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La giurisprudenza costituzionale come propulsore per una effettiva tutela giurisdizionale a favore dei detenuti 

 

Un impulso forte e deciso verso la progressiva giurisdizionalizzazione  della  tutela  dei  diritti  del  detenuto  è  venuto  nella  storia  recente  e  meno recente dalla Corte costituzionale, la quale è intervenuta anche  in  casi  di  specie  nettamente  diversi  gli  uni  dagli  altri,  con  sentenze  interpretative  di  rigetto  e  di  accoglimento,  ed  ancora,  con  sentenze  additive  di  principio.  L’elemento  comune  della  giurisprudenza  costituzionale  in  materia  è  stata  proprio  la  tematica  specifica  che  rappresenta  il  fulcro  del  presente  lavoro:  il  diritto  ad  una  tutela  giurisdizionale  in  tutte  quelle  “controversie”  che  vengono  ad  instaurarsi  fra  l’amministrazione  penitenziaria  ed  i  soggetti  che  si  trovano  ristretti  in  carcere,  sia  in  via  cautelare  che  a  seguito  di  condanna definitiva. 

Già nel 1974, ancor prima dell’approvazione della legge 356/1975, la  Corte  costituzionale  ha  avuto  modo  di  esprimersi,  con  particolare  riguardo all’indebita ingerenza che, secondo i giudici costituzionali, si  andava  verificando  relativamente  al  potere  esecutivo  nei  confronti  del potere giurisdizionale. Nel caso di specie, con ordinanza datata 24  gennaio  1972,  il  giudice  di  sorveglianza  presso  il  tribunale  di  Pisa  sollevò,  nel  corso  del  procedimento  iniziato  con  domanda  di  revoca 

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della  misura  di  sicurezza di assegnazione  ad  una  casa  di  lavoro,  una  questione  di  legittimità  costituzionale  relativamente  a  diverse  disposizioni  del  codice  di  procedura  penale.  In  particolare  si  ritenne  fondato, e dunque ammissibile,  il dubbio circa la compatibilità ‐ con i  principi di cui agli artt. 2, 3, 13, 25, 111, 102, 110 della Costituzione ‐  dell'articolo 207, ultimo comma, c.p. il quale attribuiva al ministro di  grazia  e  giustizia  il  potere  di  revocare  le  misure  di  sicurezza  anche  prima che fosse decorso il tempo corrispondente alla durata minima  fissata dalla legge, affermandosi che tale potere sarebbe andato al di  là  di  quelli  accordati  al  ministro  dall'art.  110,  ed  avrebbe  integrato  una  indebita  ingerenza  del  potere  esecutivo  nell'esercizio  della  funzione  giurisdizionale.  Nelle  motivazioni  della  sentenza  si  ritenne  che  la  norma  fosse  viziata  di  irrazionalità  e  si  ponesse  in  contrasto  con i valori "ineliminabili" della persona e della libertà umane. 

Veniva quindi dichiarata l'illegittimità costituzionale dell'articolo 207,  3°  comma, c.p.,  e  la  declaratoria di illegittimità  costituzionale  della  norma  impugnata  si  estendeva  per  necessaria consequenzialità  a  quella  contenuta  nel  secondo  comma  dello  stesso  articolo  che  poneva  il  divieto  di  revocare  la  misura  di  sicurezza  prima  che  fosse  decorso  il  tempo  corrispondente  alla  durata  minima  stabilita  dalla  legge.  Ne  derivava  che  spettava  al  giudice  il  potere  di  revoca  delle 

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misure di sicurezza ‐ ove fosse accertata la cessazione dello stato di  pericolosità (art. 207, comma primo, c.p.). 

