecuzione  delle  pene  detentive  dovesse  svolgersi  sotto  il  controllo  del  giudice.  Sembrò  chiara  e  netta  l'affermazione  della  competenza  di  un  organo  giurisdizionale  nel  momento  esecutivo  della  pena.  Tali  funzioni  dovevano  essere  esercitate presso  ciascun  tribunale  e  negli  altri  luoghi  designati, con  decreto  del  ministro  della  giustizia,  dal  giudice  di  sorveglianza  del  luogo in cui il condannato si trovava ad espiare la pena, a prescindere  dal  territorio  di  competenza  del  giudice  che  aveva  pronunciato  la  sentenza di condanna.

Ancor  più  chiara,  dunque,  risultava  essere  la  corrispondenza  territoriale  fra  il  luogo  di  espiazione  della  pena  e  il  territorio  geografico di competenza del giudice di sorveglianza. La scelta di un  tale  criterio  dimostrava,  inoltre,  quanto  la  materia  dell'esecuzione  fosse stata oggetto di studio ed analisi, sia da parte della dottrina, sia  da  parte  di  coloro  che  parteciparono  alla  stesura  dei  due  codici  considerati. 

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Indubbiamente, non possiamo sottovalutare che tale opzione venne  prescelta  anche  per  un  motivo  che  potremmo  definire  "pratico‐ funzionale", tenendo conto del fatto che durante la propria “carriera  penitenziaria”  ogni  detenuto  avrebbe  potuto  trovarsi  ad  essere  trasferito  in  diversi  stabilimenti  penitenziari  per  necessità  processuali,  sanitarie  o  per  ricostituire  legami  parentali.  Dunque  sarebbe  apparso  impossibile  attribuire  una  tale  competenza  al  giudice  dell'esecuzione,  competente  soltanto  per  il  luogo  in  cui  la  sentenza di condanna era stata emessa.

L'esigenza  di  garanzia  per  il  detenuto  veniva  rispettata  attraverso  l'articolo 4 del  regolamento  per gli  istituti  di  prevenzione  e  di  pena,  che  tra  l'altro  elencava  minuziosamente  le  singole  competenze  del  giudice di sorveglianza.

Si  stabiliva  che  l'organo  giudiziario  in  esame  avesse  l'obbligo  di  visitare ogni due mesi gli stabilimenti, ma non era proibito che queste  visite  fossero  più  frequenti.  Quest'ultima  affermazione  assumeva  maggior  valore  se  si  consideravano  le  spettanze  del  giudice  di  sorveglianza  che  richiedevano,  e  richiedono  tutt'oggi,  un  contatto  diretto con i detenuti, e viste le ragioni che avevano portato alla sua  istituzione.

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È  vero  che  la  realtà  delle  cose  è  stata  in  alcuni  casi,  e  lo  è  ancora,  diversa,  ma  nel  momento  della  creazione  di  questo  organo  è  da  ritenere che questo aspetto non fosse passato inosservato, anche se  l'accettazione di una tale istituzione non fu certo assoluta.

È  poi  interessante  sottolineare  come  immediatamente  dopo  l'emanazione  del  nuovo  codice  penale  si  avvertì  il  bisogno,  se  non  proprio  di  giustificare,  di  delimitare  esattamente  e  in  maniera  rigorosa  la  portata  di  una  tale  innovazione,  nell'ambito  della  fase  esecutiva  della  pena.  Questa  necessità  venne  sostenuta  fortemente  dal potere esecutivo, il quale, emanando il regolamento per gli istituti  di  prevenzione  e  di  pena,  determinò  meticolosamente  le  materie  di  competenza  del  giudice  di  sorveglianza,  e  le  forme  di  tale  competenza,  senza  lasciare  spazio  a  possibili  integrazioni  interpretative  di  natura  analogica.  Non  mancavano  certo  voci  favorevoli  alla  possibilità  di  allargare  in  via  interpretativa  le  competenze  del  giudice  di  sorveglianza6,  ma  la  maggior  parte  della  dottrina considerava l'elencazione contenuta nell'articolo 4 del citato  regolamento come tassativa. 

In  un  commento  al  codice  penale,  redatto  da  due  segretari  della  commissione ministeriale incaricata della riforma dello stesso codice, 

 

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 G. F. FALCHI, Le funzioni penitenziarie del giudice di sorveglianza, in Il pensiero giuridico 

penale,  Messina,  1934,  pp.  15‐16.  L'autore  affermava  lo  stesso  principio  in  materia  di 

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si leggeva poi la precisazione che l'istituzione di tale organo, nonché  le  sue  attribuzioni,  non  voleva  assolutamente  prefigurare  lo  scardinamento  del  principio  dell'immutabilità  della  pena,  sia  relativamente  alla  specie  di  questa,  sia  relativamente  alla  sua  durata7.  Vediamo  quindi  che,  nonostante  la  consapevolezza  della  necessità  e  della  utilità  del  giudice  di  sorveglianza,  lo  si  istituì  con  molta circospezione e cautela.

Le  funzioni  del  giudice  di  sorveglianza  erano  tripartite  in  funzioni  ispettive,  funzioni  deliberative  e  funzioni  consultive.  Per  quanto  riguarda  le  funzioni  ispettive  va  detto  che  queste  erano  la  manifestazione  di  un  potere  generale  di  "vigilanza"  sulla  retta  applicazione delle leggi e dei regolamenti all'interno degli stabilimenti  penitenziari, nei confronti dei detenuti. È da precisare, però, che tale  carattere  di  indeterminatezza  non  significava  che  il  giudice  di  sorveglianza  avesse  un  potere  di  vigilanza  globale  su  quello  che  avveniva all'interno degli istituti di prevenzione e di pena, senza sorta  di  limitazioni.  Egli  doveva  assicurarsi  della  regolarità  legale  e  regolamentare  solo  di  ciò  che  riguardava  il  detenuto:  assicurarsi,  cioè,  che  la  pena  venisse  regolarmente  applicata,  che  in  tale  applicazione  non  ci  fossero  eccessi  o  deficienze,  che  si  rimanesse 

 

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  C.  SALTELLI,  E.  R.  DI  FALCO, Commento  teorico‐pratico  del  nuovo  codice  penale,  Vol.  I,  parte seconda, Roma, 1930, p. 663 

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fedeli  a  ciò  che  era  stato  stabilito  nella  sentenza  di  condanna,  ma  anche  che  lo  stesso  detenuto  osservasse  le  norme  legislative  e  regolamentari  che  esplicavano  la  loro  efficacia  all'interno  degli  stabilimenti.

Proprio  queste  caratteristiche  del  potere  di  vigilanza  del  giudice  di  sorveglianza, strettamente connesso alla vita carceraria dei detenuti  condannati  nei  confronti  dei  quali  l'amministrazione  penitenziaria  attuava la potestà punitiva dello Stato, escludevano la competenza di  questo  organo  giudiziario  verso  detenuti  imputati,  non  ancora  condannati definitivamente. Essendo stato previsto un tale potere, si  sentì  la  necessità  di  precisare  quale  fosse  la  natura  dei  rapporti  intercorrenti  tra  i  giudici  di  sorveglianza  e  i  direttori  degli  istituti.  Basti  per  ora  evidenziare  che  si  affermò  molto  chiaramente  che  tra  questi  due  organi  non  esisteva,  né  sarebbe  potuta  instaurarsi,  una  gerarchia funzionale8.

Relativamente alle funzioni deliberative del giudice di sorveglianza si  poteva  notare  come,  nell'ambito  dell'esecuzione  delle  pene  detentive, queste rappresentassero la maggior parte delle funzioni di  tale  figura,  nonché  quelle  che  più  incidevano  sulla  quotidiana  vita  carceraria  dei  detenuti.  Le  funzioni  in  oggetto  riguardavano 

 

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 G. VELOTTI, Appunti sul giudice di sorveglianza, in Rassegna di studi penitenziari, 1971, p.  410;  sembrava  di  parere  concorde  G.  NOVELLI,  L'intervento  del  giudice  nell'esecuzione 

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essenzialmente  due  materie  di  natura  diversa.  Difatti  eravamo  in  grado  di  individuare  attribuzioni  deliberative  che  riguardavano  il  trattamento e la condizione dei detenuti, e quindi, sostanzialmente,  funzioni il cui esercizio andava a modificare lo stato penitenziario dei  reclusi,  e  attribuzioni  deliberative  che  direttamente  incidevano  su  diritti  soggettivi,  principalmente  di  natura  patrimoniale,  dei  detenuti9.

