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Convergenze e divergenze di sostenibilità in un’area economica integrata

La sostenibilità dei debiti pubblic

3.5. Convergenze e divergenze di sostenibilità in un’area economica integrata

Al fine di ottenere un quadro esaustivo sulla sostenibilità del debito pubblico dei Paesi europei presi in considerazione, si esamini la tabella qui di seguito riportata, rilevando quali paesi abbiano caratteristiche convergenti e/o divergenti in termini di sostenibilità (tabella n. 8).

Dall’osservazione delle singole variabili che compongono l’indice, è possibile individuare alcuni aspetti distintivi:

 La Francia ed il Regno Unito subiscono una contrazione dell’indice di sostenibilità del debito all’inizio degli anni 2000 e principalmente a causa dell’accumulo di un crescente disavanzo primario su Pil;

 I restanti paesi europei, eccetto la Germania, manifestano una contrazione dell’indice di sostenibilità del debito a partire dall’anno 2007, quindi, all’alba della crisi finanziaria internazionale. Sebbene sia decisivo l’elevato rapporto debito pubblico su Pil, è possibile notare che concorrono diversi fattori: a) in Grecia un tasso di interesse molto elevato ed un tasso di crescita del Pil negativo; b) in Irlanda e Spagna una bassa crescita del Pil ed un consistente disavanzo primario su Pil, sia pur in progressiva riduzione; c) in Italia una bassa crescita del Pil ed un disavanzo primario su Pil tendente al ribasso; d) in Portogallo un crescente disavanzo primario su Pil.

170  La Germania si distingue poiché l’indice si contrae per ben due volte: nel 2000 il fattore determinante è il crescente disavanzo primario su Pil, mentre nel 2008 il declino della crescita economica.

Tabella n. 8 – Andamento dell’indice di sostenibilità del debito e delle sue

componenti (1) (2) (3) (4) (5) Paesi Debito pubblico su Pil Tasso di interesse nominale Tasso di crescita del Pil nominale Saldo primario su Pil Indice di sostenibilità Francia Lentamente crescente dal 2000 ↑ Mediamente pari al 4% 1999-2012 ↓ Sempre positivo eccetto nel 2009 ↓ Negativo dal

2002 ↓ Contrazione inizia nel 2002 ↑

Germania Lentamente crescente dal 2002 ↑ Mediamente pari al 3,8% 1999- 2012 ↓ Sempre positivo eccetto nel 2009 ↓ Negativo 2001-05 e 2009-10 ↓

Due contrazioni: una nel 2000 e l’altra nel 2008 ↓

Grecia Crescente dal 2005 ═

In media pari a 4,4% 2001-08 contro il 13,1% 2009-12 ↑ Negativo dal 2009 ↑ Negativo dal 2003 ═

Contrazione inizia nel 2007 ↑

Irlanda Crescente dal 2007 ↑

In media pari a 4,5% 1999-2008

contro il 6,7% 2009-12 ═

Negativo dal

2008 ↓ Negativo dal 2008 ↓ Contrazione inizia nel 2007 ═

Italia Crescente dal 2008 ↑

Mediamente pari al 4,7% 1999- 2012 ═ Sempre positivo eccetto nel 2009 e 2012 ↓ Negativo dal 2009 ↓

Contrazione inizia nel 2008 ↑

Portogallo Crescente dal 2000 ↑

In media pari a 4,5% 1998-2008 contro il 7,6% 2009-12 ↑ Sempre positivo fino al 2008 e nel 2010 ═ Negativo dal

2000 ↑ Contrazione inizia nel 2007 ↑

Spagna Crescente dal 2007 ↑

Mediamente pari al 4,6% 1999- 2012 ↑ Negativo nel 2009 e 2012 ↓ Negativo nel 1995 e dal 2008 ↓

Contrazione inizia nel 2007 ↑ Regno Unito Crescente dal 2007 ↑ Mediamente pari al 4,4% 1998- 2012 ═ Sempre positivo eccetto nel 2009 ↓ Negativo dal

2002 ↓ Contrazione inizia nel 2001 ↑

171

APPENDICE 1

L’ALGEBRA DEL DEBITO PUBBLICO140

È semplice ricavare la relazione di frontiera:

dove indica il saldo primario pari alla differenza fra la spesa pubblica complessiva al netto degli oneri sostenuti per il pagamento degli interessi sul debito, G e le entrate pubbliche complessive T 141.

