L’incontro con i Fasci di combattimento (febbraio - giugno)
Nel gotha della “nuova politica”, Mussolini costituiva senza dubbio una voce autorevole, pur rimanendo ai margini della rappresentazione fiumana. Nonostante i disastrosi risultati delle elezioni politiche, il “Popolo d’Italia” continuò venerare d’Annunzio, figura mitica e lontana che permetteva di presentarsi all’agone politico come paladino della difesa adriatica e della lotta antisocialista. Tra i capi del combattentismo che s’identificavano con il poema dannunziano di Fiume, Mussolini appariva senz’altro il più “democratico”. Carli dichiarava apertamente la sua simpatia per i metodi di Lenin e cercava di uniformare l’eredità politica della guerra a un codice preciso di riti guerrieri; De Ambris, allo scopo di creare un movimento sindacale centralizzato, governava una città limitandone fortemente le libertà civili. Fino all’inverno 1920, Mussolini conservava il proprio ruolo di paladino giornalistico della causa fiumana, e attraverso il Comitato Centrale dei Fasci di Milano si limitò ad avvallare le iniziative solidaristiche dei Fasci provinciali. In febbraio, tuttavia, dovette iniziare a fare i conti con la marcia di De Ambris verso “l’interno”, e incoraggiare i Fasci a collaborare con i riti del regime dannunziano. Fascismo e fiumanesimo iniziarono dunque il loro sodalizio simbolico collaborando a un’iniziativa di grande impatto: l’accoglienza dei bambini fiumani in Italia766.
Il progetto nacque nel contesto della comune lotta antisocialista. In gennaio aveva preso avvio un’iniziativa promossa dal Psi e dalle amministrazioni socialiste a favore degli indigenti viennesi, che consisteva nell’accoglienza di bambini presso famiglie italiane. Il progetto fu appoggiato dallo stesso governo, che sperò di far leva sul solidarismo “umbertino” della borghesia metropolitana.
765 “Le Associazioni Regionali [...] si adopreranno per far sì che vengano a Fiume personalità politiche influenti della
rispettiva regione, senza distinzione di partito, purché diano sufficiente affidamento di serietà e di sincerità”. Riorganizzazione della propaganda, «Bollettino Ufficiale» [seconda serie], n. 11, 4 marzo 1920.
Così, quando i vagoni con i bambini austriaci si fermarono nelle principali stazioni italiane, furono le amministrazioni socialiste a coordinare i comitati d’accoglienza e le famiglie ospitanti767.
In questo contesto, il Comitato Centrale dei Fasci reagì organizzando una rete di convogli dedicata all’accoglienza di bambini fiumani bisognosi, vittime del blocco governativo. La campagna iniziò a fine febbraio con la creazione di un asse Fiume-Milano: in aperta contrapposizione con l’amministrazione socialista di Palazzo Marino, il Fascio di combattimento milanese e il Comitato femminile pro-Fiume e il Comando dannunziano organizzarono un convoglio di bambini diretto nel capoluogo lombardo. A Fiume, la partenza dei bambini il 21 febbraio rappresentò l’occasione per dispiegare una nuova “manifestazione d’italianità” distribuita nel percorso dal teatro Fenice alla stazione ferroviaria. I bambini, inquadrati dalle insegnanti e dalle signore milanesi, assistettero al comizio in cui parlarono De Ambris, il delegato dei Fasci Pasella, e lo stesso d’Annunzio, che invitò i presenti a salutare con un Alalà “la crociata dei piccoli legionari”768. Pochi giorni prima, quando il primo bambino fiumano era partito in compagnia di un ufficiale dell’Ufficio propaganda, il “Comandante” in persona l’aveva decorato con una “stella d’oro” dedicata “al piccolo compagno eroico”769. Il pathos dovuto al folto pubblico di genitori e familiari fu così attutito da un canovaccio che trasformava il distacco in missione.