Per  mutamento  dello  stato  penitenziario  dei  reclusi  dovevano  intendersi le seguenti ipotesi:

variazione  della  condizione  psichica  o  fisica  del  detenuto  ex  art. 40 reg.;

‐ assegnazione  a  sezioni  speciali  degli  istituti  penitenziari  dei  detenuti di età compresa fra 18 e 25 anni ex art. 29 reg.;

‐ scelta sulla destinazione dei condannati per delitti non colposi  inizialmente  ristretti  in  celle  di  osservazione,  con  provvedimenti  di  proroga  dell'osservazione  in  isolamento,  oppure di trasferimento del condannato in case di punizione, o  di rigore, oppure in case per minorati fisici o psichici o, infine,  con provvedimenti di ammissione del soggetto medesimo alla  vita in comune;   9  D. MASTANDREA, Del giudice di sorveglianza. Esecuzione delle pene detentive, in Rivista  italiana di diritto penitenziario, 1931, p. 1537. 

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‐ assegnazione  del  condannato  ad  una  pena  superiore  ad  anni  cinque,  che  avesse  tenuto  buona  condotta,  a  stabilimenti  di  riadattamento sociale, e relativo provvedimento di revoca; ‐ possibilità  di  ordinare  il  ricovero  del  detenuto  presso  un 

manicomio giudiziario, o in una casa di ricovero o di custodia  nel caso in cui fosse sopravvenuta un'infermità psichica o fisica  tale  da  rendere  impossibile  la  prosecuzione  della  normale  detenzione;

‐ competenza  a  dichiarare  l'inammissibilità  delle  richieste  di  liberazione  condizionale  che  risultassero  manifestamente  infondate.

Per quanto riguarda, infine, le funzioni consultive attribuite al giudice  di sorveglianza l'articolo 4, comma 3°, reg., e l'articolo 144, comma 2°  c.p.,  prevedevano  gli  unici  due  casi  in  cui  veniva  richiesto  obbligatoriamente il parere del giudice stesso:

‐ ammissione  alla  liberazione  condizionale10,  basando  il  parere  sulla  personale  conoscenza  del  detenuto,  ma  anche  sulle  informazioni  e  sui  dati  che  egli  assumeva  tramite  le  cartelle  biografiche e i rapporti informativi delle autorità carcerarie11;

 

10 In base al R.D. 28 maggio 1931, n. 602, art. 43, competente a concedere la liberazione 

condizionale era, in ogni caso, il ministro della giustizia.

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  D.  MASTANDREA,  Del  giudice  di  sorveglianza.  Esecuzione  delle  pene  detentive,  cit.,  p.  1544. 

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‐ procedimento  per  la  concessione,  attraverso  regio  decreto,  della grazia.

E'  importante  sottolineare  che  in  tali  ipotesi  l'assunzione  del  parere  del  giudice  di  sorveglianza  era  condizione  necessaria  per  la  legittimità,  e  per  la  regolarità  formale  dei  provvedimenti  che  dovevano essere emessi, ma per quanto riguardava il contenuto dei  provvedimenti stessi tale parere non era vincolante: non ci si doveva,  cioè, conformare necessariamente ad esso12.                                       12 G. F. FALCHI, Le funzioni penitenziarie del giudice di sorveglianza, cit., p. 30. 

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3.  Il periodo di transizione dal secondo dopoguerra al 1975. I primi  tentativi di riforma dell’ordinamento penitenziario 

 

Nonostante  i  profondi  mutamenti  storici,  politici  ed  istituzionali  verificatisi  in  Italia  dopo  la  fine  del  secondo  conflitto  mondiale,  le  norme  riguardanti  il  sistema  penitenziario  rimasero  formalmente  invariate fino al 1975. Dopo la caduta del fascismo, la proclamazione  della Repubblica e dopo l'emanazione della Costituzione, continuò la  vigenza del codice penale, così come del codice di procedura penale,  e  del  regolamento  penitenziario.  Tutti,  naturalmente,  con  parziali  modificazioni relative agli elementi di natura spiccatamente fascista,  che furono in qualche modo soppressi. 

Gli  anni  immediatamente  successivi  alla  liberazione  erano  caratterizzati  da  un  altissimo  indice  di  criminalità,  da  carceri  sovraffollate13  e  da  un'opinione  pubblica  poco  attenta,  come  era  naturale  per  una  società  impegnata  nella  ricostruzione  dopo  un  conflitto  bellico,  alle  condizioni  di  vita  dei  detenuti.  Ciò  era  comprensibile,  date  le  difficili  circostanze  in  cui  si  trovava  la  popolazione,  essa  stessa  afflitta  da  problemi  di  sopravvivenza  quotidiana.

 

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  E.  FASSONE, La  pena  detentiva  in  Italia  dall'800  alla  riforma  penitenziaria,  cit.,  p.  69,  nonché  G.  NEPPI  MODONA,  Appunti  per  una  storia  parlamentare  della  riforma 

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Per i governi di Togliatti e Gullo, fra la prima metà del '45 e la prima  metà  del  '47,  le  preoccupazioni  relative  al  sistema  penitenziario  erano  quindi  considerate  secondarie,  anche  da  un  punto  di  vista  politico.  Inoltre  il  carcere  veniva  ritenuto  in  quegli  anni  il  miglior  "luogo di soggiorno" per i criminali fascisti14.

I  giuristi  d'ispirazione  cattolica  fecero  nuovamente  sentire  la  loro  voce,  precedentemente  soffocata  dal  fascismo,  forti  anche  della  crescente  importanza  del  partito  della  Democrazia  cristiana.  Essi  sostenevano, relativamente alla pena, la funzione di purificazione del  colpevole,  creando  ancora  una  volta,  come  era  accaduto  durante  il  regime,  anche  se  con  motivazioni  diverse,  una  fusione  tra  diritto  e  morale15.

Ma la funzione rieducativa della pena non era ancora un concetto del  tutto  accettato.  È  vero  che  tale  concetto  era  stato  inserito  nella  Costituzione  all'articolo  27,  comma  3°,  ma  proprio  i  lavori  dell'Assemblea  costituente  relativi  alla  stesura  di  tale  norma  dimostravano  la  cautela  e  la  diffidenza  nei  confronti  di  una  simile  affermazione nell'ambito della legge fondamentale dello Stato. 

Durante  la  discussione  non  mancarono,  infatti,  voci  contrarie  all'inserimento  nella  Carta  costituzionale  della  finalità  rieducativa 

 

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 E. FASSONE, La pena detentiva in Italia dall'800 alla riforma penitenziaria, cit., p. 69. 

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della  pena;  si  espresse,  ad  esempio,  il  timore  che  un  tale  dettato  avrebbe  potuto  portare  all'eliminazione  della  funzione  retributiva16.  Queste opposizioni provenivano, però, da parti diverse e in maniera  disorganica: non vi era, quindi, un netto ed organizzato schieramento  di  opposizione.  Probabilmente  anche  il  fatto  che  alcuni  membri  dell'Assemblea  avessero  personalmente  avuto  esperienze  di  vita  nelle carceri del regime, e che, quindi, conoscessero le condizioni e la  realtà  nelle  quali  vivevano  i  detenuti,  ha  fatto  sì  che  l'affermazione  della funzione rieducativa della pena, ma anche del senso di umanità  cui essa deve ispirarsi, fossero principi stabiliti dalla Costituzione. Nel 1948 venne istituita una commissione parlamentare d'inchiesta, e  le  venne  attribuito  l'incarico  di  “indagare,  vigilare  e  riferire  al  Parlamento  relativamente  alle  condizioni  dei  detenuti,  e  ai  mezzi  utilizzati all'interno delle carceri al fine di assicurare la disciplina nelle  stesse”. Al  termine  dei  lavori  (21  dicembre  1950)  la  commissione  parlamentare presentò delle proposte che poco si discostavano da un  regolamento  precedentemente  elaborato  a  livello  ministeriale  nel  1947.  Gli  unici  aspetti  innovativi  contenuti  nella  proposta  della  commissione  parlamentare  furono  quelli  relativi  a  brevi  licenze,  a  diminuzioni  della  pena,  a  rappresentanze  di  detenuti  interne  alle 

 

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  G.  NEPPI  MODONA,  Appunti  per  una  storia  parlamentare  della  riforma  penitenziaria,  cit., p. 326. 