Si parte dalla seguente identità:

La (2) dice che il disavanzo complessivo deve essere finanziato con un aumento del debito e con uno della base monetaria142. Tenendo conto che quest’ultimo può considerato praticamente nullo, essendo controllato dalla Banca centrale europea con i suoi obblighi statutari, si ottiene la seguente relazione dinamica del debito:

140

Si veda Conti G. e Mastromatteo G., «La sostenibilità del debito pubblico in Italia (dall’Unità a oggi): una verifica dei modelli di Luigi Pasinetti e Sylos Labini», Working Paper, 2011, p. 32-33.

141

Nella presente trattazione si considera come disavanzo (spese – entrate) anziché in

termini più generali come saldo (entrate – uscite). Pertanto, il segno del coefficiente del secondo

termine è invertito rispetto alla (1):

142

Si veda Carlucci F., «Sul rientro dal debito pubblico», in Moneta e Credito, vol. 65, n. 258, 2012, p. 146-147 e Istituto dell’Enciclopedia italiana, Enciclopedia delle scienze sociali, vol. 2; Classe – Diplomazia, Roma, 1992, p. 685 e

172 dove indica la variazione del debito necessaria a finanziare il fabbisogno complessivo.

Indicando con:

il tasso di crescita del Pil e ponendo per semplicità:

si ottiene con le opportune semplificazioni:

per cui si ha:

La condizione di sostenibilità del debito nel lungo periodo è espressa nella seguente forma:

Dividendo la (3) per D, si ha:

La (9) divisa e moltiplicata per Y diventa:

173

Utilizzando la (11) e la (4), la (7) diventa143:

per cui vale la seguente condizione di sostenibilità:

ossia:

143

Si noti che la variazione del debito dipende positivamente dal tasso di interesse nominale e negativamente dal tasso di crescita del prodotto nominale. Ciò significa che quanto più aumenta il tasso di interesse, tanto più cresce il debito; al contrario, quanto più aumenta il tasso di crescita, tanto più esso diminuisce.

174

APPENDICE 2

RAPPRESENTAZIONE GRAFICA DEGLI INDICI DI CONVERGENZA/DIVERGENZA144

144

Si veda Pasinetti L., «The myth (or folly) of the 3% deficit/Pil Maastricht 'parameter'»,

Cambridge Journal of Economics, 22, n. 1, 1998, pp. 14-16.

-5 -4 -3 -2 -1 0 1 2 3 0 10 20 30 40 50 60 70 80 90 100 110 120 130 140 S p/Y D/Y

Svezia

y=(-3,9%)x

175 -2 -1,5 -1 -0,5 0 0,5 1 1,5 2 0 10 20 30 40 50 60 70 80 90 100 110 120 130 140 S p/Y D/Y

Belgio

y=(-1,2%)x -4 -3 -2 -1 0 1 2 0 10 20 30 40 50 60 70 80 90 100 110 120 130 140 S p/Y D/Y

Danimarca

y=(-2,9%)x

176 -4 -3 -2 -1 0 1 2 0 10 20 30 40 50 60 70 80 90 100 110 120 130 140 S p/Y D/Y

Germania

y=(-2,4%)x -2 -1,5 -1 -0,5 0 0,5 1 1,5 2 2,5 3 0 10 20 30 40 50 60 70 80 90 100 110 120 130 140 S p/Y D/Y

Italia

y=(1,9%)x

177 -6 -3 0 3 6 9 12 15 18 21 0 10 20 30 40 50 60 70 80 90 100 110 120 130 140 150 S p/Y D/Y

Grecia

y=(13%)x -30 -25 -20 -15 -10 -5 0 5 10 15 0 10 20 30 40 50 60 70 80 90 100 110 120 130 140 S p/Y D/Y

Irlanda

y=(9%)x

178

CONCLUSIONI

La crisi iniziata nel 2007 non si è conclusa, ma ha attivato un meccanismo circolare “di trasmissione”, spostando l’epicentro dai debiti privati a quelli pubblici e dagli Stati Uniti all’Europa.

