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La crisi del debito nei paesi dell’area euro

2.1. Le determinanti della cris

Secondo la gran parte degli economisti americani, l’Unione monetaria europea nasce senza rispettare tutti i criteri della cosiddetta optimum currency area63, criteri in base ai quali i benefici derivanti dall’adesione all’Uem, cioè dalla condivisione dell’euro, sono superiori ai costi.

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La teoria economica delle aree valutarie ottimali, formulata da Mundell (1961), sostiene che un gruppo di paesi avrà benefici a formare un’unione monetaria se sono soddisfatti tre criteri fondamentali:

– il grado di correlazione tra l’andamento dei cicli economici dei paesi appartenenti all’unione è elevato;

– il grado di mobilità del lavoro e la flessibilità dei salari all’intero dell’unione sono elevati;

– esiste una politica fiscale centralizzata in grado di trasferire risorse dai paesi in espansione a quelli in recessione.

Rispetto al primo criterio, l’Europa pare in condizione di soddisfarlo: l’interscambio commerciale dei paesi europei avviene al 60% all’interno dell’Unione ed è molto intenso. Tuttavia, rispetto agli altri due importanti criteri, l’Europa non sembra assolutamente caratterizzare un’area valutaria ottimale (Krugman, 2012, p. 195).

61 Nel contesto accademico americano, lo scetticismo e le perplessità verso l’integrazione monetaria europea sono imputabili ad un progetto considerato debole per la mancanza di meccanismi di ridistribuzione pan-europea, bassa mobilità del lavoro e la più elevata frequenza di shock asimmetrici64.

La fragilità del progetto europeo risiede nel fatto che la creazione dell’euro – suggellata dall’entrata in vigore del Trattato di Maastricht il 1° novembre 1993 – è stata guidata dalla visione neoliberista che considera le istituzioni un ostacolo al funzionamento dei mercati. Pertanto, “a livello comunitario, si è puntato essenzialmente sul mercato e sulla moneta, trascurando il necessario ruolo complementare delle istituzioni e delle politiche” (Pizzuti, 2012, p. 75). Era appena stato introdotto il mercato unico, un’area commerciale più integrata rispetto al passato, ed ultimata la liberalizzazione dei movimenti dei capitali. La guerra fredda, la caduta dei regimi dell’est europeo, la riunificazione della Germania aprivano scenari diversi e opportunità nuove di integrazione per i paesi europei. L’obiettivo era quello di stimolare la crescita con più efficienza ed investimenti favoriti da capitali mobili (Pianta, 2012, p. 17). Attraverso la costruzione di un’area di libera circolazione di merci, persone, servizi e capitali, si riteneva che la maggiore concorrenza fra i vari sistemi nazionali su un mercato europeo meno frammentato avrebbe promosso il rilancio produttivo e, di conseguenza, generato un rinnovato benessere per l’intera collettività europea.

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A tal riguardo, “Eichengreen (2010) ritiene che proprio la crisi economica possa fornire l’impulso per una più profonda integrazione e sottolinea che questa prospettiva richiede non tanto più stretti legami economici, quanto un orientamento verso un più forte coordinamento delle politiche” (Mastromatteo, 2012, p. 37).

62 Naturalmente, la ristrutturazione del mercato europeo imponeva l’esigenza di una contestuale ristrutturazione degli organi di gestione della politica economica. Ciò ha fatto sì che la gestione della politica monetaria venisse conferita ad un’unica istituzione sovranazionale e che le politiche fiscali nazionali si attenessero al rispetto dei vincoli previsti dal Trattato di Maastricht e dal Patto di stabilità e crescita (Gnesutta, 2012, p. 34-35).

In quest’ottica, il progetto europeo mirava ad abbassare inflazione e tassi di interesse, ridurre deficit e debito pubblico, garantire condizioni finanziarie più favorevoli ai paesi aderenti all’Unione, al fine ultimo di pervenire attraverso una stabilizzazione dei cambi alla moneta unica. Pertanto, i governi europei rinunciavano agli strumenti “keynesiani” che avevano sostenuto la crescita del dopoguerra (aumento della spesa pubblica e svalutazione del cambio), confidando nella forza trainante della domanda privata per investimenti ed esportazioni.

