Un impulso forte e deciso verso la progressiva giurisdizionalizzazione della tutela dei diritti del detenuto è venuto nella storia recente e meno recente dalla Corte costituzionale, la quale è intervenuta anche in casi di specie nettamente diversi gli uni dagli altri, con sentenze interpretative di rigetto e di accoglimento, ed ancora, con sentenze additive di principio. L’elemento comune della giurisprudenza costituzionale in materia è stata proprio la tematica specifica che rappresenta il fulcro del presente lavoro: il diritto ad una tutela giurisdizionale in tutte quelle “controversie” che vengono ad instaurarsi fra l’amministrazione penitenziaria ed i soggetti che si trovano ristretti in carcere, sia in via cautelare che a seguito di condanna definitiva.
Già nel 1974, ancor prima dell’approvazione della legge 356/1975, la Corte costituzionale ha avuto modo di esprimersi, con particolare riguardo all’indebita ingerenza che, secondo i giudici costituzionali, si andava verificando relativamente al potere esecutivo nei confronti del potere giurisdizionale. Nel caso di specie, con ordinanza datata 24 gennaio 1972, il giudice di sorveglianza presso il tribunale di Pisa sollevò, nel corso del procedimento iniziato con domanda di revoca
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della misura di sicurezza di assegnazione ad una casa di lavoro, una questione di legittimità costituzionale relativamente a diverse disposizioni del codice di procedura penale. In particolare si ritenne fondato, e dunque ammissibile, il dubbio circa la compatibilità ‐ con i principi di cui agli artt. 2, 3, 13, 25, 111, 102, 110 della Costituzione ‐ dell'articolo 207, ultimo comma, c.p. il quale attribuiva al ministro di grazia e giustizia il potere di revocare le misure di sicurezza anche prima che fosse decorso il tempo corrispondente alla durata minima fissata dalla legge, affermandosi che tale potere sarebbe andato al di là di quelli accordati al ministro dall'art. 110, ed avrebbe integrato una indebita ingerenza del potere esecutivo nell'esercizio della funzione giurisdizionale. Nelle motivazioni della sentenza si ritenne che la norma fosse viziata di irrazionalità e si ponesse in contrasto con i valori "ineliminabili" della persona e della libertà umane.
Veniva quindi dichiarata l'illegittimità costituzionale dell'articolo 207, 3° comma, c.p., e la declaratoria di illegittimità costituzionale della norma impugnata si estendeva per necessaria consequenzialità a quella contenuta nel secondo comma dello stesso articolo che poneva il divieto di revocare la misura di sicurezza prima che fosse decorso il tempo corrispondente alla durata minima stabilita dalla legge. Ne derivava che spettava al giudice il potere di revoca delle
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misure di sicurezza ‐ ove fosse accertata la cessazione dello stato di pericolosità (art. 207, comma primo, c.p.).
Qualche anno dopo, nel 1979, venne sollevata questione di legittimità costituzionale dell'art. 589, 5° comma, c.p.p.. In questo caso si ebbe a che fare con la riserva della sospensione dell'esecuzione della pena all'esclusiva ed insindacabile competenza del ministro della giustizia, per asserito contrasto con gli artt. 3, 24 e 25 della Costituzione. Il pretore ritenne tale questione rilevante ai fini del decidere, in quanto a norma della disposizione impugnata egli sarebbe stato incompetente a conoscere dell'istanza di scarcerazione. La norma in questione risultò in contrasto con l'art. 13 Cost., il quale prescrive un atto motivato dell'autorità giudiziaria per qualsiasi restrizione della libertà personale, e con l'art. 24 Cost., che garantisce il diritto di difesa, carente nella specie di fronte al potere discrezionale del ministro, in ogni stato e grado del procedimento. Al ministro della giustizia era così consentito, in violazione dell'art. 102 Cost., di interferire in una funzione che doveva, invece, essere propria dell'ordine giudiziario. Si ritenne nell’occasione offeso anche il principio di eguaglianza, consacrato nell'art. 3 Cost., perché la stessa facoltà di differimento dell'esecuzione della pena, attribuita al ministro dopo che
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l'espiazione fosse iniziata, spettava invece agli organi giudiziari prima che l'ordine di carcerazione fosse eseguito, con il risultato che il trattamento del condannato veniva a mutare, da un caso all'altro, secondo un arbitrario ed irragionevole criterio discrezionale.