Parlando al Fenice, De Ambris aveva lodato l’iniziativa umanitaria dei compagni milanesi, ricordando anche “lo scopo di giovare alla causa, di correggere i falsi concetti che sono stati sparsi ad arte contro la città e il Comando”. L’iniziativa umanitaria assolveva una duplice esigenza politica: approfondire il controllo sui cittadini (culminato negli stessi giorni con la proclamazione della leva obbligatoria), e preparare il terreno alla rete propagandistica del Regno che, negli stessi giorni, era stesa dalle Associazioni legionarie regionali.
Nel frattempo furono i Fasci a farsi carico della rappresentazione fiumana nel Regno, stendendo un percorso di accoglienza trionfale in ogni stazione toccata dal convoglio. Oltrepassato il confine, la severità fiumana si trasformò in un commovente spettacolo condito di fiori, musica e grazia femminile. I bambini perdevano il loro ruolo attivo di depositari della causa e divennero il pegno emotivo di una tragedia che coinvolgeva gli adulti: erano le vittime innocenti della spietatezza e della cupidigia governativa, che soffocava i compatrioti ma permetteva di accogliere i “figli del nemico”. Il “Popolo d’Italia” e la “Vedetta” giovarono degli oleografici resoconti di Piero Belli; “Capirà, ci hanno insultato col passaggio dei bimbi di Vienna” gli dichiarò la madre di un caduto che partecipava ai festeggiamenti alla stazione di Verona770. Il giornalista rilevò come “inaspettatamente” quelle accoglienze fossero “una vera e propria manifestazione politica sottintesa” contro quell’affronto verso i fratelli irredenti e alla memoria dei caduti. La censura governativa e l’imposizione altalenante del blocco sulla città come arma di contenimento per nuove iniziative paramilitari, permetteva così alla propaganda fiumano-fascista di presentare l’arrivo dei piccoli irredenti come una breccia nel cordone sanitario innalzato intorno all’opinione pubblica: la “Vedetta” poteva commentare con compiacenza che “basta un episodio qualsiasi a destare le moltitudini dal loro letargo, a farle scattare e a fermare la loro volontà, il loro amore per gl’italiani
767 N. Adduci, Gli altri. Fascismo repubblicano e comunità nel torinese (1943-1945), Milano, Franco Angeli, 2014, p.
227, n. 36.
768 l saluto di Fiume ai bimbi chiamati dal fraterno amore di Milano, «La Vedetta d’Italia», 22 febbraio 1920. 769 Il primo bambino fiumano è arrivato in Italia, «La Vedetta d’Italia», 15 febbraio 1920.
770 “La fiera veronese, che non rifiniva di baciare e accarezzare i ‘nostri’ bambini, aveva visto ‘in quelli là’ venuti da
Vienna, forse - chissà? - i figli di quei kaiserjäger che sulle balze trentine le avevano ucciso l’unico figliuolo”. Le commoventi accoglienze dei nostri bambini in Italia, «La Vedetta d’Italia», 22 febbraio 1920. Per i bambini fiumani fiumani i cui genitori avevano indossato la divisa asburgica, questo non valeva: nella retorica annessionista, l’indiscutibile italianità rappresentava una redenzione retroattiva. Ciò nonostante, quest’insistenza sulla contrapposizione “etnica” non sembrava trovare il favore di De Ambris. Il 13 marzo il capo di Gabinetto dichiarò pubblicamente: “Per quanto l’atto di solidarietà umana verso i figli dei nemici di ieri abbia servito di pretesto per un’antipatica speculazione politica, noi non deploriamo che i piccoli derelitti di Vienna abbiano potuto trovare sul nostro suolo il pane ed il sole che non avevano in patria. Non siamo di quelli che voglion far pagare ai figli le colpe dei padri”. Fiume contro l’iniquo veto di Cagoia, «Bollettino Ufficiale» [seconda serie], n. 13, 24 marzo 1920
del Quarnaro”771. Così com’era avvenuto l’anno precedente, la questione adriatica era celebrata attorno a gruppi di testimoni itineranti, la cui sola presenza sacralizzava l’avvenimento e annullava ogni dibattito.