A vent’anni dall’accordo di Maastricht emerge la totale delusione delle aspettative: l’Europa non ha trovato una fonte alternativa di domanda, nonostante la buona performance economica dell’area core edificata intorno alla Germania65

; gli investimenti sono aumentati marginalmente e si sono indirizzati sempre più verso gli alti rendimenti della finanza “tossica”, specie quella interna all’Europa dove i titoli di Stato della periferia hanno svolto un ruolo analogo ai mutui

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Con l’euro, l’economia tedesca, così come le restanti economie del Nord Europa, godono di un’implicita svalutazione competitiva, determinata dal fatto che i disavanzi commerciali del Sud Europa rendono il cambio nominale dell’euro meno elevato di quanto sarebbe con il marco, o un euro ristretto all’area core. Questo vantaggio impedisce alla Germania di liberarsi dell’euro e la costringe a salvare le economie più deboli che, appunto, le garantiscono un cambio competitivo (Ferrari, Leon, Palma, Romano, 2012, p. 44 )

63 subprime negli Stati Uniti; i consumi sono rimasti fermi per i bassi salari e la crescente disuguaglianza dei redditi; la spesa pubblica è stata frenata dai vincoli del Patto di stabilità e crescita. È vero che l’affermazione dell’euro come moneta mondiale – la prima moneta che dietro di sé non ha oro e riserve – è stata un successo, ma è anche vero che il nuovo spazio per la politica europea non è stato pienamente utilizzato poiché è mancato il coordinamento delle politiche fiscali, sia dal lato delle entrate, vista la mancata armonizzazione delle tasse e la sussistenza di paradisi fiscali all’interno dell’Unione, sia dal lato delle spese, in assenza di una spesa pubblica a scala europea che compensi i tagli a scala nazionale (Pianta, 2012, p. 18). Inoltre, in un’area strutturalmente disomogenea come quella europea, con notevoli differenze in termini di produttività del lavoro e di infrastrutture, il progetto di convergenza nominale ha finito per ampliare la divergenza reale (Bellofiore, 2012, p. 53). Il risultato è che non vi è stata alcuna crescita economica, bensì solo uno spostamento del Pil europeo dai salari ai profitti e alle rendite finanziarie, che ha determinato una disoccupazione elevata.

Ecco perché l’Unione monetaria europea si caratterizza come un’unione incompleta particolarmente fragile ove, in presenza di uno shock ed, in particolare, di un attacco speculativo, la fragilità può determinare condizioni di illiquidità che se non rimediate presto e bene, diventano condizioni di insolvenza (Vaciago, 2011, p. 1).

A dimostrazione di ciò, Paul De Grauwe (2011a, p. 40) pone a confronto Spagna e Regno Unito ed osserva che i tassi di interesse dei tioli decennali

64 spagnoli sono di 200 punti base più elevati rispetto a quelli dei titoli britannici, sebbene il debito ed il disavanzo della Spagna siano significativamente più bassi rispetto a quello del Regno Unito (figure n. 18 e n. 19). Ma come ha osservato l’autore, la Spagna si trova di fronte ad un rischio che non tocca il Regno Unito: il possibile default66.

Tabella n. 18 – Tassi di rendimento dei titoli di Stato decennali di Regno

Unito e Spagna

Fonte: Datastream cit. da De Grauwe (2011a, p. 41)

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Pertanto, dietro agli elevati tassi di interesse di alcuni stati europei si nasconde la paura del default (Krugman, 2012, p. 158).

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Tabella n. 19 – Debito pubblico di Regno Unito e Spagna

Fonte: AMECO cit. da De Grauwe (2011a, p. 41).

“Secondo De Grauwe (2011b), in una Unione monetaria i paesi diventano vulnerabili a movimenti di sfiducia autoavverantesi che innescano una interazione viziosa tra crisi di liquidità e di solvibilità”67

(Pessoa, 2011, p.11). In altri termini, la perdita di fiducia da parte degli investitori può rendere il paese insolvente per il timore di un default indotto dalla crisi di liquidità (vedi Kopf, 2011).

Partendo dal presupposto che gli Stati membri di una Unione monetaria emettono il debito in una valuta sulla quale non esercitano alcuna sovranità

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Si tratta di due concetti distinti:

 La solvibilità è un concetto di medio-lungo termine che implica il rispetto del vincolo

intertemporale di bilancio del governo, secondo cui il valore attuale dei futuri saldi primari del governo deve essere almeno pari a quello del debito pubblico in essere (“concetto di flusso”);

 La “liquidità” è un concetto di breve termine che si riferisce alla capacità del governo

di mantenere l’accesso ai mercati finanziari in modo da poter onorare tutti gli obblighi a venire nel breve periodo.

66 monetaria68, De Grauwe dimostra che l’unione monetaria ha dinamiche potenzialmente distruttive, in quanto gli Stati membri sono molto più vulnerabili a crisi di liquidità rispetto ai non membri. Quando gli investitori temono qualche difficoltà di pagamento da parte di uno Stato membro, la liquidità viene immediatamente bloccata con la vendita dei titoli sui mercati. Pertanto, il paese non sarà più capace di rinnovare il debito in scadenza, poiché nessuno sarà disposto ad acquistare i nuovi titoli per rimborsare i vecchi. Questo determinerà un crollo dei prezzi obbligazionari e, per contro, un innalzamento dei tassi di interesse che, a sua volta, porterà ad un progressivo aumento del costo del servizio del debito. Si tratta di una predizione autoavverantesi: lo Stato membro diventerà insolvente, proprio perché gli investitori ne hanno temuto l’insolvenza69

.