La Corte come abbiamo già avuto modo di esaminare, aveva già dichiarato, in riferimento all'art. 13, comma 1°, Cost., l'illegittimità costituzionale di altre disposizioni di legge, le quali conferivano al Ministro della giustizia poteri sotto vario riguardo interferenti nell'ambito in cui devono operare la riserva di competenza degli organi giudiziari, e la connessa tutela della libertà personale: il potere di revocare ex art. 207, comma ultimo, c.p., le misure di sicurezza, prima che sia decorso il tempo corrispondente alla durata minima fissata dalla legge (sentenza n. 110 del 1974), nonché il potere di concedere, ex art. 43 del r.d. 28 maggio 1931, n. 602, la liberazione condizionale prevista e regolata nell'art. 176 c.p. (sentenza n. 204 del 1974). Quest'orientamento venne riaffermato nel presente giudizio anche per altre considerazioni. Come nei casi decisi con le pronunce sopra citate, così nella specie, si ritenne che il potere attribuito al ministro non traesse alcun fondamento dalle regole costituzionali (artt. 107 e 110 Cost.), che a questo organo riconoscevano espressamente certe attribuzioni, sempre, però, sul presupposto che
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egli fosse soltanto un membro del Governo, responsabile dell'organizzazione e dei servizi del suo dicastero.
Era principio di civiltà giuridica, si specificò, che al condannato fosse riconosciuta la titolarità di situazioni soggettive attive, e garantita quella parte di personalità umana, che la pena non doveva intaccare. Tale principio è stato accolto nel nostro ordinamento con l'art. 27, comma 3°, Cost.; ed era allora, alla luce di questo precetto che, nel caso in esame, andava considerato il trattamento del condannato. L'espiazione della pena offendeva il senso di umanità, al quale era manifestamente ispirata la citata statuizione costituzionale. D'altra parte, qui si trattava di un rinvio facoltativo dell'esecuzione della pena: agli organi giudiziari spettava pur sempre una competenza discrezionale, diversamente dalle altre ipotesi in cui, secondo il codice penale, detto rinvio era obbligatorio. Il che implicava che gli organi competenti fossero chiamati non soltanto a verificare la presenza delle condizioni richieste dalla legge perché venisse sospesa l'esecuzione della pena, ma anche ad apprezzare opportunamente le ragioni giustificative della sospensione ‐ nella specie, la grave infermità fisica dell'interessato ‐ in rapporto ad altre considerazioni, le quali potevano di volta in volta rilevare per il provvedimento da emettere.
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I giudici rimettenti la questione si trovarono comunque di fronte ad un provvedimento che, sia se concedeva sia se negava il rinvio dell'esecuzione della pena, avrebbe nella sfera della libertà personale del soggetto. La tutela giurisdizionale della posizione soggettiva del condannato discendeva, dunque, da questa natura dell'atto riservato agli organi giudiziari, e dalla conseguente applicabilità, nel nostro caso, dei rimedi previsti dal codice di procedura penale.
I giudici della consulta affermarono anche in questa occasione che la sospensione dell'esecuzione della pena doveva necessariamente ricadere nell'ambito di competenza dell'autorità giudiziaria, e che la sospensione medesima fosse circondata dalle garanzie connesse con l'esercizio della giurisdizione, dichiarando l’illegittimità costituzionale dell'art. 589, comma 5°, c.p.p., nella parte in cui attribuiva al ministro della giustizia il potere di sospendere l'esecuzione della pena, quando l'ordine di carcerazione del condannato fosse già stato eseguito. Negli anni successivi dottrina e giurisprudenza continuarono ad interrogarsi sul funzionamento del magistrato di sorveglianza, inteso come organo istituzionale posto a garanzia di un trattamento quantomeno “umano” all’interno degli istituti penitenziari.
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Secondo un'opinione abbastanza diffusa tra quanti hanno preferito ritirarsi nel loro “guscio corazzato di giurisdizionalità”114, l'accesso al carcere del magistrato di sorveglianza si riduceva ad una vuota liturgia, posto che i detenuti utilizzavano regolarmente l'incontro con il giudice "penitenziario" solo per chiedere informazioni circa la futura concessione di un permesso o di una misura alternativa115. A voler seguire sino in fondo questo ragionamento, si doveva concludere che gli stessi detenuti dimostravano di non avvertire l'esigenza di meccanismi di controllo, esterni all'istituzione penitenziaria: si sarebbe trattato peraltro di una conclusione semplicistica e decisamente contrastante con gli sforzi che il singolo detenuto e la collettività carceraria, nel suo complesso, effettuavano per informare l'opinione pubblica sull'afflittività extra o contra legem che non di rado caratterizzava l'esecuzione della sanzione detentiva. Vero è piuttosto che, se si pensava al ruolo classico del giudice quale risolutore di controversie, e si cercava di adattare tale ruolo al magistrato di sorveglianza nella sua veste di organo di garanzia, emergevano molti elementi di contrasto. 114 M. CANEPA, Intervento nell'ambito del convegno ”Problemi attuali della magistratura di sorveglianza”, in Quaderni del C.S.M., Roma, 1983, p.223. 115 G. ZAPPA, Dei diritti e della loro tutela giurisdizionale, in Diritti in carcere. Il difensore civico nella tutela dei detenuti, a cura di A. Cogliano, 2000, p.83; A. MARGARA, Difensore civico e magistrato di sorveglianza, cit., p.94.