Qualche  anno  dopo,  nel  1979,  venne  sollevata  questione  di  legittimità  costituzionale  dell'art.  589,  5°  comma,  c.p.p..  In  questo  caso  si  ebbe  a  che  fare  con  la  riserva  della  sospensione  dell'esecuzione  della  pena  all'esclusiva  ed  insindacabile  competenza  del ministro della giustizia, per asserito contrasto con gli artt. 3, 24 e  25 della Costituzione. Il pretore ritenne tale questione rilevante ai fini  del  decidere,  in  quanto  a  norma  della  disposizione  impugnata  egli  sarebbe  stato  incompetente  a  conoscere  dell'istanza  di  scarcerazione.  La  norma  in  questione  risultò  in  contrasto  con  l'art.  13 Cost., il  quale  prescrive  un  atto  motivato  dell'autorità  giudiziaria  per  qualsiasi  restrizione  della libertà  personale,  e  con  l'art.  24 Cost.,  che  garantisce  il  diritto  di  difesa,  carente  nella  specie  di  fronte  al  potere  discrezionale  del  ministro,  in  ogni  stato  e  grado  del  procedimento.  Al  ministro  della  giustizia  era  così  consentito,  in  violazione  dell'art.  102 Cost.,  di  interferire  in  una  funzione  che  doveva,  invece,  essere  propria  dell'ordine  giudiziario.  Si  ritenne  nell’occasione  offeso  anche  il  principio  di  eguaglianza,  consacrato  nell'art.  3  Cost.,  perché  la  stessa  facoltà  di  differimento  dell'esecuzione  della  pena,  attribuita  al  ministro  dopo  che 

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l'espiazione fosse iniziata, spettava invece agli organi giudiziari prima  che  l'ordine  di  carcerazione  fosse  eseguito,  con  il  risultato  che  il  trattamento  del  condannato  veniva  a  mutare,  da  un  caso  all'altro,  secondo un arbitrario ed irragionevole criterio discrezionale. 

La  Corte  come  abbiamo  già  avuto  modo  di  esaminare,  aveva  già  dichiarato,  in  riferimento  all'art.  13,  comma  1°, Cost.,  l'illegittimità  costituzionale  di  altre  disposizioni  di  legge,  le  quali  conferivano  al  Ministro  della  giustizia  poteri  sotto  vario  riguardo  interferenti  nell'ambito  in  cui  devono  operare  la  riserva  di  competenza  degli  organi giudiziari, e la connessa tutela della libertà personale: il potere  di  revocare  ex  art.  207,  comma  ultimo, c.p.,  le  misure  di  sicurezza,  prima  che  sia  decorso  il  tempo  corrispondente  alla  durata  minima  fissata  dalla  legge  (sentenza  n.  110  del  1974),  nonché  il  potere  di  concedere, ex art. 43 del r.d. 28 maggio 1931, n. 602, la liberazione  condizionale prevista e regolata nell'art. 176 c.p. (sentenza n. 204 del  1974).  Quest'orientamento  venne  riaffermato  nel  presente  giudizio  anche per altre considerazioni. Come nei casi decisi con le pronunce  sopra  citate,  così  nella  specie,  si  ritenne  che  il  potere  attribuito  al  ministro  non  traesse  alcun  fondamento  dalle  regole  costituzionali  (artt.  107  e  110  Cost.),  che  a  questo  organo  riconoscevano  espressamente certe attribuzioni, sempre, però, sul presupposto che 

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egli  fosse  soltanto  un  membro  del  Governo,  responsabile  dell'organizzazione e dei servizi del suo dicastero. 

Era principio di civiltà giuridica, si specificò, che al condannato fosse  riconosciuta  la  titolarità  di  situazioni  soggettive  attive,  e  garantita  quella parte di personalità umana, che la pena non doveva intaccare.  Tale  principio  è  stato  accolto  nel  nostro  ordinamento  con  l'art.  27,  comma  3°,  Cost.;  ed era  allora, alla  luce  di  questo  precetto  che,  nel  caso  in  esame,  andava  considerato  il  trattamento  del  condannato.  L'espiazione  della  pena  offendeva  il  senso  di  umanità,  al  quale  era  manifestamente  ispirata  la  citata  statuizione  costituzionale.  D'altra  parte,  qui  si  trattava  di  un  rinvio  facoltativo  dell'esecuzione  della  pena:  agli  organi  giudiziari  spettava  pur  sempre  una  competenza  discrezionale,  diversamente  dalle  altre  ipotesi  in  cui,  secondo  il  codice  penale,  detto  rinvio  era  obbligatorio.  Il  che  implicava  che  gli  organi  competenti  fossero  chiamati  non  soltanto  a  verificare  la  presenza delle condizioni richieste dalla legge perché venisse sospesa  l'esecuzione della pena, ma anche ad apprezzare opportunamente le  ragioni  giustificative  della  sospensione  ‐  nella  specie,  la  grave  infermità fisica dell'interessato ‐  in rapporto ad altre considerazioni,  le  quali  potevano  di  volta  in  volta  rilevare  per  il  provvedimento  da  emettere. 