Essa, dunque, ha mutato i termini della questione in maniera progressiva: nata dalle famiglie americane incapaci di pagare i mutui, si è trasferita alle banche che avevano concesso mutui a chi non era in grado di onorarli, per poi scaricarsi sugli Stati che sono dovuti intervenire con forti iniezioni di liquidità per salvare il sistema finanziario a tal punto da far esplodere il loro debito pubblico.

L’impatto sull’Europa della crisi statunitense è stato – mondialisation oblige – talmente rapido da snaturare qualsiasi nozione di disaccoppiamento delle due economie (Anderson, 2011, p. 506). In Europa, come negli Stati Uniti, lo sconquasso portato dalla crisi ha avuto una notevole incidenza sia in termini di maggiori uscite per sostenere l’economia che di minori entrate fiscali.

“Le misure eccezionali adottate sulla scia della crisi sono costate molto al bilancio pubblico. Il debito pubblico è aumentato significativamente,

179 compensando meccanicamente la diminuzione del debito privato cominciata dall’inizio della crisi” (Torres, 2012, p. 32). In altri termini, lo spostamento dell’onere del debito dalle famiglie e/o imprese allo Stato ha determinato un disavanzo pubblico crescente, che ha indotto all’emissione di nuove obbligazioni, le quali hanno caricato di ulteriori interessi l’emittente, rendendo sempre più insostenibile la dinamica del debito pubblico. Questo, a sua volta, ha avuto un immediato riflesso sull’andamento dei corsi azionari e sui movimenti di cambio delle valute, che, accentuando l’elevata volatilità dei mercati, hanno creato le premesse per una crescente instabilità.

Tuttavia, ciò che ha aggravato la crisi nel periodo 2008-2009 sono stati i ristretti margini di manovra delle politiche economiche: le politiche monetarie sono state spinte fino al loro limite con tassi di interesse prossimi allo zero e significativi incrementi di liquidità, mentre le politiche fiscali sono state costrette entro i limiti imposti dal servizio del debito pubblico. Ne è conseguito che la ripresa, verificatasi dalla seconda metà del 2009, è stata essenzialmente di natura finanziaria, dato che l’economia reale è rimasta pressoché stagnante145.

La crisi greca, che è esplosa alla fine del 2009 e che ha ripreso vigore all’inizio del 2010, ha rivelato la fragilità del progetto di costruzione dell’Unione monetaria europea dominata dal neoliberismo.

L’area euro soffre principalmente di tre ordini di problemi da un punto di vista strutturale:

145

In tal senso l’Eurozona appare straordinariamente debole: l’assenza di una struttura che consenta l’operare congiunto delle politiche fiscali e l’esistenza della moneta unica sono un mix assolutamente micidiale ai fini di una ripresa (Skildesky, 2012).

180  La Banca centrale europea si distingue dalle altre Banche centrali. In primo luogo, essa ha un unico obiettivo, ossia quello di contenere l’inflazione. Al contrario, la Banca centrale americana (la Fed) ha tra i suoi obblighi statutari quello di favorire la crescita e l’occupazione, usando opportunamente i tassi di interesse e l’aumento dell’offerta di moneta. In secondo luogo, la Bce non può prestare denaro agli Stati membri né finanziare il debito pubblico emettendo nuova moneta, come invece ha fatto la Fed;

 L’adozione di una moneta unica non consente agli Stati deboli di usare la svalutazione per far fronte alla loro scarsa competitività;  L’Unione monetaria trae origine da un’armonizzazione delle politiche

monetarie, a cui si accompagna una forte differenziazione nelle politiche di bilancio tra i suoi Stati membri. Manca, dunque, una convergenza reale delle economie europee che le spinge a dividersi tra centro e periferia.

La crisi mette in risalto lo squilibrio esistente tra il centro dell’Europa, in particolare la Germania che ha puntato su un modello di sviluppo basato sulle esportazioni, e la periferia, che finora ha agito da acquirente facendo leva sul consumo interno. A ciò contribuisce il fatto che l’euro impedisce un riequilibrio della bilancia commerciale tra i singoli Stati membri dell’Unione monetaria, penalizzando i paesi vulnerabili che non possono svalutare la propria moneta per incentivare le esportazioni.