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carceri, e, fatto molto importante, una "raccomandazione" diretta ai  capi  delle  Corti  d'appello  di  non  attribuire  ai  giudici  di  sorveglianza  incarichi diversi da quelli della sorveglianza medesima17.

Una  maggiore  accettazione  della  funzione  rieducativa  della  pena  si  ebbe  solo  nella  seconda  metà  degli  anni  '50,  in  un  quadro  politico  parzialmente  mutato,  vista  la  presenza  più  incisiva  all’interno  delle  assemblee parlamentari delle forze di sinistra. In questi anni si pose  maggiore  attenzione  alla  prevenzione  speciale,  anche  perché  le  condizioni  di  vita  "in  ambiente  libero",  erano  migliorate.  L'Italia  in  quegli  anni  era  attraversata  da  un  notevole  benessere  materiale,  il  processo di ricostruzione post‐bellica poteva dirsi concluso, e quindi  anche  le  condizioni  di  vita  "in  ambiente  chiuso",  cioè  negli  istituti  penitenziari, potevano migliorare18.

Si andava affermando in quegli anni un filone di pensiero secondo il  quale  doveva  porsi  molta  attenzione  nei  confronti  della  personalità  del soggetto, e quindi la retribuzione non poteva essere considerata  finalità esclusiva della pena. Si cominciava a parlare di una flessibilità  dell'esecuzione, necessaria all'efficacia dell'attività rieducativa19.

 

17  G.  NEPPI  MODONA,  Appunti  per  una  storia  parlamentare  della  riforma  penitenziaria, 

cit.,  pp.  330‐331.  Va  precisato  che  all'epoca  non  era  previsto  il  divieto  del  cumulo  di  funzioni. 

18 E. FASSONE, La pena detentiva in Italia dall'800 alla riforma penitenziaria, cit., pp. 88‐89.  19

 E. FASSONE, La pena detentiva in Italia dall'800 alla riforma penitenziaria, cit., pp. 91‐92,  dove  l'autore  riporta  il  pensiero  di  Pietro  Nuvolone,  secondo  il  quale  essendo  l'imputabilità  la  categoria  legale  tramite  la  quale  si  rileva  la  capacità  del  soggetto  ad 

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17 

      

Tale  percorso  proseguì  fino  all'inizio  degli  anni  '60:  fu  proprio  nel  1960 che venne presentato il primo progetto di riforma penitenziaria  dal  ministro  di  grazia  e  giustizia  Guido  Gonnella  alla  Camera  col  disegno di legge n. 239320. Una delle maggiori innovazioni contenute  nel disegno di legge in esame era rappresentata dalla previsione di un  aumento dei poteri dell'autorità giudiziaria in ambito penitenziario; si  propose  l'istituzione  di  uffici  di  sorveglianza,  composti  da  magistrati  cui  non  avrebbero  dovuto  essere  attribuite  altre  funzioni.  Si  considerò  anche  una  certa  forma  limitata  di  semilibertà,  per  pene  superiori  ai  cinque  anni  con  concessione  del  beneficio  nell'ultimo  anno  di  espiazione,  e  di  permessi,  concedibili  solo  al  fine  di  permettere  ai  detenuti  di  visitare  familiari  che  si  trovassero  in  imminente pericolo di vita21.

Il  Parlamento  non  prese  mai  in  esame  il  disegno  di  legge  Gonnella,  poiché decadde per la fine della legislatura nel 1963. Deve comunque  dirsi che proprio dal 1960 ebbe inizio il lungo e difficile processo che  porterà poi alla legge 26 luglio 1975, n. 354.

 

adeguarsi  ai  precetti  normativi,  e  non  potendo  ottenere  una  valutazione  esatta  di  tale  capacità,  né  l'eventuale  influsso  di  elementi  esterni  all'individuo,  non  può  concepirsi  la  pena in termini esclusivamente retributivi. Sia la retribuzione, che la rieducazione, devono  essere considerate esigenze logiche della pena. 

20 M. BUONAMANO, La riforma penitenziaria al Parlamento. Osservazioni e indicazioni, in 

Rivista di studi penitenziari, 1973, p. 173 

21

  G.  NEPPI  MODONA,  Appunti  per  una  storia  parlamentare  della  riforma  penitenziaria,  cit., p. 340. 

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18 

Nel 1968 Gonnella fu nuovamente nominato Ministro della giustizia.  Egli rielaborò il precedente progetto di legge e lo presentò al Senato.  Furono, però, necessari due anni perché la legge venisse discussa in  commissione giustizia del Senato, e da questa assemblea approvata.  Per  quale  motivo  l'esame  di  un  disegno  di  legge  non  così  differente  dai  precedenti  richiese  un  lasso  di  tempo  così  lungo  rimane  ancora  oggi  ignoto:  molto  probabilmente  non  si  considerava  la  riforma  "urgente".  Per  chi  governava  il  paese,  forse,  il  carcere  e,  più  in  generale,  l'intero  sistema  dell'amministrazione  penitenziaria  erano  settori funzionanti dello Stato.

In  realtà,  al  di  fuori  di  questa  visione  burocratica,  la  riforma  era  tutt'altro  che  un  atto  da  rimandare.  La  situazione  che  andava  creandosi nelle carceri italiane a cavallo tra gli anni '60 e gli anni '70,  era proprio il sintomo della necessità di un cambiamento. 

Il disegno di legge n. 538, approvato dal Senato nel 1971, conteneva  delle  modifiche  rispetto  all'originario  testo  governativo.  Tra  queste  ricordiamo  la  previsione  degli  interventi  del  magistrato  di  sorveglianza  in  forma  giurisdizionale  per  ciò  che  atteneva  alla  modificazione delle pene e delle misure di sicurezza. Inoltre, degna di  nota, era anche la previsione della competenza di tale magistrato in  tema  di  concessione  della  liberazione  condizionale  (proposta  che 

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19         

implicava  la  sottrazione  di  tale  competenza  al  ministro  di  grazia  e  giustizia). La previsione di una forma contenziosa per la semilibertà,  per le licenze concedibili ai soggetti in tale regime, per la liberazione  anticipata  e  per  quella  condizionale,  nonché  per  la  remissione  del  debito  per  spese  di  giustizia,  portavano  inevitabilmente  a  parlare  della  flessibilità  dell'esecuzione  della  pena,  necessaria,  come  sostenne  Marcello  Buonamano22,  allora  ispettore  generale  nell'amministrazione  penitenziaria,  per  l'applicazione  sostanziale  dell'articolo 27, comma 3°, della Costituzione. 

Lo  stesso  Marcello  Buonamano  non  accettava,  però,  che  la  giurisdizionalizzazione  dell'esecuzione  penale  implicasse  maggiori  poteri  per  il  magistrato  di  sorveglianza,  potremmo  dire  di  "interferenza"  con  l'attività  svolta  dall'amministrazione  carceraria.  Erano previste infatti, per il magistrato di sorveglianza, talune attività  amministrative  in  posizione  di  supremazia  nei  confronti  dell'amministrazione carceraria23.

Ma anche per questo disegno di legge si ripeté l'iter dei precedenti:   decadde a causa della fine di legislatura.