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I giudici rimettenti la questione si trovarono comunque di fronte ad  un  provvedimento  che,  sia  se  concedeva  sia  se  negava  il  rinvio  dell'esecuzione della pena, avrebbe nella sfera della libertà personale  del  soggetto.  La  tutela  giurisdizionale  della  posizione  soggettiva  del  condannato discendeva, dunque, da questa natura dell'atto riservato  agli  organi  giudiziari,  e  dalla  conseguente  applicabilità,  nel  nostro  caso, dei rimedi previsti dal codice di procedura penale.  

I giudici della consulta affermarono anche in questa occasione che la  sospensione  dell'esecuzione  della  pena  doveva  necessariamente  ricadere  nell'ambito  di  competenza  dell'autorità  giudiziaria,  e  che  la  sospensione medesima fosse circondata dalle garanzie connesse con  l'esercizio della giurisdizione, dichiarando  l’illegittimità costituzionale  dell'art. 589, comma 5°, c.p.p., nella parte in cui attribuiva al ministro  della giustizia il potere di sospendere l'esecuzione della pena, quando  l'ordine di carcerazione del condannato fosse già stato eseguito.  Negli  anni  successivi  dottrina  e  giurisprudenza  continuarono  ad  interrogarsi sul funzionamento del magistrato di sorveglianza, inteso  come  organo  istituzionale  posto  a  garanzia  di  un  trattamento  quantomeno “umano” all’interno degli istituti penitenziari. 

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Secondo  un'opinione  abbastanza  diffusa  tra  quanti  hanno  preferito  ritirarsi nel loro “guscio corazzato di giurisdizionalità”114, l'accesso al  carcere  del  magistrato  di  sorveglianza  si  riduceva  ad  una  vuota  liturgia, posto che i detenuti utilizzavano regolarmente l'incontro con  il  giudice  "penitenziario"  solo  per  chiedere  informazioni  circa  la  futura concessione di un permesso o di una misura alternativa115. A  voler  seguire  sino  in  fondo  questo  ragionamento,  si  doveva  concludere  che  gli  stessi  detenuti  dimostravano  di  non  avvertire  l'esigenza  di  meccanismi  di  controllo,  esterni  all'istituzione  penitenziaria:  si  sarebbe  trattato  peraltro  di  una  conclusione  semplicistica e decisamente contrastante con gli sforzi che il singolo  detenuto e la collettività carceraria, nel suo complesso, effettuavano  per informare l'opinione pubblica sull'afflittività extra o contra legem  che non di rado caratterizzava l'esecuzione della sanzione detentiva.  Vero è piuttosto che, se si pensava al ruolo classico del giudice quale  risolutore  di  controversie,  e  si  cercava  di  adattare  tale  ruolo  al  magistrato  di  sorveglianza  nella  sua  veste  di  organo  di  garanzia,  emergevano molti elementi di contrasto.     114   M. CANEPA, Intervento nell'ambito del convegno ”Problemi attuali della magistratura  di sorveglianza”, in Quaderni del C.S.M., Roma, 1983, p.223.  115  G. ZAPPA, Dei diritti e della loro tutela giurisdizionale, in Diritti in carcere. Il difensore  civico nella tutela dei detenuti, a cura di A. Cogliano, 2000, p.83; A. MARGARA, Difensore  civico e magistrato di sorveglianza, cit., p.94. 