181 In questo quadro generale, si inserisce l’eccezionale congiuntura del 2011- 2013, durante la quale giungono a scadenza una massa di titoli sia privati che pubblici, molto più elevata rispetto al passato e che si aggiunge alle nuove emissioni prodotte dal crescente disavanzo pubblico. Al tempo stesso, si assiste ad una fase in cui gli investitori chiedono tassi di interesse sempre più elevati, lasciando dubbi sull’effettiva capacità di assorbimento dei titoli da rifinanziare o da sottoscrivere per la prima volta. Questo naturalmente spiega perché le agenzie di rating siano orientate ad annunciare un declassamento dei bond dei governi europei.

A questo punto, è possibile tracciare il sentiero di sviluppo della crisi attuale: essa si manifesta con l’iniziale squilibrio tra i paesi del centro e quelli della periferia; prosegue poi come una lotta tra i mercati finanziari, che vogliono ormai far crollare la moneta unica, e i deboli Sati europei, che tentano di “stringere la cinghia” per il timore di un default sovrano; culmina infine con l’indecisione delle istituzioni europee di portare avanti un progetto di costruzione dell’Unione pienamente solidale. Tutto questo non fa altro che alimentare la crisi stessa, favorendo la speculazione finanziaria.

Se persiste nel tempo, ci sono ottime ragioni per ritenere che la crisi finirà per guidare l’Europa in una direzione centrifuga o centripeta: verso soluzioni divergenti dettate dagli imperativi nazionali che potranno condurre ad una deflagrazione dell’area euro o verso una maggiore integrazione, le cui probabili forme saranno un’estensione del mercato unico ai servizi, un’armonizzazione dei

182 regimi fiscali o la creazione di un mercato comune dei bond europei (Anderson, 2011, pp. 508-509).

La seconda alternativa sopra delineata, benché la più auspicabile, incontra oggi non poche resistenze politiche sul suo cammino, dovendosi scontrare con l’ostilità di gran parte dell’opinione pubblica dei paesi interessati. Pertanto, in assenza di novità sostanziali, l’Unione monetaria alla lunga non reggerà senza una concreta unificazione economica e politica.

In questa prospettiva, le principali responsabili sono le istituzioni europee, le quali non si sono accorte dei possibili pericoli derivanti tanto dagli squilibri delle economie reali quanto dalla deregolamentazione finanziaria. Esse hanno lasciato crescere gli squilibri all’interno dell’Europa, non curandosi del fatto che i paesi del centro guadagnassero in termini di competitività ed eccedenze commerciali, mentre i paesi della periferia si trovassero dinanzi alla bolla immobiliare e all’aumento del debito privato. Non solo, esse si sono a lungo concentrate sul rispetto di norme arbitrarie stabilite dal Trattato di Maastricht (1992) e dal Patto di stabilità e crescita (1997). Come abbiamo osservato, il rispetto dei limiti del 3% per il rapporto deficit/Pil e del 60% per il rapporto debito pubblico/Pil non tiene in giusta considerazione il fatto che un livello sostenibile del debito pubblico su Pil può essere garantito da infinite combinazioni di deficit e debito.

Ecco che invece di prendere atto di questa cecità e porvi rimedio, il 2 marzo 2012 i capi di Stato o di governo di tutti gli Stati membri dell’Ue, esclusi il Regno Unito e la Repubblica Ceca, hanno firmato un patto di bilancio, il cosiddetto

183 Fiscal Compact, come parte del nuovo Trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance nell’Unione economica e monetaria. La ratio del patto di bilancio è quella di portare all’estremo i precedenti Trattati, imponendo ai paesi una maggiore rigidità fiscale mediante l’introduzione di una regola per il pareggio di bilancio, comprendente un meccanismo automatico correttivo, ed il rafforzamento della procedura per i disavanzi eccessivi146.