 

22  M.  BUONAMANO,  La  riforma  penitenziaria  al  Parlamento.  Osservazioni  e  indicazioni, 

cit., pp. 180‐182‐ 

23

 L'autore non concepisce altri poteri attribuiti al Magistrato di sorveglianza nel disegno di  legge  del  Senato,  tra  i  quali  ad  esempio  quello  di  autorizzare  la  censura  della  corrispondenza, o quello di vigilare sulla custodia preventiva. Naturalmente, relativamente  alle modificazioni introdotte dal disegno di legge in esame, ci si limita ad indicare quelle  che  più  riguardano  i  rapporti  fra  magistrato  di  sorveglianza  e  amministrazione  penitenziaria. 

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20         

4. Iil nuovo ordinamento introdotto con la l. 26 luglio 1975, n. 354. Il  diverso ruolo del magistrato di sorveglianza 

 

Nel  corso  della  VI  legislatura  si  ripartì,  nel  processo  di  riforma  dell’ordinamento  penitenziario,  dalla  Commissione  giustizia  del  Senato:  correva  l'anno  1973.  Nel  passaggio  del  disegno  di  legge  alla  Camera  molti  deputati  dichiararono  la  necessità  di  procedere  rapidamente  all'approvazione  della  legge  di  riforma,  ma  vi  fu  chi,  come  l'onorevole  Padula  (DC),  si  schierò  nettamente  contro  ad  un  tale  atteggiamento,  manifestando  forti  perplessità  proprio  nei  confronti degli "ampi" poteri che venivano attribuiti dal disegno legge  al  magistrato  di  sorveglianza24.  Da  questo  momento  in  poi  i  lavori  dell’aula della Camera furono caratterizzati da una netta inversione di  tendenza.  Si  neutralizzarono,  quasi  completamente,  gli  avanzamenti  ottenuti  in  Senato,  e  la  stessa  maggioranza  parlamentare  si  schierò  contro i principi più innovativi della legge di riforma. 

Al Senato non rimase che approvare il testo di legge predisposto dalla  Camera,  anche  se  profondamente  modificato,  per  evitare  ulteriori  ritardi  nella  emanazione  di  una  legge  di  riforma  quanto  mai  necessaria.

 

24

  G.  NEPPI  MODONA,  Appunti  per  una  storia  parlamentare  della  riforma  penitenziaria,  cit., p. 357. 

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21         

Per  ciò  che  atteneva  in  modo  specifico  alla  magistratura  di  sorveglianza  e  alle  competenze  attribuitele  dalla  legge  354/1975,  si  doveva  sottolineare  l'affermazione,  da  parte  della  Corte  costituzionale, per mezzo della sentenza 27 giugno 1974, n. 20425, di  un basilare principio relativo alla funzione rieducativa della pena, e al  controllo  giurisdizionale  sull'esecuzione  della  stessa,  che  avrebbe  dovuto caratterizzare l'opera della Magistratura di sorveglianza, e che  avrebbe dovuto creare un'ulteriore "legittimazione", oltre l'art. 27, 3°  comma, Cost., alla sua attività. 

La  legge  354/1975  venne  suddivisa  in  due  titoli:  il  primo  rubricato  “Trattamento  penitenziario”;  il  secondo  rubricato  “Disposizioni  relative  all'organizzazione  penitenziaria”.  Il  capo  secondo  di  tale  titolo, dedicato alla magistratura di sorveglianza, era titolato “giudici  di sorveglianza”26: questa apparve fin da subito una reminiscenza del  sistema  penitenziario  delineato  dai  codici  Rocco  e  dal  regolamento  del  1931,  poiché  nelle  singole  norme  della  legge  di  riforma  tale  organo viene indicato come “magistrato di sorveglianza”.

 

25  Vedi infra cap. II.  26

  G.  DI  GENNARO,  M.  BONOMO,  R.  BREDA,  Ordinamento  penitenziario  e  misure 

alternative  alla  detenzione,  2°  ed.,  Milano  1980,  pp.  309  e  ss.,  nonché  MINISTERO  DI 

GRAZIA E GIUSTIZIA (a cura del), Ordinamento penitenziario. Misure preventive e limitative 

della libertà. Legge e regolamento. Disposizioni complementari, Milano 1977, pp. 29 e ss.;  Lex. Legislazione italiana, anno LXI, Parte I, Torino, 1975, pp. 1366 e ss. Tale dizione verrà 

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22         

Con  l'articolo  68  si  istituirono  gli  uffici  di  sorveglianza  presso  i  tribunali esistenti nelle sedi di cui alla tabella A allegata alla legge; le  circoscrizioni  dei  tribunali  rappresentavano  l'area  territoriale  che  ricadeva sotto la giurisdizione di ogni singolo ufficio di sorveglianza. Gli  uffici  di  sorveglianza  dovevano  essere  considerati  quali  entità  autonome, sia da un punto di vista organizzativo, che da un punto di  vista amministrativo. Anche la stessa previsione della costituzione di  tali uffici “presso i tribunali esistenti”, doveva essere intesa come una  mera  indicazione  spaziale,  e  non  nel  senso  che  gli  uffici  di  sorveglianza  facessero  parte  del  tribunale  presso  il  quale  erano  costituiti27.

Tali  uffici  appartenevano  all'amministrazione  giudiziaria.  Se  si  considerava, poi, che l'istituzione degli Uffici in questione rispose alla  necessità  di  prevedere  un  organo  esterno  all'amministrazione,  competente  in  materia  di  controllo  sull'attuazione  della  legge  penitenziaria,  risultava  evidente  l'impossibilità  di  considerarli  parte  dell'organizzazione penitenziaria. 

Circa le motivazioni per le quali vennero previsti e istituiti gli uffici di  sorveglianza, queste furono individuate nella volontà di far rientrare  la  fase  dell'esecuzione  penale  nell'ambito  della  competenza  e 

 

27

  A.  MARGARA,  Magistratura  di  sorveglianza,  in  G.  VASSALLI  (a  cura  di),  Dizionario  di 

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23         

dell'organizzazione, appunto, dell'autorità giudiziaria, e nella volontà  di  modificare  sostanzialmente  il  carattere  della  fase  esecutiva.  Questa  era  stata,  infatti,  precedentemente  strutturata  in  maniera  tale  da  risultare  statica;  nel  1975  si  volle  creare  una  fase  esecutiva  nuova, dinamica, tesa a dare attuazione alla previsione costituzionale  della  finalità  rieducativa  della  pena,  senza  però  creare  un  processo  bifasico, composto, cioè, da due diverse fasi decisionali autonome28. “I  magistrati  addetti  agli  uffici  di  sorveglianza  non  devono  essere  adibiti ad altre funzioni giudiziarie”: come abbiamo visto nel capitolo  precedente, una tale previsione non figurava né nel codice penale, né  nel  codice  di  procedura  penale  Rocco,  e  neanche  nel  regolamento  per  gli  istituti  di  prevenzione  e  pena.  I  giudici  di  sorveglianza,  potevano quindi essere adibiti ad altre funzioni, e questo portava tale  autorità  giudiziaria  a  doversi  destreggiare  tra  i  suoi  innumerevoli  compiti, con grave danno all'efficienza ed efficacia della sua azione in  ambito  penitenziario.  Probabilmente è  proprio  questo  ciò  di  cui  si  è  tenuto conto nel momento in cui si inserì una tale norma all'interno  della legge. È poi indubbio che con la legge 354/1975, le funzioni e le 

 

28 A. MARGARA, Magistratura di sorveglianza, in G. Vassalli (a cura di), Dizionario di diritto 

e procedura penale, cit., pp. 608‐609, nonché dello stesso autore, Relazione. Parte prima.  Considerazioni  generali  sulle  attività  degli  uffici  di  sorveglianza,  in  C.S.M, Diritto  penitenziario e misure alternative, (Grottaferrata, 25‐30/03/1979), Roma 1979, p. 27, e Il  magistrato  di  sorveglianza  quale  garante  di  conformità  alla  legge  dell'attività  penitenziaria,  in  V.  Grevi  (a  cura  di),  Alternative  alla  detenzione  e  riforma  penitenziaria, 

Bologna, 1982, p. 204.   