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Un  aspetto,  in  particolare,  merita  di  essere  ricordato.  Di  fronte  alla  violazione  di  un  diritto  del  detenuto  o  dell'internato,  solo  in  pochi  casi  era  consentito  attivare  un  procedimento  giurisdizionale  che  culminasse  nella  pronuncia  di  un  provvedimento  decisorio  dotato  della forza necessaria per imporsi all'amministrazione penitenziaria.   Per  lungo  tempo,  come  abbiamo  denotato  nei  capitoli  precedenti,  dottrina e giurisprudenza si soffermarono unicamente su una sterile  questione  classificatoria  riguardante  la  natura  o  amministrativa  dell’esecuzione  penale116.  L’evoluzione  dei  tempi,  la  crescente  attenzione  per  i  valori  recepiti  nelle  carte  internazionali  sui  diritti  umani,  il  progressivo  affinamento  della  sensibilità  giuridica  e  l’adeguamento  della  legislazione  codicistica  e  speciale  in  materia  penitenziaria,  anche  sotto  la  spinta  della  Corte  costituzionale,  avevano  condizionato  il  passaggio  dai  meccanismi  esecutivi  tradizionali  a  qualcosa  di  più  complesso  e  assai  simile  al  processo  penale di cognizione117. Si spiegava così la maggiore attenzione per il  momento giurisdizionale anche post rem iudicatam. 

Il  dato  emergeva  con  particolare  rilevanza  dalle  disposizioni  della  legge delega 16 febbraio 1987, n. 81, per il nuovo codice di procedura 

 

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   A. MIELE, L’esecuzione penale, Giust. pen. 1990, p. 69.  

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  A.  PRESUTTI,  La  disciplina  del  procedimento  di  sorveglianza  dalla  normativa 

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penale,  la  quale  andava  a  contemplare  l’obiettivo  della  giurisdizionalità della fase esecutiva secondo questo schema: 

‐ garanzie  di  giurisdizionalità  nella  fase  dell’esecuzione  con  riferimento  ai  provvedimenti  concernenti  le  pene  e  le  misure  di sicurezza; 

‐ necessità  del  contraddittorio  nei  provvedimenti  incidentali  in  materia di esecuzione; 

‐ Impugnabilità dei provvedimenti del giudice118. 

Proprio  in  quest’ordine  di  idee  si  andava  ponendo  la  Corte  costituzionale in quegli anni. Con la sentenza 53/1993 quest’ultima si  è impegnata a valutare il grado della giurisdizionalità connaturata alla  struttura  degli  istituti  di  competenza  della  magistratura  di  sorveglianza,  variamente  disseminati  fra  codice  e  legislazione  speciale, per stabilire se essi fossero o meno adeguati ad un effettivo  rispetto dei valori costituzionali in gioco. 

Nel frastagliato e disorganico contesto normativo che è stato appena  ricordato,  è  venuta  a  collocarsi  l’ordinanza  del  giudice  a  quo119,  il  quale  si  era  domandato  se  gli  artt.  236,  comma  2°,  n.  att.  coord.  trans,  14  ter  e  30  bis  o.p.,  laddove  escludevano  l’applicazione  del 

 

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  Così  A.  GAITO,  Profili  del  nuovo  codice  di  procedura  penale,  a  cura  di  G.  CONSO  e  V.  GREVI, Padova, 1991, p. 566. 

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procedimento di sorveglianza così come disciplinato dagli artt. 666 e  678 c.p.p., non fossero in contrasto con gli artt. 13, 24, 27 e 76 Cost..  La  Corte  costituzionale,  nell’esaminare  la  questione  sollevata  dai  giudici  del  tribunale  di  Brescia  rispetto  alla  violazione  dei  precetti  costituzionali  denunciati,  ritenne  di  verificare  preliminarmente  la  corrispondenza  fra  la  normativa  penitenziaria  e  la  delega  legislativa120. 