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Un aspetto, in particolare, merita di essere ricordato. Di fronte alla violazione di un diritto del detenuto o dell'internato, solo in pochi casi era consentito attivare un procedimento giurisdizionale che culminasse nella pronuncia di un provvedimento decisorio dotato della forza necessaria per imporsi all'amministrazione penitenziaria. Per lungo tempo, come abbiamo denotato nei capitoli precedenti, dottrina e giurisprudenza si soffermarono unicamente su una sterile questione classificatoria riguardante la natura o amministrativa dell’esecuzione penale116. L’evoluzione dei tempi, la crescente attenzione per i valori recepiti nelle carte internazionali sui diritti umani, il progressivo affinamento della sensibilità giuridica e l’adeguamento della legislazione codicistica e speciale in materia penitenziaria, anche sotto la spinta della Corte costituzionale, avevano condizionato il passaggio dai meccanismi esecutivi tradizionali a qualcosa di più complesso e assai simile al processo penale di cognizione117. Si spiegava così la maggiore attenzione per il momento giurisdizionale anche post rem iudicatam.
Il dato emergeva con particolare rilevanza dalle disposizioni della legge delega 16 febbraio 1987, n. 81, per il nuovo codice di procedura
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A. MIELE, L’esecuzione penale, Giust. pen. 1990, p. 69.
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A. PRESUTTI, La disciplina del procedimento di sorveglianza dalla normativa
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penale, la quale andava a contemplare l’obiettivo della giurisdizionalità della fase esecutiva secondo questo schema:
‐ garanzie di giurisdizionalità nella fase dell’esecuzione con riferimento ai provvedimenti concernenti le pene e le misure di sicurezza;
‐ necessità del contraddittorio nei provvedimenti incidentali in materia di esecuzione;
‐ Impugnabilità dei provvedimenti del giudice118.
Proprio in quest’ordine di idee si andava ponendo la Corte costituzionale in quegli anni. Con la sentenza 53/1993 quest’ultima si è impegnata a valutare il grado della giurisdizionalità connaturata alla struttura degli istituti di competenza della magistratura di sorveglianza, variamente disseminati fra codice e legislazione speciale, per stabilire se essi fossero o meno adeguati ad un effettivo rispetto dei valori costituzionali in gioco.
Nel frastagliato e disorganico contesto normativo che è stato appena ricordato, è venuta a collocarsi l’ordinanza del giudice a quo119, il quale si era domandato se gli artt. 236, comma 2°, n. att. coord. trans, 14 ter e 30 bis o.p., laddove escludevano l’applicazione del
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Così A. GAITO, Profili del nuovo codice di procedura penale, a cura di G. CONSO e V. GREVI, Padova, 1991, p. 566.
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procedimento di sorveglianza così come disciplinato dagli artt. 666 e 678 c.p.p., non fossero in contrasto con gli artt. 13, 24, 27 e 76 Cost.. La Corte costituzionale, nell’esaminare la questione sollevata dai giudici del tribunale di Brescia rispetto alla violazione dei precetti costituzionali denunciati, ritenne di verificare preliminarmente la corrispondenza fra la normativa penitenziaria e la delega legislativa120.
In particolare i giudici della legittimità delle leggi hanno inteso appurare se, ed in quale misura, le procedure atipiche disciplinate dagli artt. 14 ter e 30 bis o.p. si ponessero in posizione di compatibilità ovvero di contrasto con l’art. 2, n. 96, della legge‐ delega per il nuovo codice del rito penale che, con riferimento ai provvedimenti concernenti le pene e le misure di sicurezza, imponeva anche nella fase dell’esecuzione “garanzie di giurisdizionalità consistenti nella necessità del contraddittorio e nell’impugnabilità dei provvedimenti”.
Con questa sentenza la Corte costituzionale ha precisato come non fosse sufficiente l’apprestamento di una forma procedimentale qualsiasi, che potrebbe rivelarsi in concreto inidonea ad integrare
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Con questa sentenza la Corte costituzionale conferma la chiara volontà dimostrata già in precedenti interventi di adeguare il nuovo codice di procedura penale al modello delineato dalla legge delega.