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24 

competenze  del  magistrato  di  sorveglianza  siano  aumentate,  e  che  quindi  anche  questo  dato  abbia  influito  sulla  considerazione  della  necessità di liberarlo da qualsiasi funzione diversa da quella, appunto,  di "sorveglianza".

La  magistratura  di  sorveglianza  era  una  magistratura  specializzata,  ma  la  specializzazione  non  si  otteneva  tanto  tramite  studi  o  preparazioni  universitarie  particolari.  Anzi,  da  questo  punto  di  vista  sarebbe  necessario  prevedere  una  maggiore  preparazione  criminologica, psicologica e pedagogica, per coloro che sceglievano, o  accettavano  un  incarico  nella  magistratura  di  sorveglianza:  preparazione  allora  quasi  inesistente.  Bensì  la  specializzazione  si  doveva  conseguire  con  la  pratica,  con  la  conoscenza  dei  detenuti  e  della realtà in cui essi vivevano, della realtà in cui dovevano tornare a  vivere. Quindi adibire temporaneamente un magistrato d'appello o di  tribunale,  esterno  "alla  sorveglianza",  alla  funzione  di  magistrato  di  sorveglianza, poteva portare a gravi conseguenze, sia per i detenuti,  sia per la società, sia per il "sostituto" stesso che si sarebbe trovato  ad affrontare difficili situazioni.

Sempre  con  la  legge  354/1975  i  poteri  e  le  competenze  della  magistratura  di  sorveglianza,  sia  nella  sua  attività  di  organo  monocratico  che  in  quella  di  membro  di  un  organo  collegiale,  sono 

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25 

stati  sensibilmente  aumentati.  L'intervento  della  citata  autorità  giudiziaria si presentava potenzialmente molto più incisivo rispetto a  quello  del  giudice  di  sorveglianza  previsto  dai  codici  Rocco.  Questo  dipese  anche  dall'introduzione  nell'ordinamento  penitenziario  di  istituti  quali,  a  titolo  d'esempio,  l'affidamento  in  prova  o  la  semilibertà, e dalla volontà di "giurisdizionalizzare" la fase esecutiva  del processo penale.  

Appariva  quindi  inevitabile  che  il  "vecchio"  giudice  di  sorveglianza  acquistasse,  oltre  ad  una  nuova  nomenclatura,  quella  di  magistrato,  anche nuove forme e nuove competenze.  

Per quanto concerneva le attribuzioni del magistrato di sorveglianza,  venne  introdotta  la  sezione  di  sorveglianza,  competente  circa  la  concessione delle misure alternative. Questo portava alla sottrazione  dalla  competenza  del  magistrato  di  sorveglianza,  proprio  delle  materie  che  rappresentavano  la  maggior  parte  delle  vicende  modificative  delle  modalità  di  esecuzione  delle  pene  detentive,  materie  che,  quindi,  incidevano  profondamente  sulla  libertà  dell'individuo.  Venne  sostenuto  che  le  attribuzioni  dell'organo  monocratico  contenute  nella  legge  di  riforma  dell'ordinamento  penitenziario,    erano  espressione  di  una  “concezione del  magistrato  di sorveglianza essenzialmente quale organo di garanzia della legalità 

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26         

nell'esecuzione della sanzione detentiva di tipo tradizionale, sia pure  in  un'ottica  più  spiccatamente  ispirata  alla  finalità  della  rieducazione”29.

L'articolo  che,  invece,  si  occupava  delle  funzioni  del  magistrato  di  sorveglianza, quale organo monocratico, era l'articolo 69 della legge  di riforma.Al comma 1° di tale norma, si statuiva che “il magistrato di  sorveglianza “vigila sull'organizzazione degli istituti [...] e prospetta al  ministro le esigenze dei vari servizi”.

Il  comma  2°  dell'articolo  in  esame  stabiliva  quali  erano  le  funzioni  esercitate dal magistrato di sorveglianza nei confronti degli imputati.  L'autorità giudiziaria citata doveva vigilare al fine di assicurare che la  custodia di questi soggetti venisse eseguita “in conformità delle leggi  e dei regolamenti”30. Tali previsioni erano espressione della necessità  di  un  controllo  da  parte  di  un  organo  esterno,  terzo,  sulla  retta  applicazione della legge all'interno delle carceri.  

Il controllo del magistrato di sorveglianza non doveva, inoltre, essere  inteso  solo  come  mezzo  per  assicurare  unicamente  la  legalità  dell'attività  penitenziaria,  ma  doveva  intendersi  comprensivo  anche  di  una  valutazione  di  merito,  in  quanto  si  trattava  di  “valutare  la 

 

29

  F.  BRICOLA,  L'intervento  del  giudice  nell'esecuzione  delle  pene  detentive:  profili 

giurisdizionali e profili amministrativi, in Studi in onore di Biagio Petrocelli, Tomo I, Milano, 

1972, pp. 307‐308. 

30

  F.  BRICOLA,  L'intervento  del  giudice  nell'esecuzione  delle  pene  detentive:  profili 

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27         

funzionalità dell'azione penitenziaria rispetto al raggiungimento degli  scopi che le devono essere propri”31. 

Uno  tra  i  principali  di  tali  scopi  era  l'attuazione,  nei  confronti  di  detenuti e internati, di un trattamento rieducativo32.  

L'esercizio di una simile funzione era basato su mezzi di conoscenza  rappresentati,  innanzitutto,  dalla  stessa  iniziativa  del  magistrato  di  sorveglianza,  tramite  visite,  esame  di  documenti,  colloqui  ecc.,  ma  anche  la  comunicazione  automatica  dell'autorità  carceraria  al  magistrato  di  sorveglianza  di  tutti  gli  atti  compiuti,  relativi  all'organizzazione e al funzionamento dei servizi.  

Il  2°  comma  dell'articolo  69  o.p.  si  occupava,  come  già  si  è  sottolineato,  delle  funzioni  esercitate  dal  magistrato  di  sorveglianza  nei confronti degli imputati. Tale magistrato doveva vigilare al fine di  assicurare  che  la  custodia  di  questi  soggetti  venisse  eseguita  “in  conformità  delle  leggi  e  dei  regolamenti”.  In  relazione  a  questo  comma,  si  doveva  procedere  al  collegamento  con  l'articolo  15,  comma  2°  o.p.,  nel  quale  si  affermava  che  gli  imputati  potevano  essere  ammessi  a  partecipare  ad  attività  educative,  culturali,  lavorative  o  di  formazione  professionale,  in  seguito  ad  una  loro 

  31   G. DI GENNARO, Il giudice nell'esecuzione penitenziaria, cit., p. 8.  32  Il potere di controllo in esame, nonostante la generica dizione dell'articolo 69, non può  esplicarsi sugli istituti di carcerazione preventiva, poiché nei confronti degli imputati non  può  parlarsi  di  trattamento  rieducativo.  L'articolo  1,  in  relazione  al  trattamento  rieducativo, parla infatti solo di “condannati e internati”. 

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28         

richiesta,  salvo  che  l'autorità  giudiziaria  competente  non  ritenesse  opportuna  la  partecipazione  (autorità  che  poteva  essere  anche  il  magistrato di sorveglianza in accordo con l'autorità procedente33).  Anche nell'ambito del nuovo ordinamento penitenziario, il magistrato  di  sorveglianza  aveva  competenza  in  materia  di  misure  di  sicurezza.  Infatti  al  comma  3°  dell'articolo  69  si  stabiliva  che  il  magistrato  di  sorveglianza  “sovrintende  all'esecuzione  delle  misure  di  sicurezza  personali non detentive”.

Il  comma  4°  dell'articolo  69  o.p.  era  una  norma34  che,  nella  pratica,  poneva  non  pochi  problemi  soprattutto  per  ciò  che  atteneva  ai  rapporti tra magistrato di sorveglianza e amministrazione carceraria.  Tale comma prevedeva che il magistrato di sorveglianza approvasse il  programma  di  trattamento35,  e  che  il  provvedimento  a  tal  fine  emesso fosse un ordine di servizio.  