In  particolare  i  giudici  della  legittimità  delle  leggi  hanno  inteso  appurare  se,  ed  in  quale  misura,  le  procedure  atipiche  disciplinate  dagli  artt.  14  ter  e  30  bis  o.p.  si  ponessero  in  posizione  di  compatibilità  ovvero  di  contrasto  con  l’art.  2,  n.  96,  della  legge‐ delega  per  il  nuovo  codice  del  rito  penale  che,  con  riferimento  ai  provvedimenti concernenti le pene e le misure di sicurezza, imponeva  anche  nella  fase  dell’esecuzione  “garanzie  di  giurisdizionalità  consistenti nella necessità del contraddittorio e nell’impugnabilità dei  provvedimenti”. 

Con  questa  sentenza  la  Corte  costituzionale  ha  precisato  come  non  fosse  sufficiente  l’apprestamento  di  una  forma  procedimentale  qualsiasi,  che  potrebbe  rivelarsi  in  concreto  inidonea  ad  integrare 

 

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 Con questa sentenza la Corte costituzionale conferma la chiara volontà dimostrata già  in  precedenti  interventi  di  adeguare  il  nuovo  codice  di  procedura  penale  al  modello  delineato dalla legge delega. 

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una  valida  e  sufficiente  garanzia  giurisdizionale121,  ma  occorre  il  rispetto integrale dei principi costituzionali relativi al diritto di difesa  e  di  tutela  della  libertà  personale  in  ogni  momento  dell’iter  processuale, anche nella fase dell’esecuzione. 

Al fine di verificare l’affidabilità della fase dell’esecuzione come fase  di  garanzia,  e  posto  che  la  giurisdizionalità  non  ha  un  contenuto  unitario  ed  omogeneo  ma  può  essere  realizzata  a  livelli  diversi122,  occorre  valutare  se  la  qualità  della  giurisdizione  nella  fase  dell’esecuzione penale si riveli appagante ovvero si attesti al di sotto  dello standard minimo che è lecito esigere in un paese democratico  ispirato  al  principio  della  legalità.  Quella  appena  descritta  è  l’operazione che, attraverso questa pronuncia, ha compiuto la Corte  costituzionale,  in  ordine  alle  procedure  considerate,  per  stabilire  l’adeguatezza  o  meno  all’esigenza  dell’effettivo  rispetto  dei  principi  costituzionali.              121  A. GAITO, Esecuzione penale e giurisdizione, in riv. dir. proc., 1992, p. 606.  122 A. GAITO, Esecuzione penale e giurisdizione, cit., p. 606. 

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3. La sentenza n. 26/1999   

Con  la  sentenza  26/1999  la  Corte  costituzionale  ha  dichiarato  l’illegittimità  costituzionale  degli  articoli  35  e  69  della  l.  354/1975  “nella  parte  in  cui  non  prevedevano  una  tutela  giurisdizionale  nei  confronti degli atti dell’amministrazione penitenziaria lesivi dei diritti  di coloro che siano sottoposti a restrizione della libertà personale”.  Si  assumeva,  quindi,  che  il  procedimento  per  reclamo  promosso  ex  art. 35 o.p. dai detenuti che lamentassero la lesione di un loro diritto  inviolabile  non  presentasse  “i  caratteri  obiettivi  della  giurisdizione”,  pur avendo, la stessa Corte, ritenuto quel procedimento sede idonea  alla  proposizione  della  questione  incidentale  di  legittimità  costituzionale delle leggi, ed avendo, quindi, giudicato ammissibile la  questione  ad  essa  sottoposta  nel  caso  di  specie123.  Di  converso  il  reclamo  previsto dall’art.  69  o.p.,  pur avendo  natura giurisdizionale,  non  poteva  ritenersi  di  carattere  generale,  riguardando  soltanto  determinate  violazioni  di  diritti.  Il  problema  dei  requisiti  minimi  dei  procedimenti giurisdizionali si era proposto nel caso alla Corte, prima  sotto  il  profilo  de  iure  condito,  dovendo  la  Corte  giudicare  della 

 

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 Sulla natura non giurisdizionale del reclamo si manifestava il completo accordo sia della  dottrina  che  della  giurisprudenza.  Per  una  sintesi  generale  si  veda  GREVI  –  GIOSTRA  –  DELLA CASA, Ordinamento penitenziario, Padova, 1997, sub art. 35. Vero è che il carattere  giurisdizionale  del  reclamo  di  cui  all’art.  35  o.p.  era  stato  riconosciuto  dalla  Corte  costituzionale  con  la  sentenza  212/1997,  ma  soltanto  ai  fini  della  legittimazione  del  magistrato di sorveglianza a sollevare questione di legittimità costituzionale. 