L’esempio di Milano fu seguito da altre città dove, nel corso della primavera, Fasci e comitati ad
hoc continuarono la campagna di affidamenti, trasformando ogni arrivo dei bambini fiumani in un
rito di solidarietà patriottica772. Una tale campagna rimetteva in circolo i valori dell’irredentismo e del combattentismo in chiave “libertaria”, rivelandosi un’efficace arma propagandistica. Consapevole di ciò, Nitti ordinò d’impedire a questi convogli l’ingresso nel Regno. Lo statista lucano dimostrava, ancora una volta, uno scarso senso tattico circa l’impatto che questa misura avrebbe avuto sul poema in diretta dal suo vecchio amico. D’Annunzio ricordò che tutto ciò avveniva, “mentre più di settemila piccoli viennesi sono oggi covati dalla tenerezza degli italiani incagoiati”773. Il 13 marzo si arrivò a convocare un affollato comizio al Fenice, dove De Ambris e d’Annunzio esecrarono il muro innalzato da “Cagoja”, minacciando di opporre resistenza armata a chiunque avesse impedito il passaggio dei piccoli774. La sospensione della censura governativa permise all’iniziativa di proseguire tramite l’associazionismo femminile “fascista” e Commissioni patriottiche fondate attorno a importanti personalità775. La partenza dei bambini diventò l’occasione per frequenti comizi al Fenice in onore delle delegazioni, come avvenne il 20 aprile per il comitato bolognese, di cui facevano parte i genitori di Francesco Baracca776. Nonostante la forte caratterizzazione borghese, la “crociata degli innocenti” fu il primo tentativo di trasferire capillarmente il poema fiumano nel Regno, seppure tramite il filtro di un’organizzazione svincolata dalla regìa dannunziana.
Il gruppo mussoliniano aveva intuito l’importanza di monopolizzare la causa fiumana. L’accoglienza dei bambini e la denuncia della reazione governativa diffusero l’immagine dell’unità d’azione tra fiumanesimo e fascismo. Quest’immagine doveva imporsi all’opinione pubblica e agli stessi aderenti, in modo da convogliare gradualmente verso l’organizzazione i sostenitori del “dramma” fiumano. Da quest’esigenza centralizzatrice derivò il tentativo di boicottare i comitati d’accoglienza indipendenti, o la costituzione di comitati d’agitazione contro il blocco, poste agli ordini del Comitato Centrale e con lo scopo di provocare manifestazioni e scontri con la polizia777. Ma l’unità d’azione tra fiumanesimo e fascismo si manifestò concretamente nella lotta al monopolio socialista del movimento operaio. La lotta contro il monopolio “pussista” del movimento operaio doveva passare attraverso un’efficace narrazione, che fosse in grado di rivolgersi all’immaginario della classe operaia. Per i fascisti animati dal sogno della “rivoluzione nazionale”, la Fiume di De Ambris e d’Annunzio rappresentava il naturale coronamento della marcia di Ronchi. Nella Fiume di d’Annunzio questa visione si sarebbe materializzata, grazie a De Ambris e a quella “carta costituzionale” che i suoi autori sognavano di estendere a tutto il combattentismo mazziniano. Tuttavia quando l’evangelico progetto costituzionale era ancora in bozze, il sindacalismo dannunziano ebbe l’occasione di manifestarsi concretamente.
771 Cit. Ibid.
772 Per altri esempi di partenza e accoglienza, ibid.; cfr. I bimbi di Fiume partono...,«Bollettino Ufficiale» [seconda
serie], n. 13, 24 marzo 1920; Le festose accoglienze di Fiume alle Donne di Bologna, «Bollettino Ufficiale» [seconda serie], n. 18, 28 aprile 1920. Cfr. Gerra, op. cit., I, pp. 263-269.
773 Secondo la versione data dai giornali sostenitori e dal “Bollettino”, che diffusero tempestivamente queste
osservazioni, esse erano parte di una lettera a un “amico di Trieste” non destinata alla stampa. La protesta del Comandante, «Bollettino Ufficiale» [seconda serie], n. 12, 12 marzo 1920.
774 Fiume contro l’iniquo veto di Cagoia, «Bollettino Ufficiale» [seconda serie], n. 13, 24 marzo 1920. Durante la serata
parlarono anche Mariani dell’Ufficio Propaganda e Attilio Depoli del Consiglio Nazionale. De Ambris rimarcò il tema della necessità di abbattere il muro della censura, e d’Annunzio minacciò di caricare i bambini su una nave pronta a far fuoco contro chiunque osasse fermarla.