Lo  stesso  comma  continuava,  prevedendo  che  il  magistrato  di  sorveglianza  impartiva  le  disposizioni  a  suo  giudizio  necessarie  per 

 

33  A.  MARGARA,  Il  magistrato  di  sorveglianza  quale  garante  di  conformità  alla  legge 

dell'attività penitenziaria, in V. GREVI,  Alternative alla detenzione e riforma penitenziaria,  cit., p. 215.  34 In seguito alla Legge 10 ottobre 1986, n. 663, l'originario comma 4° è divenuto il comma  5°, parzialmente modificato, nel quale, come vedremo, non si parla di ordine di servizio,  provvedimento che il Magistrato di sorveglianza non utilizza più, ma di decreto.  35  Il comma in esame fa riferimento al programma di trattamento «di cui al terzo comma  dell'articolo  13»,  dove  si  stabilisce  che,  sulla  base  dell'osservazione  e  delle  indicazioni  in  merito al trattamento rieducativo da effettuare, viene compilato, per ciascun condannato  e  internato,  un  programma  modificabile  a  seconda  delle  esigenze  nel  corso  dell'esecuzione. 

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tutelare i diritti e gli interessi dei detenuti e internati, e per attuare la  loro rieducazione.  

Le  attività  "giurisdizionalizzate"  che  si  svolgevano  sia  davanti  all'organo  monocratico,  che  davanti  alla  Sezione  di  sorveglianza,  rivestivano, a seconda della materia, tre forme:   ‐ il procedimento di sorveglianza;   ‐ il procedimento di sicurezza;   ‐ il procedimento degli incidenti di esecuzione36.                                          36 Lo schema generale di tale procedimento è stato ripreso da A. Margara, "Magistratura  di sorveglianza", in G. Vassalli (a cura di), Dizionario di diritto e procedura penale, cit., pp.  621‐628.   

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5.  Reazioni  critiche  alla  legge  di  riforma.  Tensioni  nei  rapporti  fra  magistratura di sorveglianza e amministrazione penitenziaria 

 

Almeno per quanto riguardava i primi anni di applicazione del nuovo  ordinamento penitenziario si riscontrarono un certo impegno ed una  seria  collaborazione  con  i  magistrati  di  sorveglianza  da  parte  dei  direttori  degli  stabilimenti  carcerari  affinché  si  potesse  attuare  al  meglio  la  riforma  penitenziaria.  Questo  dipese  sostanzialmente  da  due  fattori.  Il  primo  era  relativo  alla  crisi  dell'istituzione  carceraria  che  stava  manifestandosi,  come  già  rilevato,  in  quegli  anni37.  L'applicazione della legge di riforma venne probabilmente vista come  mezzo  per  "risanare"  gli  istituti  di  pena,  per  allentare  la  tensione,  molto  forte,  all'interno  degli  stessi.  Il  secondo  fattore  era  strettamente legato al precedente. Lo "sfascio" che stava investendo  le  carceri,  inevitabilmente,  aveva  coinvolto  anche  gli  operatori  penitenziari. I direttori riconobbero nella riforma uno strumento per  riabilitare la propria funzione, soprattutto a livello sociale38.  

Per questo si impegnarono attraverso iniziative e cooperazione con i  magistrati di sorveglianza: avevano compreso che il carcere delineato  dalla  legge  354/1975  era  completamente  diverso  dal  carcere  come 

  37  A. MARGARA, La magistratura di sorveglianza tra un carcere da rifiutare e una riforma  da attuare, in E. BLOCH, G. GARRONE (a cura di), Il carcere dopo le riforme, Milano 1979,  pp. 56‐57.  38

  N.  FRANCO,  Magistrato  di  sorveglianza  e  amministrazione  penitenziaria,  in Quale 

giustizia, 1978, p. 453. 

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era in realtà, e indirizzarono la loro azione a favore del cambiamento.  Anche  parte  del  personale  di  custodia  partecipò  con  impegno  a  questo  tentativo  di  mutamento.  Purtroppo,  dopo  questo  iniziale  entusiasmo, le circostanze portarono ad una inversione di tendenza.  Fondamentalmente mancò il sostegno da parte degli organi centrali,  ed  anzi,  sembrava  che  far  parte  di  quella  schiera  di  direttori  penitenziari più entusiasti, o comunque più impegnati nel tentativo di  attuare  la  riforma,  certamente  non  favorisse  avanzamenti  di  carriera.39 

Un  addetto  alla  direzione  generale  degli  istituti  di  prevenzione  e  di  pena,  Guglielmo  Nespoli40,  poco  dopo  l'emanazione  della  legge  di  riforma,  definì  il  magistrato  di  sorveglianza  quale  “dominus  dell'intera  vicenda  penitenziaria”.  Lo  stesso  autore  parlava,  poi,  di  “macroscopici  e  significativi  spossessamenti  subiti  dallo  Stato  ‐ amministrazione”  a  favore  dell'autorità  giudiziaria  di  sorveglianza.  Principalmente lo preoccupava la sottrazione all'amministrazione del  potere di auto‐organizzarsi, attuata con la legge 354/1975.        39  N. FRANCO, Magistrato di sorveglianza e amministrazione penitenziaria, cit., p. 454.  40

  G.  NESPOLI,  Ciò  che  resta  allo  Stato‐amministrazione  dopo  la  legge  sull'ordinamento 

penitenziario, in Giustizia penale, 1976, p. 253 e ss. 

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32         

6. La “riforma della riforma”: la legge 10 ottobre 1986, n. 663 (c.d.  legge Gozzini) 

 

In  materia  di  uffici  di  sorveglianza,  nel  decennio  successivo  all’emanazione della legge sull’ordinamento penitenziario “l'esigenza  che  si  avverte  in  modo  più  acuto  è  quella  di  urgenti  interventi  riparatori che valgano a restituire un senso ed una dignità agli organi  di  sorveglianza,  nel  solco  tracciato  dalla  (medesima)  nuova  normativa”41. Teniamo conto che in quegli anni era ancora operante  il regime delle carceri di massima sicurezza, che durerà, da un punto  di  vista  formale,  fino  al  1984  (anno  nel  quale  si  interruppe  la  reiterazione dei decreti applicativi dell'articolo 90 o.p.).  

L'esistenza  di  simili  carceri,  e  la  sostanziale  disapplicazione  della  normativa  contenuta  nella  legge  354/1975,  relativa  al  trattamento  (sia  penitenziario,  che  rieducativo),  portarono  alla  conseguenza  di  una  pressoché  completa  sottrazione  di  intere  fasce  di  detenuti  alla  giurisdizione  della  magistratura  di  sorveglianza.  Inoltre,  fu  solo  nel  1982‐1983  che  l'emergenza  terrorismo  diminuì.  Le  esigenze  di  prevenzione  generale  e  di  "repressione"  della  criminalità  avevano  stentato  quindi  per  lungo  tempo  ad  attenuarsi,  e,  di  conseguenza,  i  principi ispiratori della legge 354/1975, non avevano ancora trovato 

 

41

  C. Saltalamacchia, "Gli uffici dei magistrati di sorveglianza. Ipotesi di ristrutturazione",  in C.S.M., Problemi attuali della magistratura di sorveglianza, cit., p. 69. 

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33 

piena attuazione, nonché completa accettazione nella coscienza civile  e negli operatori del diritto. 

Le problematiche che il magistrato di sorveglianza doveva affrontare  erano,  dopo  quasi  sette  anni  di  pratica  attuazione  della  legge  del  1975, sempre le stesse. Sussistevano ancora complicazioni relative ai  rapporti  con  l'amministrazione  penitenziaria,  mancavano  i  supporti  necessari  all'attività  del  magistrato  di  sorveglianza,  l'osservazione  della personalità del detenuto in istituto era quasi inesistente a causa  della sproporzione tra personale a ciò adibito e numero dei detenuti  ospitati all’interno degli stabilimenti. L'esigenza di una "riforma della  riforma” andava affermandosi con maggiore urgenza. 