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una valida e sufficiente garanzia giurisdizionale121, ma occorre il rispetto integrale dei principi costituzionali relativi al diritto di difesa e di tutela della libertà personale in ogni momento dell’iter processuale, anche nella fase dell’esecuzione.
Al fine di verificare l’affidabilità della fase dell’esecuzione come fase di garanzia, e posto che la giurisdizionalità non ha un contenuto unitario ed omogeneo ma può essere realizzata a livelli diversi122, occorre valutare se la qualità della giurisdizione nella fase dell’esecuzione penale si riveli appagante ovvero si attesti al di sotto dello standard minimo che è lecito esigere in un paese democratico ispirato al principio della legalità. Quella appena descritta è l’operazione che, attraverso questa pronuncia, ha compiuto la Corte costituzionale, in ordine alle procedure considerate, per stabilire l’adeguatezza o meno all’esigenza dell’effettivo rispetto dei principi costituzionali. 121 A. GAITO, Esecuzione penale e giurisdizione, in riv. dir. proc., 1992, p. 606. 122 A. GAITO, Esecuzione penale e giurisdizione, cit., p. 606.
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3. La sentenza n. 26/1999
Con la sentenza 26/1999 la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale degli articoli 35 e 69 della l. 354/1975 “nella parte in cui non prevedevano una tutela giurisdizionale nei confronti degli atti dell’amministrazione penitenziaria lesivi dei diritti di coloro che siano sottoposti a restrizione della libertà personale”. Si assumeva, quindi, che il procedimento per reclamo promosso ex art. 35 o.p. dai detenuti che lamentassero la lesione di un loro diritto inviolabile non presentasse “i caratteri obiettivi della giurisdizione”, pur avendo, la stessa Corte, ritenuto quel procedimento sede idonea alla proposizione della questione incidentale di legittimità costituzionale delle leggi, ed avendo, quindi, giudicato ammissibile la questione ad essa sottoposta nel caso di specie123. Di converso il reclamo previsto dall’art. 69 o.p., pur avendo natura giurisdizionale, non poteva ritenersi di carattere generale, riguardando soltanto determinate violazioni di diritti. Il problema dei requisiti minimi dei procedimenti giurisdizionali si era proposto nel caso alla Corte, prima sotto il profilo de iure condito, dovendo la Corte giudicare della
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Sulla natura non giurisdizionale del reclamo si manifestava il completo accordo sia della dottrina che della giurisprudenza. Per una sintesi generale si veda GREVI – GIOSTRA – DELLA CASA, Ordinamento penitenziario, Padova, 1997, sub art. 35. Vero è che il carattere giurisdizionale del reclamo di cui all’art. 35 o.p. era stato riconosciuto dalla Corte costituzionale con la sentenza 212/1997, ma soltanto ai fini della legittimazione del magistrato di sorveglianza a sollevare questione di legittimità costituzionale.
106 ricorrenza nella specie di quei requisiti medesimi, e poi sotto il profilo de iure condendum, in quanto si rinviava al legislatore la definizione delle norme destinate a colmare la censurata omissione legislativa124. Da un lato, nella motivazione, i giudici della Consulta sottolineavano l’assenza dei requisiti minimi necessari per ritenere che il procedimento instaurato ex art. 35 o.p. fosse “sufficiente a fornire un mezzo di tutela qualificabile come giurisdizionale”.
Eterogenee erano le autorità destinatarie del reclamo, che poteva essere indirizzato anche a soggetti diversi dal magistrato di sorveglianza; nulla era detto sulla modalità di svolgimento della procedura, sull’instaurazione di un eventuale contraddittorio e sull’efficacia delle decisioni conseguenti. Il fatto che il reclamo potesse essere indirizzato anche al magistrato di sorveglianza non era ritenuto, dunque, elemento sufficiente: l’eventualità di questa via di doglianza non bastava evidentemente a caratterizzare in senso giurisdizionale un istituto che conosceva anche percorsi diversi, i quali potevano condurre a decisioni di autorità politiche o amministrative (direttori degli istituti, ispettori ministeriali, ministro della giustizia, direttore del DAP, presidenti delle giunte regionali, e Capo dello Stato). Essendo sottoposto indiscriminatamente alle
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Così A. MARGARITELLI, I requisiti minimi della giurisdizionalità nell’esecuzione penale, in Giur. Cost., 1993, p. 366, a commento della sentenza della Corte costituzionale 53/1993.