106          ricorrenza nella specie di quei requisiti medesimi, e poi sotto il profilo  de iure condendum, in quanto si rinviava al legislatore la definizione  delle norme destinate a colmare la censurata omissione legislativa124.  Da un lato, nella motivazione, i giudici della Consulta sottolineavano  l’assenza  dei  requisiti  minimi  necessari  per  ritenere  che  il  procedimento instaurato ex art. 35 o.p. fosse “sufficiente a fornire un  mezzo di tutela qualificabile come giurisdizionale”. 

Eterogenee  erano  le  autorità  destinatarie  del  reclamo,  che  poteva  essere  indirizzato  anche  a  soggetti  diversi  dal  magistrato  di  sorveglianza;  nulla  era  detto  sulla  modalità  di  svolgimento  della  procedura,  sull’instaurazione  di  un  eventuale  contraddittorio  e  sull’efficacia  delle  decisioni  conseguenti.  Il  fatto  che  il  reclamo  potesse essere indirizzato anche al magistrato di sorveglianza non era  ritenuto, dunque, elemento sufficiente: l’eventualità di questa via di  doglianza  non  bastava  evidentemente  a  caratterizzare  in  senso  giurisdizionale  un  istituto  che  conosceva  anche  percorsi  diversi,  i  quali  potevano  condurre  a  decisioni  di  autorità  politiche  o  amministrative  (direttori  degli  istituti,  ispettori  ministeriali,  ministro  della  giustizia,  direttore  del  DAP,  presidenti  delle  giunte  regionali,  e  Capo  dello  Stato).  Essendo  sottoposto  indiscriminatamente  alle 

 

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 Così A. MARGARITELLI, I requisiti minimi della giurisdizionalità nell’esecuzione penale, in  Giur. Cost., 1993, p. 366,  a commento della sentenza della Corte costituzionale 53/1993. 

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stesse  regole,  quale  che  fosse  l’autorità  adita,  il  procedimento  non  poteva,  evidentemente,  mutare  di  natura,  vista  anche  la  genericità  della disciplina legislativa, a seconda che il reclamo fosse presentato  al  magistrato  di  sorveglianza  o  ad  altra  istanza.  La  connotazione  giudiziaria del magistrato di sorveglianza non era ritenuta sufficiente  a  qualificare  come  giurisdizionale  la  relativa  funzione  anche  quando  fosse stata da esso esercitata125. 

Il  problema  appena  visto  ha,  probabilmente,  giocato  un  peso  non  indifferente nell’indurre la Corte a non accogliere il suggerimento del  giudice a quo di chiudere il giudizio con una sentenza additiva volta a  trasformare per sua propria decisione il procedimento di reclamo ex  art. 35 o.p. in un procedimento giurisdizionale tout court. Le garanzie  per la libertà dei detenuti sarebbero state ulteriormente rafforzate in  quanto,  secondo  la  previsione  legislativa  in  tal  senso  modificata,  il  procedimento  si  sarebbe  dovuto  concludere  con  un’ordinanza  immediatamente  impugnabile  in  cassazione.  Ma  secondo  i  giudici  della  Corte  ciò  non  era  possibile  poiché  una  tale  “addizione”  non  poteva  rientrare  fra  i  poteri  da  essi  esercitabili:  non  era  possibile,  dunque,  una  sostituzione  del  giudice  delle  leggi  al  legislatore,  in  quanto  “molto  ampia  era  la  gamma  di  possibilità  relative 

 

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  S.  BARTOLE,  I  requisiti  dei  procedimenti  giurisdizionali  e  il  loro  utilizzo  nella 

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all’individuazione  sia  del  giudice  competente  sia  delle  procedure  idonee  nella  specie  a  tener  conto  dei  diritti  in  discussione  e  a  proteggere  la  funzionalità  dell’esecuzione  delle  misure  restrittive  della  libertà  personale”.  Il  che  significava  che,  secondo  la  Corte,  l’individuazione  ovvero  la  conformazione  dei  requisiti  essenziali  dei  procedimenti  giurisdizionali  implicava  una  notevole  discrezionalità  che solo al legislatore era dato di esercitare126.  