Per quanto riguarda il pareggio di bilancio, la regola impone ai paesi di mantenere posizioni di bilancio in equilibrio o in avanzo. Essa si considera rispettata se il saldo di bilancio strutturale annuo147 è in linea con l’obiettivo a medio termine (OMT) specifico per paese, come definito nel meccanismo preventivo del PSC, con il vincolo di un disavanzo strutturale non superiore allo 0,5% del Pil148. I paesi devono altresì garantire una “rapida convergenza” verso il rispettivo OMT, entro un periodo di tempo che sarà definito dalla Commissione europea tenendo conto dei rischi specifici di ciascun paese sul piano della sostenibilità. Essi non possono deviare dal rispettivo OMT o dal percorso di avvicinamento allo stesso se non in circostanze eccezionali. In caso di deviazioni significative, un meccanismo di correzione verrà attivato automaticamente al fine di rettificare tali deviazioni.

146

Oggi una rigorosa disciplina fiscale, sebbene sia richiesta dalle organizzazioni finanziarie internazionali in nome dei “mercati” i cui attacchi cercano di domare, è probabilmente contro- producente nel mezzo di una crisi (Nuti, 2011, pp. 8-9).

147

Come nel PSC, il saldo strutturale viene definito in termini di saldo annuale corretto per il ciclo economico al netto delle misure temporanee e una tantum.

148

“Un disavanzo strutturale più elevato, fino ad un massimo dell’1% del Pil, è consentito solo quando il rapporto fra il debito pubblico ed il Pil è significativamente inferiore al 60% e i rischi sul piano della sostenibilità a lungo termine delle finanze pubbliche sono bassi” (Bce, 2012c, p. 89).

184 Sotto tale profilo, il quasi-equilibrio delle finanze pubbliche sancito dal patto di bilancio sembra non avere alcuna giustificazione economica. In primo luogo, un bilancio pubblico in equilibrio o in avanzo non è condizione né necessaria né sufficiente per garantire la sostenibilità del debito pubblico, poiché essa dipende dalla capacità di un’economia di crescere ad un tasso più lento (o più rapido) del tasso di interesse pagato sul debito. In secondo luogo, c’è una lezione keynesiana di cui bisogna tener conto, ossia che il totale delle differenze fra spese ed entrate pubbliche, fra investimenti e risparmi, fra esportazioni ed importazioni, deve risultare pari a zero non per una teoria economica controversa ma per un principio di coerenza nella contabilità nazionale. Ne consegue che “il saldo del bilancio pubblico non può essere considerato uno strumento di politica economica, ma soltanto un obiettivo che può essere o non essere realizzabile a seconda dei comportamenti degli agenti economici nazionali e dei partners commerciali da cui fortemente dipende. Ad esempio, il raggiungimento dell’equilibrio nei conti pubblici sarebbe facilitato dall’eliminazione o almeno la riduzione del surplus commerciale che la Germania realizza nei confronti dei suoi partners europei, o che la Cina realizza nei confronti degli Stati Uniti” (Nuti, 2011, p. 9).

Per quanto riguarda l’aspetto procedurale, i paesi appartenenti all’area euro149 si impegnano a sostenere le proposte o le raccomandazioni presentate dalla Commissione al Consiglio, a meno che una maggioranza qualificata di essi si

149

Il patto di bilancio non riguarda la procedura per i disavanzi eccessivi per gli Stati membri dell’Ue esterni all’area euro.

185 opponga150. Un’ulteriore novità in questo ambito è che il paese soggetto alla procedura per i disavanzi eccessivi deve predisporre un programma di partenariato economico e di bilancio che comprenda una descrizione dettagliata delle riforme strutturali necessarie per una correzione effettiva e duratura del suo disavanzo eccessivo.

Il patto di bilancio richiama anche gli obblighi giuridici dei paesi aventi un elevato livello del debito pubblico su Pil. In particolare, esso rafforza la regola per la riduzione di un debito pubblico superiore al 60% del Pil151, disponendo altresì che in caso di inosservanza, si applichino le stesse misure di infrazione previste per i disavanzi eccessivi.