775 L’abolizione della censura suggerì il progetto d’intensificare la diffusione regionale, come dimostra la copia (forse
unica) del “Bollettino Fiumano per il Piemonte”, n. 1, 29 marzo 1920.
776 Le festose accoglienze di Fiume alle Donne di Bologna, «Bollettino Ufficiale» [seconda serie], n. 18, 28 aprile 1920. 777 Su queste iniziative, v. Serventi Longhi, op. cit., pp. 154-155. cfr. De Felice, Il rivoluzionario, cit., p. 588, n. 5.
L’occasione si presentò ai primi di aprile proprio a Fiume, con uno sciopero generale unificato della Camera del Lavoro e delle Sedi Riunite (sciopero economico, assicurava il “Bollettino ufficiale”). Per il Comando rappresentò una prova di forza, tanto con i rappresentanti operai quanto con i notabili Consiglio Nazionale: per salvare la rappresentazione del Rinnovamento era necessario interrompere la mobilitazione “da sinistra” e, al contempo, impedirne una repressione “da destra”. De Ambris prese dunque le redini della trattativa, dirigendo a fianco di d’Annunzio i negoziati che si conclusero con la concessione di un salario minimo di 13 lire. Nei giorni successivi lo scrittore stese la cronaca della trattativa, pubblicata nel “Bollettino Ufficiale” col titolo Questo basta e non
basta778. Questo racconto in prima persona era destinato a restare una delle più suggestive pagine del poema in diretta. Il Rinnovamento entrava così a interessare la stessa identità letteraria dello scrittore, che vestita l’uniforme del “Comandante liberatore”, si preparava a iniziare una stagione artistica come “Tirteo” del proletariato. La classe dirigente cittadina poté allinearsi alla rappresentazione per tradurla in un appello all’unanimità, dimostrando ai “«compagni» dell’«Avanti!» e del «Lavoratore»” che “«il feroce dittatore», è tutt’altro che un nemico della classe operaia. Anzi”779. L’impresa era stata condotta e narrata all’insegna di uno dei pilastri del Comando di De Ambris: la lotta contro il socialismo ufficiale. Quando il tribuno sindacalista ripartì per uno dei suoi frequenti viaggi nel Regno, le Sedi Riunite lanciarono un nuovo sciopero il 19 aprile. Il gabinetto del colonnello Sani, preoccupato dall’organizzazione di un comizio ai giardini pubblici organizzato da socialisti e “zanelliani”, non ebbe remore a bollare lo sciopero come “manovra disfattista” di “una minoranza insidiosa”, e a reprimerlo duramente con l’appoggio del Consiglio Nazionale780. Forte dell’immagine costruita nei giorni precedenti e dell’appoggio della Camera del Lavoro, d’Annunzio suggellò la repressione con un proclama che ammoniva:
Può oggi parlare oggi alto e franco chi di recente ha difeso con aperto coraggio i diritti dell’operaio contro il datore di lavoro. Io non mancai di esporre alla Commissione le ragioni che sconsigliavano un nuovo turbamento ella vita cittadina in un’ora tanto grave per le sorti della città infelice e ammirabile. Quando il Comando ritirò le limitazioni alla stampa in risposta alla sospensione della censura governativa, “Il Lavoratore” e “L’Avanti!” rimasero banditi con l’accusa di falsa propaganda781. I sospetti di una leggenda nera creata dal socialismo aumentarono l’ascendente dannunziano su fascisti come Marsich, ormai proiettati nell’attesa messianica dell’annunciato “disegno costituzionale”. Le crescenti indiscrezioni intorno alla sua imminente promulgazione, le vaghe
778 Questo basta e non basta, «Bollettino Ufficiale» [seconda serie], n. 16, 13 aprile 1920. Per la cronaca dell’incontro, Lo sciopero generale, Ibid.. La trattativa venne sospesa nel primo pomeriggio per permettere a d’Annunzio di recarsi sulla costa ad una spettacolare esercitazione dell’artiglieria legionaria, che dimostrò “il vivo sentimento d’amore e di fede degli artiglieri per la città che hanno giurato di difendere ad ogni costo”. Il tiro d’esperimento delle batterie fiumane, Ibid.. D’Annunzio probabilmente non seguì tutta la trattativa. Sebbene il primo articolo riferisca che il colloquio riprese alle 17 “alla presenza del Comandante”, nel secondo si riferisce che l’esercitazione, alla quale lo scrittore presenziava a bordo di un Mas, terminò alle 17. 30. Nella cronaca letteraria della giornata vi si trova un vago riferimento: “Voi, lavoratori, tornaste ai lavoratori, riceveste le nuove forze del contatto della massa, dall’aderenza della volontà unanime. Io me ne andai sul mare, mi distesi a prua d’una piccola nave veloce, diedi la faccia al vento della verità e della libertà”.