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stesse regole, quale che fosse l’autorità adita, il procedimento non poteva, evidentemente, mutare di natura, vista anche la genericità della disciplina legislativa, a seconda che il reclamo fosse presentato al magistrato di sorveglianza o ad altra istanza. La connotazione giudiziaria del magistrato di sorveglianza non era ritenuta sufficiente a qualificare come giurisdizionale la relativa funzione anche quando fosse stata da esso esercitata125.
Il problema appena visto ha, probabilmente, giocato un peso non indifferente nell’indurre la Corte a non accogliere il suggerimento del giudice a quo di chiudere il giudizio con una sentenza additiva volta a trasformare per sua propria decisione il procedimento di reclamo ex art. 35 o.p. in un procedimento giurisdizionale tout court. Le garanzie per la libertà dei detenuti sarebbero state ulteriormente rafforzate in quanto, secondo la previsione legislativa in tal senso modificata, il procedimento si sarebbe dovuto concludere con un’ordinanza immediatamente impugnabile in cassazione. Ma secondo i giudici della Corte ciò non era possibile poiché una tale “addizione” non poteva rientrare fra i poteri da essi esercitabili: non era possibile, dunque, una sostituzione del giudice delle leggi al legislatore, in quanto “molto ampia era la gamma di possibilità relative
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S. BARTOLE, I requisiti dei procedimenti giurisdizionali e il loro utilizzo nella
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all’individuazione sia del giudice competente sia delle procedure idonee nella specie a tener conto dei diritti in discussione e a proteggere la funzionalità dell’esecuzione delle misure restrittive della libertà personale”. Il che significava che, secondo la Corte, l’individuazione ovvero la conformazione dei requisiti essenziali dei procedimenti giurisdizionali implicava una notevole discrezionalità che solo al legislatore era dato di esercitare126.
In secondo luogo, l’individuazione di quali fossero “tutti i diritti” dei detenuti derivanti dall’ordinamento penitenziario ai quali la Corte intendeva riferirsi per garantire piena ed effettiva tutela giurisdizionale doveva essere effettuata per esclusione. Come avvertiva la Corte stessa nelle motivazioni della presente sentenza, non potevano essere considerati tali né quei diritti che “sorgono nell’ambito di rapporti estranei all’esecuzione penale”, i quali trovavano protezione e tutela nell’ambito delle regole generali dell’ordinamento giuridico, né quelli che “incidono concretamente sulla misura e sulla qualità della pena” (come, ad esempio, le misure alternative alla detenzione o il regime di sorveglianza particolare, o ancora, il regime di cui all’art. 41 bis o.p.). Era indubbio, come affermato dalla Corte stessa, che la condizione di sottoposizione a
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S. BARTOLE, I requisiti dei procedimenti giurisdizionali e il loro utilizzo nella
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restrizione della libertà personale non determinasse affatto un “annullamento” dei diritti inviolabili dell’uomo: questi, riconosciuti e garantiti dall’art. 2 Cost., sono posti tra i principi fondamentali dell’ordinamento giuridico127. Tali statuizioni (l’art. 2, ma anche l’art. 27 Cost., 3° comma) si dovevano tradurre non soltanto in norme e direttive rivolte all’organizzazione e all’azione delle istituzioni penitenziarie, ma anche in diritti di quanti si trovassero nella restrizione della loro libertà128. In questo senso, aveva rilevato la Corte, l’azione in giudizio per la difesa dei propri diritti era essa stessa il contenuto di un diritto protetto dagli articoli 24 e 113 Cost., da annoverarsi tra quelli inviolabili, riconducibili all’art. 2 Cost.. Per tale ragione questo diritto non poteva ridursi alla mera possibilità di proporre istanze o sollecitazioni, sia pure ad autorità appartenenti all’ordine giudiziario, ma doveva poter essere esercitato nell’ambito delle garanzie procedimentali minime costituzionalmente dovute, quali contraddittorio, stabilità della decisione, impugnabilità della stessa con ricorso per cassazione.
Come già abbiamo accennato la soluzione offerta dalla Corte assumeva i connotati propri di una “additiva di principio”. Il principio,
127 In tal senso si veda C. Cost. sent. 114/1979, e in dottrina R. DELL’ANDRO, I diritti del
condannato, in Iustitia, 1963, p. 275.
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M. RUOTOLO, La tutela dei dritti del detenuto tra incostituzionalità per omissione e
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era quello della giurisdizionalità dei rimedi avverso le determinazioni dell’amministrazione penitenziaria potenzialmente lesive dei diritti dei detenuti e degli internati. Si auspicava, già nel 1999, un intervento del legislatore diretto nella direzione che con questa sentenza si era tracciata, e, pur consapevoli delle “tradizionali”