Questa regola ha due rilevanti implicazioni:

1) presuppone che un rapporto debito pubblico su Pil pari al 60% sia un valore ottimale realizzabile da tutti i paesi. In realtà, come riconosciuto da Pasinetti, non esiste alcuna teoria economica in grado di stabilire quale livello del rapporto tra debito pubblico e Pil sia ottimale e, quindi, il valore di riferimento del 60% non può essere considerato come un limite di sostenibilità del debito pubblico, poiché, sul piano strettamente teorico, il limite di sostenibilità del

150

“Questo implica che, ad esempio, se la Commissione dovesse concludere che un paese dell’area euro viola il criterio del disavanzo in quanto ha accumulato un disavanzo eccessivo ed indirizzasse di conseguenza un parere allo Stato membro ed una proposta al Consiglio, la proposta sarebbe approvata a meno che vi sia opposizione da parte di una maggioranza qualificata dei paesi dell’area membri del Consiglio” (Bce, 2012c, p. 97). Si noti, invece, che nel caso di violazione del criterio del debito da parte di un paese dell’area euro, resta valida la procedura di decisione prevista dal PSC (approvazione a maggioranza qualificata degli Stati membri dell’Ue appartenenti all’area euro escluso il paese interessato).

151

Gli Stati membri il cui rapporto debito/Pil superi il valore di riferimento del 60% devono ridurre tale eccedenza a un ritmo medio di un ventesimo all’anno.

186 debito pubblico non può che derivare da scelte di ordine politico, dunque estranee ad un calcolo puramente economico (Forges Davanzati, 2013). Inoltre, l’evidenza empirica mostra chiaramente che un paese come l’Italia ha avuto a lungo un debito pubblico superiore al 100% del Pil senza presentare particolare problemi di sostenibilità, dal momento che questo debito poteva essere compensato da avanzi primari superiori in media al 3% del Pil.

2) Obbliga ad una riduzione del debito pubblico in regime di crisi e bassa crescita economica, ignorando che la sostenibilità del rapporto tra debito pubblico e Pil non dipende dallo stock del debito, ma dalla capacità dell’erario di coprire il pagamento degli interessi. La premessa di fondo è che l’interesse non comporta problemi di redistribuzione del reddito attraverso le imposte né fa crescere la pressione fiscale se viene pagato con l’aumento della crescita economica che consegue all’impiego produttivo del debito pubblico (Sylos Labini, 2003, pp. 124-125). Da questo punto di vista, la riduzione forzata del debito pubblico, che si sostanzia in misura attualmente prevalente in una riduzione della spesa pubblica, in quanto riduce l’occupazione ed il reddito, contribuisce a frenare la crescita economica, rendendo oneroso il pagamento degli interessi che è alla base della condizione di sostenibilità. Pertanto, essa non può

187 trovare giustificazione nell’obiettivo primario di garantire la sostenibilità delle finanze pubbliche152.

D’altra parte, gli sforzi generalizzati da parte dei governi dei paesi europei di bilanciare simultaneamente i loro conti pubblici può dare luogo ad una combinazione perversa di squilibri preesistenti insieme ad un livello di occupazione e reddito inferiore a quanto sarebbe possibile ottenere senza tali sforzi.

A chi sostiene che tutto ciò che bisogna fare è rendere più stringenti i vincoli di Maastricht si può rispondere menzionando il caso della Spagna. Prima della crisi, infatti, le finanze pubbliche spagnole erano sostenibili poiché, a parità di altre variabili economiche, i surplus primari erano sufficienti a pagare gli interessi e una parte del debito in essere. Oggi, viene meno la condizione di sostenibilità dato che il paese è in forte deficit, con l’aumento del rendimento dei titoli di Stato spagnoli che produce effetti avversi sul reddito e l’occupazione.

Pertanto, finanze pubbliche sane e sostenibili costituiscono il presupposto fondamentale per la crescita economica e la stabilità finanziaria. Questa tesi è anche avvalorata dagli attacchi speculativi che tendono a rafforzarsi nei mercati dei titoli di Stato di alcuni paesi dell’area euro, caratterizzati da gravi squilibri e vulnerabilità di bilancio.

152

In passato la riduzione del debito pubblico veniva motivata con una tesi inerente all’equità