779 E avanti, «La Vedetta d’Italia», e «Bollettino Ufficiale» [seconda serie], n. 16, 13 aprile 1920.
780 A Sani, che gli comunicava l’organizzazione del comizio, d’Annunzio rispose che “il comizio deve limitarsi alla
protesta d’indole economica. Non si può - nella città sotto regime di guerra - permettere un comizio politico. [...] Il momento è delicatissimo. I nostri non sono tornati da Roma. Rifletti. Noi dobbiamo udire la loro relazione, prima che qualcosa di nuovo entri nel giudizio dell’ora. Confido che gli Operai comprenderanno, e avranno ancora una volta fiducia in me che sono risoluto a difenderli”. G. d’Annunzio a M. Sani, 17 aprile 1920, AVp, Fondo Sani. Due giorni dopo, lo scrittore avvisò De Ambris: “Qui c’è stato un tentativo di sciopero, trasformato in vero complotto di gente straniera contro l’ordine della città. Le «Sedi riunite» da oggi sono diventate caserma della «fedelissima»” De Felice,
Sindacalismo rivoluzionario e fiumanesimo, cit., p. 172. Sulla repressione dello sciopero, v. Alatri, D’Annunzio, p. 472. Cfr. Il fallimento di una manovra disfattista, «Bollettino Ufficiale» [seconda serie], n. 17, 21 aprile 1920.
781 Le testate socialiste erano accusate di non rettificare le false notizie e le accuse di reazione a carico del Comando. Giornali riammessi a Fiume, «Bollettino Ufficiale» [seconda serie], n. 15, 7 aprile 1920.
dichiarazioni rilasciate da d’Annunzio, così come l’annuncio della “Lega di Fiume”, facevano sognare fascisti e legionari repubblicani ma, al contempo, portarono le tensioni nel corpo occupante al punto di rottura782.
Nella seconda metà di aprile, la creazione di una comunità legionaria con propri riti e con una costante legittimazione epica fatta d’immagini rivoluzionarie portò inevitabilmente a una spaccatura insanabile tra i protagonisti della nuova e della vecchia rappresentazione.
Il 6 maggio, il corpo dei carabinieri di Fiume e alcuni uomini della Firenze e della Sesia si adunarono per lasciare Fiume al comando del capitano CC Vadalà: i drammatici eventi che seguirono dimostrano il ruolo fondamentale di simboli e totem nella sopravvivenza della contraddittoria comunità dei legionari fiumani, e dunque l’importanza vitale del ruolo coreografico e celebrativo di d’Annunzio. Lo scrittore, colto di sorpresa, acconsentì suo malgrado e lasciò a Ceccherini, Nunziante, Host-Venturi e Gigante la gestione della crisi. Essi tuttavia non poterono impedire agli intransigenti di prendere contromisure drastiche.