A questo punto, occorre chiedersi per quale ragione i paesi periferici abbiano voluto aderire all’Unione monetaria europea. Ebbene, la ragione è da ricercarsi nella più bassa percezione del rischio da parte dei mercati finanziari, i quali hanno

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I Paesi che fanno parte dell’Eurozona non possiedono una propria valuta nazionale, ma la condividono con altri, ragion per cui i loro debiti non possono considerarsi «sovrani» in senso assoluto. Non solo, tali debiti non possono rientrare neanche nella categoria di quelli «in valuta», poiché non sono emessi in una moneta che possa essere definita estera. Pertanto, è del tutto ragionevole collocarli in una categoria intermedia fra le due tradizionali: con un neologismo, i

debiti dei Paesi dell’Eurozona possono essere definiti «quasi-sovrani». Ne deriva che la creazione

dell’euro ha determinato numerose novità, fra cui la capacità di emettere debiti pubblici in una valuta che non può essere definita né nazionale, né estera. “La moneta è comune e viene governata dalla medesima banca centrale, ma i debiti sono in capo a Stati diversi, con politiche fiscali che possono differenziarsi in misura considerevole. I rischi di insolvenza sono certamente dissimili e possono anche essere influenzati dalle diverse capacità dei singoli Paesi di condizionare la politica della Banca centrale europea (Gentili, 2011.)

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Al contrario, questo non può accadere in uno Stato non membro dell’Unione monetaria europea, come il Regno Unito, che si finanzia nella propria divisa ed può contare sull’intervento della banca centrale per l’acquisto dei titoli. Per questa ragione, i debiti dei paesi che non fanno parte dell’Eurozona non presentano rischi di insolvenza ed i relativi tassi di rendimento sono considerati risk free. Ciò non significa che tali debiti siano esenti da rischi, quali il rischio di un deprezzamento monetario, di cambio o di altra natura, bensì si considera certa la capacità di rimborso del debitore che esercita la sovranità monetaria.

67 accolto favorevolmente l’aggancio delle economie periferiche ad economie più avanzate e mature.

Dall’ingresso nell’Uem i paesi europei hanno assistito ad una graduale convergenza dei tassi di interesse sui titoli di Stato. Si osservi, infatti, che lo spread70 dei titoli di Stato a lungo termine della Spagna rispetto alla Germania ha cominciato ad oscillare su livelli molto bassi, mentre quello del Regno Unito continuava a registrare ancora ampie oscillazioni (figura n. 20).

Con i tassi di interesse più bassi i paesi periferici hanno abusato della fiducia dei mercati finanziari per espandere il loro indice di indebitamento, in modo da poter replicare le politiche fiscali dei partner europei più virtuosi piuttosto che puntare all’aggiustamento in termini reali (Costa Fernandes e Mota, 2011, p.642). Pertanto, le condizioni delle loro finanze pubbliche erano già deboli quando è iniziata la fase di rallentamento, dopo la crisi finanziaria internazionale. Di conseguenza, la combinazione di ampi disavanzi pubblici e di ingenti costi sostenuti a favore del settore bancario71 ha condotto all’esplosione del debito pubblico nell’area euro.

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Lo spread è il principale termometro del grado di fiducia degli investitori. Letteralmente significa «differenziale, scarto». Esso, infatti, misura il differenziale di rendimento tra i titoli di Stato a lungo termine dei paesi dell’Eurozona ed il corrispettivo benchmark tedesco, il bund, ritenuto a basso rischio. In altri termini, lo spread indica quanto un paese deve pagare in più rispetto alla Germania in termini di interessi per trovare degli investitori disposti a finanziarlo e, quindi, ad acquistare i suoi titoli. Ne deriva che più elevato è lo spread, maggiore è il rischio percepito dagli investitori verso i titoli di Stato (Sole 24 Ore, n. 218, 2011, p. 128).

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Dal rapporto della Commissione europea sulla crisi, si evince che a livello dell’area euro, un totale di circa 3 trilioni di euro viene approvato per gli aiuti di Stato al settore bancario, di cui 1,5 trilioni viene effettivamente utilizzato per le iniezioni di capitale, le garanzie sul debito, il supporto alla liquidità ed il trattamento delle attività deteriorate.

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Tabella n. 20 – Spread dei titoli di Stato a lungo termine di Regno Unito e

Spagna rispetto alla Germania

Fonte: Elaborazione su OECD, Statistics, Database, Long-term interest rates.