Uno tra i primi segnali di questa tendenza in espansione nell’ambito  esecutivo  fu  la  legge  21  giugno  1985,  n.  297  (che  convertiva  con  modifiche il decreto‐legge 22 aprile 1985, n. 144), la quale stabilì una  diminuzione del lasso di tempo che il detenuto doveva trascorrere in  carcere, al fine di rendere possibile l'osservazione della personalità in  un mese soltanto. 

Si  poteva  vedere,  quindi,  come  negli  anni  precedenti  alla  legge  663/1986  già  si  considerasse  la  pena  detentiva  come  risposta  sanzionatoria  non  universalmente  adeguata  ed  idonea.  Ci  si  rese  conto  della  necessità  di  una  certa  differenziazione  tra  condannati  e 

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34 

condannati,  si  ritenne  che  la  società  civile  doveva  essere  maggiormente  coinvolta  nell'opera  di  ri‐socializzazione,  e  che  il  carcere doveva essere aperto ulteriormente. 

Ciò  che  era  mancato  alla  riforma  del  1975,  era  stata  una  effettiva  differenziazione all'interno degli istituti a seconda del condannato da  considerare.  La  "diversificazione"  di  trattamento  operata  tramite  la  reiterazione automatica del decreto ministeriale 4 maggio 1977, non  aveva seguito nessun criterio veramente preciso e rigoroso, e niente  era  stato  modificato  circa  il  trattamento  penitenziario  dei  "pericolosi";  il  trattamento,  non  solo  rieducativo,  bensì  le  stesse  garanzie  dei  più  fondamentali  diritti  personali,  erano  state  semplicemente eliminate. 

Un  gruppo  ristretto  di  individui  particolarmente  attenti  alle  problematiche  penitenziarie,  decise,  già  prima  del  1984,  che  era  il  momento  di  compiere  una  riforma  della  materia  della  sicurezza.  Questo  piccolo  comitato  di  "temerari"  era  costituito  da  Mario  Gozzini, Alessandro Margara e Antonio Caponnetto. 

Il  disegno  di  legge  venne  presentato  al  Senato  nel  1983,  ma  si  dovette aspettare la successiva legislatura, durante la quale il disegno  di  legge  fu  immediatamente  oggetto  di  lavoro  della  Commissione  giustizia del Senato. 

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35         

Elemento  caratterizzante  i  lavori  della  commissione  giustizia  sul  disegno  di  legge  in  esame  fu  la  fondamentale  collaborazione  del  direttore generale dell'amministrazione penitenziaria, Nicolò Amato.  Il  direttore  generale  rispose  ampiamente  alle  svariate  domande  postegli  circa  lo  stato  delle  carceri,  ed  espresse  la  propria  opinione  circa  le  proposte  che  erano  sul  tavolo  di  lavoro  della  commissione  giustizia42. 

Circa l'iter della legge 663/1986, possiamo notare come, a differenza  di ciò che accadde in sede di approvazione della legge 354/1975, vi fu  una  stretta  collaborazione  tra  i  diversi  rami  del  Parlamento  e  tra  gli  addetti ai lavori, cioè i magistrati di sorveglianza e l’amministrazione  penitenziaria.  La  presenza  di  “notevoli  giuristi”  in  seno  alla  commissione  giustizia  del  Senato,  fu  per  qualcuno43  elemento  determinante per tale collaborazione.  

Ad  un  tratto,  infatti,  tra  il  1984  e  il  1985,  il  governo  manifestò  la  volontà di allargare lo spettro di incidenza dei lavori in atto. 

Il ministro Martinazzoli preferì, però, lavorare sul disegno di legge del  senatore  Mario  Gozzini,  anziché  presentare  un'autonoma  proposta  del governo: segno questo, inconfutabile, della consapevolezza della 

 

42

  M. GOZZINI, Anche se con molte lacune, in Il Ponte, 1995, pp. 7‐8. 

43  E. SOMMA, Premessa. Palingenesi, razionalizzazione, e «sperimentazione» nella novella 

penitenziaria  del  1986,  in  L.  10/10/1986  n.  663.  Modifiche  alla  legge  sull'ordinamento  penitenziario  e  sulla  esecuzione  delle  misure  privative  e  limitative  della  libertà, 

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36         

necessità  di  un  intervento  normativo  rapido,  non  solo  a  causa  dello  scadere  dell'applicazione  dei  decreti  emanati  ex  art.  90  o.p.  avutasi  con  l'ottobre  del  1984,  e  quindi  della  necessità  di  regolamentare  le  carceri che, di fatto, permanevano di massima sicurezza, ma anche in  relazione  a  tutto  l'ordinamento  penitenziario,  in  considerazione  del  mutato  stato  della  criminalità,  nonché  del  problema  del  sovraffollamento delle carceri.  

Nel corso del 1986, il disegno di legge "rimbalzò" molto rapidamente  da  un  ramo  del  Parlamento  all'altro.  Tutto  ciò  portò  ad  una  approvazione  molto  celere  di  una  legge,  nata  inizialmente  come  modifica  di  un  singolo  articolo  della  precedente  legge  354/1975,  divenuta  poi  un  ampio  intervento  globale,  che  molto  ha  inciso  sulla  vita  penitenziaria,  sulle  forme  di  esecuzione  della  pena,  ma  soprattutto ha ridisegnato (coadiuvata, in questo, dal nuovo codice di  procedura  penale)  un  nuovo  ruolo  per  la  magistratura  di  sorveglianza. 

La legge 663/1986, con il suo articolo 20, è intervenuta modificando  l'articolo  68  della  legge  354/197544.  Veniva  eliminato  qualsiasi  richiamo  al  tribunale  quale  "sede"  dell'ufficio  di  sorveglianza.  Apparve ancor più chiaro il fatto che i tribunali presso i quali in realtà 

 

44

 Vedremo più oltre come la legge 10 ottobre 1986, n. 663, sia intervenuta anche sotto il  profilo della denominazione dell'organo collegiale di sorveglianza. 

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gli  uffici  di  sorveglianza  si  trovavano,  svolgevano  una  funzione  di  determinazione meramente spaziale dell'ubicazione degli uffici stessi  e dei limiti della loro giurisdizione. 

Alcun nesso funzionale era riconoscibile. Ciò avveniva non più solo in  base  ad  argomenti  di  carattere  sistematico,  giurisprudenziali  o  dottrinali45,  bensì  anche  in  base  alla  lettera  della  stessa  norma  fondamentale in materia di esecuzione penale. 

Ciò che è mancato alla legge del 1986 è stato un intervento proprio  sulla  tabella  A)  allegata  alla  legge  stessa.  Era  da  più  parti  definita  irrazionale  l’ubicazione  degli  uffici  di  sorveglianza,  spesso  lontani  dagli istituti di pena rientranti nella loro giurisdizione. Tale situazione  portava i magistrati di sorveglianza ad essere dei giudici “itineranti”,  con  notevole  dispendio  di  tempo  ed  energie,  che  meglio  potevano  essere impiegate46. 

Niente  di  tutto  questo  è  stato  fatto  con  la  legge  in  esame;  le  giurisdizioni  rimasero,  sostanzialmente,  invariate,  e  con  esse  le  problematiche che ne scaturivano.  

 

45 Lo stesso C.S.M. si era pronunciato nel senso dell'erroneità dell'assunto in base al quale 

gli  uffici  di  sorveglianza  sarebbero  stati  delle  sezioni  speciali,  ulteriori  rispetto  a  quelle  ordinarie,  dei  tribunali  presso  i  quali  erano  costituiti,  e  le  sezioni  di  sorveglianza  sezioni  speciali  della  corte  d'appello.  Il  C.S.M.  sosteneva,  quindi,  la  piena  indipendenza  degli  organi  giudiziari  di  sorveglianza  nei  confronti  degli  altri  organi  giudiziari  presso  i  quali  si  trovavano;  v.  L.  PEPINO,  sub  art.  20  l.  10/10/1986  n.  663  (Modifiche  alla  legge 

sull'ordinamento  penitenziario  e  sulla  esecuzione  delle  misure  privative  e  limitative  della  libertà), in Lp, 1987, p. 209. 