Secondo il consueto copione d’emergenza, una folla maledicente di “donne e legionari” si materializzò intorno alla colonna in partenza. Si riproduceva, in chiave ostile, la leggendaria coreografia organizzata dalla “Giovane Fiume” per la partenza forzata dei granatieri. Nonostante gli improperi, le provocazioni e le intimazioni a lasciare le armi a Fiume, la tensione non si ruppe fino alla barra di Cantrida, quando qualcuno cercò di strappare il gagliardetto alla compagnia “traditrice”783. Il tafferuglio degenerò in un aperto scontro a fuoco che fu interrotto per il pronto intervento di Ceccherini, Gigante e dei comandi regolari di Volosca. Nelle ore successive, d’Annunzio compose tempestivamente la cronaca della crisi, rappresentandola come una necessaria purificazione dai “compagni miserabili”784.
Ma nemmeno racconto di una ritrovata concordia non poteva nascondere il fatto che bastasse squassare un vessillo per far scoppiare quel conflitto che il Comando cercava di controllare sin dalla prima celebrazione dedicata agli arditi. L’atto finale dell’”Impresa di regolari”, iniziata dietro le quinte con l’arresto di Reina, si chiudeva drammaticamente con una sparatoria contro i carabinieri: i disciplinati “disertori di Ronchi” si ritiravano di fronte a una nuova forza modellata dal
Rinnovamento e dall’arditismo. Lo squarcio di guerra civile emerso dal cortocircuito rituale non
poté lasciare indifferente Mario Carli, cui si deve il primo tentativo concreto di unire fiumanesimo e fascismo sotto i gagliardetti dei suoi arditi.
Carli, “eterno secondo” tra i registi della rappresentazione fiumana, lavorava pazientemente da mesi ai margini della comunità legionaria, sperando che con i riti degli Arditi e i motteggi futuristi si diffondesse anche il loro estremismo785. Di qui l’enfasi quasi entusiastica con cui la “Testa di
782 Il 14 aprile, Caviglia informava Nitti che “Recenti atteggiamenti politici proteiformi d’Annunzio disgustano truppe
Fiume che a volta a volta sembrano voler uscire da quella città, ma loro propositi non sono fermi; oggi vogliono, domani non vogliono. [...] In generale ora a Fiume vi è un forte disorientamento e credo situazione si andrà risolvendo da sé” Cit. in Gerra, op. cit., I, p. 292.
783 Secondo quanto riferisce Giuliotti, il gagliardetto all’Arma era stato donato il 30 aprile dalle donne fiumane, alla
presenza di d’Annunzio, Giuliotti, op. cit., p. 190. La cerimonia potrebbe essere un tentativo di ripetere quella cerimonia totemica “d’emergenza” che abbiamo già visto praticare con “la Regina”. Ciò rende ancora più emblematico l’episodio che scatenò la sparatoria, sul quale i ricordi differiscono significativamente. Giuliotti raccontò: “sono apparsi improvvisamente [...]. Gagliardetti al vento, come vincitori. Una donna fiumana si slancia per riprendere i gagliardetti. Viene malmenata e respinta. Un ufficiale dei granatieri [...] si slancia in suo soccorso tentando pure di strappare il gagliardetto.” Ibid., pp. 192-193. In questa narrazione ritorna così il ruolo centrale della cittadina come custode dell’onore della bandiera e dunque protagonista di ogni svolta dell’epopea patriottica, così come era avvenuto coi “vespri fiumani” o con la partenza dei granatieri. Ruolo che, tuttavia, viene a mancare nel racconto di un altro legionario che assisté alla scena mentre andava a vedere la partita (lo stadio di Cantrida è attivo tutt’oggi): “Verso le cinque sono arrivati i carabinieri, incolonnati, armati col gagliardetto in testa. [Gli Arditi] cominciarono a insultarli e a sputare loro addosso. Uno di questi arditi tentò di strappare il gagliardetto, e nacque un putiferio”. G. Boscogrande di Carcaci, Lettere di un legionario fiumano, Roma, Edizioni del cipresso, 1954, pp. 73-74.
784 G. d’Annunzio, “Fiume deve essere monda di traditori”, «Bollettino Ufficiale» [seconda serie], n. 19, 12 maggio
1920.
785 A commento del proclama di d’Annunzio riportato in prima pagina sul suo giornale, Carli scrisse sarcasticamente:
Ferro” riferì l’episodio, iniziando dal titolo I carabinieri regi fuggono ignomignosamente da Fiume