In secondo luogo, l’individuazione di quali fossero “tutti i diritti” dei  detenuti  derivanti  dall’ordinamento  penitenziario  ai  quali  la  Corte  intendeva  riferirsi  per  garantire  piena  ed  effettiva  tutela  giurisdizionale  doveva  essere  effettuata  per  esclusione.  Come  avvertiva  la  Corte  stessa  nelle  motivazioni  della  presente  sentenza,  non  potevano  essere  considerati  tali  né  quei  diritti  che  “sorgono  nell’ambito  di  rapporti  estranei  all’esecuzione  penale”,  i  quali  trovavano  protezione  e  tutela  nell’ambito  delle  regole  generali  dell’ordinamento  giuridico,  né  quelli  che  “incidono  concretamente  sulla misura e sulla qualità della pena” (come, ad esempio, le misure  alternative  alla  detenzione  o  il  regime  di  sorveglianza  particolare,  o  ancora,  il  regime  di  cui  all’art.  41  bis  o.p.).  Era  indubbio,  come  affermato  dalla  Corte  stessa,  che  la  condizione  di  sottoposizione  a 

 

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  S.  BARTOLE,  I  requisiti  dei  procedimenti  giurisdizionali  e  il  loro  utilizzo  nella 

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restrizione  della  libertà  personale  non  determinasse  affatto  un  “annullamento” dei diritti inviolabili dell’uomo: questi, riconosciuti e  garantiti  dall’art.  2  Cost.,  sono  posti  tra  i  principi  fondamentali  dell’ordinamento giuridico127. Tali statuizioni (l’art. 2, ma anche l’art.  27  Cost.,  3°  comma)  si  dovevano  tradurre  non  soltanto  in  norme  e  direttive  rivolte  all’organizzazione  e  all’azione  delle  istituzioni  penitenziarie,  ma  anche  in  diritti  di  quanti  si  trovassero  nella  restrizione  della  loro  libertà128.  In  questo  senso,  aveva  rilevato  la  Corte, l’azione in giudizio per la difesa dei propri diritti era essa stessa  il  contenuto  di  un  diritto  protetto  dagli  articoli  24  e  113  Cost.,  da  annoverarsi tra quelli inviolabili, riconducibili all’art. 2 Cost.. Per tale  ragione  questo  diritto  non  poteva  ridursi  alla  mera  possibilità  di  proporre  istanze  o  sollecitazioni,  sia  pure  ad  autorità  appartenenti  all’ordine  giudiziario,  ma  doveva  poter  essere  esercitato  nell’ambito  delle  garanzie  procedimentali  minime  costituzionalmente  dovute,  quali  contraddittorio,  stabilità  della  decisione,  impugnabilità  della  stessa con ricorso per cassazione. 

Come  già  abbiamo  accennato  la  soluzione  offerta  dalla  Corte  assumeva i connotati propri di una “additiva di principio”. Il principio, 

 

127  In  tal  senso  si  veda  C.  Cost. sent.  114/1979,  e  in  dottrina  R.  DELL’ANDRO,  I  diritti  del 

condannato, in Iustitia, 1963, p. 275. 

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  M.  RUOTOLO,  La  tutela  dei  dritti  del  detenuto  tra  incostituzionalità  per  omissione  e 

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era quello della giurisdizionalità dei rimedi avverso le determinazioni  dell’amministrazione  penitenziaria  potenzialmente  lesive  dei  diritti  dei  detenuti  e  degli  internati.  Si  auspicava,  già  nel  1999,  un  intervento  del  legislatore  diretto  nella  direzione  che  con  questa  sentenza  si  era  tracciata,  e,  pur  consapevoli  delle  “tradizionali”