46

  G.  ZAPPA,  Gli  uffici  dei  magistrati  di  sorveglianza.  Ipotesi  di  ristrutturazione,  in  C.S.M., Problemi attuali della magistratura di sorveglianza, cit., p. 93. 

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38         

Un'importante  innovazione  apportata,  invece,  dall'articolo  20  della  legge  663/1986,  riguardava  le  categorie  di  magistrati  addetti  agli  uffici di sorveglianza. Il nuovo comma 2° dell'articolo 68 o.p., stabiliva  che venissero assegnati agli uffici di sorveglianza, oltre ai già previsti  magistrati di tribunale e di appello, anche magistrati di cassazione.  Con  la  legge  Gozzini  la  magistratura  di  sorveglianza  acquisì  poteri  maggiori, sia in relazione all'esecuzione inframuraria, sia in relazione  all'esecuzione penale attuata fuori dal carcere. 

Questo  ampliamento  di  competenze,  raggiunto  tramite  un  allargamento  dell'incidenza  di  poteri  già  esistenti,  nonché  tramite  l'inserimento di nuovi compiti, riguardava sia il giudice monocratico,  che  l'organo  collegiale.  Da  un  punto  di  vista  unitario  si  poteva  affermare  che  si  era  compiuta  una  razionalizzazione  della  distribuzione  delle  competenze  in  materia  di  esecuzione  penale47,  della  quale  la  magistratura  di  sorveglianza  risultava  il  principale  motore ed il garante per eccellenza della sua legittimità e legalità.  La  funzione  di  vigilanza  rimase  invariata  anche  in  relazione  alla  legalità dell'esecuzione della custodia preventiva. 

L'attività  in  esame  ha  subì,  invece,  un  ampliamento,  per  ciò  che  atteneva  alle  misure  di  sicurezza.  Secondo  l'articolo  69,  comma  3°,  o.p.,  come  modificato  dalla  legge  663/1986,  il  magistrato  di 

 

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sorveglianza  “sovraintende  all'esecuzione  delle  misure  di  sicurezza  personali”.  Venne  eliminata  la  specificazione  “non  detentive”:  con  tale  modifica  si  attuava  una  delle  razionalizzazioni  di  cui  si  è  detto  sopra  e  da  questo  momento  il  magistrato  di  sorveglianza,  nell'esercizio della sua funzione di vigilanza sulle misure di sicurezza  personali,  non  incontrava  alcun  limite  relativo  all'oggetto  del  suo  controllo48. 

Anche  in  materia  di  reclami  dei  detenuti  concernenti  “l'attribuzione  della  qualifica  lavorativa,  la  mercede,  la  remunerazione  nonché  lo  svolgimento  delle  attività  di  tirocinio  e  di  lavoro  e  le  assicurazioni  sociali;   le  condizioni  di  esercizio  del  potere  disciplinare,  la  costituzione  e  la  competenza  dell'organo  disciplinare,  la  contestazione  degli  addebiti  e  la  facoltà  di  discolpa”,  previsti  dal  comma  6°  dell'articolo  69  o.p.,  la  legge  663/1986  intervenne  in  relazione  al  procedimento  che  il  magistrato  di  sorveglianza  doveva  adottare per assumere una decisione, nonché in relazione alla forma  che questa doveva rivestire.  

Per  quest'ultimo  punto,  l'art.  21  l.  663/1986  sostituì,  ancora  una  volta,  l'originario  ordine  di  servizio  con  una  ordinanza  ricorribile  in 

 

48

  L.  PEPINO,  Commento  (art.  21),  in  L.  10/10/1986  n.  663.  Modifiche  alla  legge 

sull'ordinamento  penitenziario  e  sulla  esecuzione  delle  misure  privative  e  limitative  della  libertà,  in Legislazione  penale,  1987,  p.  214,  con  il  quale  si  dichiara  d'accordo  F.  DELLA 

CASA,  sub  art.  69,  in  V.  GREVI,  G.  GIOSTRA,  F.  DELLA  CASA  (a  cura  di), Ordinamento 

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cassazione.  Tale  ordinanza  era  il  provvedimento  conclusivo  della  procedura prevista dall'articolo 14‐ter, espressamente richiamato dal  comma in esame. 

L'articolo  14‐ter,  inserito  dalla  legge  663/1986,  stabiliva  una  procedura ad hoc per i reclami contro l'applicazione o la proroga del  regime  di  sorveglianza  particolare,  da  presentarsi  al  tribunale  di  sorveglianza49.  All'ultimo  comma  dell'articolo  citato  si  trovava  un  richiamo, per ciò che non fosse espressamente disposto nella norma  in  esame,  al  procedimento  di  sorveglianza  contenuto  nel  Capo  II‐

bis del Titolo II della l. 354/1975. 

Il  magistrato  di  sorveglianza  doveva  essere  “immediatamente”  informato  da  parte  del  direttore  dell'istituto  o  del  centro  di  servizio  sociale  della  sopravvenienza  di  un  titolo  di  esecuzione  di  una  pena  detentiva,  nei  confronti  di  soggetti  in  espiazione  di  pena  sotto  la  forma dell'affidamento in prova, della semilibertà o della detenzione  domiciliare; l’organo monocratico di sorveglianza disponeva, inoltre,  la sospensione provvisoria della misura alternativa. 

Da  questa  panoramica  sulle  competenze  principali  del  magistrato  di  sorveglianza, emerge come il suo ruolo, grazie alla legge 663/1986, si 

 

49

   Il  regime  di  sorveglianza  particolare  fu  introdotto dalla  legge 10  ottobre  1986,  n. 663  con il suo articolo 1. È evidente, ed emergeva anche dall'iter legislativo della stessa legge,  la volontà del legislatore di regolamentare con l'articolo 14‐bis (che, appunto disciplina la  sorveglianza particolare) il problema della sicurezza in carcere nei confronti di soggetti che  presentassero una certa incompatibilità alla vita in comune e insofferenza al rispetto delle  regole di vita consociata, all'interno del carcere. 

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sia  caratterizzato  più  nettamente  in  senso  giurisdizionale,  o  per  lo  meno giudiziario. Il magistrato di sorveglianza interveniva sempre nel  momento  in  cui  si  presentavano  situazioni  di  particolare  delicatezza  concernenti  limitazioni  o  espansioni  della  libertà  del  detenuto.  Egli  agiva  quale  garante  dei  diritti  dei  soggetti  reclusi  e  quale  giudice  terzo  tra  questi  e  l'amministrazione.  Era  l'organo  giudiziario  che  più  da vicino osservava il percorso dei condannati. Sotto questo profilo la  "legge  Gozzini"  intervenne  ampliando  competenze  e  incarichi  già  esistenti. 

"Tribunale  di  sorveglianza"  era  la  nuova  denominazione  dell'organo  collegiale  di  sorveglianza50.  La  legge  663/1986  aveva  aumentato  notevolmente  le  funzioni  e  le  competenze  dell'organo  collegiale.  Oltre  alle  competenze  “tradizionali”  erano  rinvenibili  la  competenza  sulla  concessione  della  detenzione  domiciliare,  quella  in  materia  di  liberazione  condizionale,  quella  sul  rinvio  obbligatorio  o  facoltativo  dell’esecuzione della pena detentiva51. 

 

50

  Questa  nuova  denominazione  è  stata  vista  come  «segnale  di  valorizzazione  delle  differenziazioni  interne  alla  giurisdizione»,  v.  L.  PEPINO,  Commento  (art.  22),  in  L. 

10/10/1986 n. 663. Modifiche alla legge sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione  delle  misure  privative  e  limitative  della  libertà,  in Legislazione  penale,  1987,  p.  222. 

L'autore  voleva  sottolineare  la  volontà  del  legislatore  di  porre  ben  in  evidenza  la  separatezza tra la corte d'appello e il tribunale di sorveglianza. 

51

  Con  l'articolo  29  la  Legge  10  ottobre  1986,  n.  663  ha  abrogato  la  Legge  12  febbraio  1975,  n.  6,  costitutiva  della  competenza  in  materia  di  liberazione  condizionale,  v.  L.  PEPINO, Commento (art. 22), cit., nota n. 12, p. 224 

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