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Nel paragrafo precedente abbiamo analizzato i miti e immagini che diedero un senso alla memoria culturale dei contemporanei, influenzando i valori e i linguaggi della politica. Con la pace del 1918, nuovi concetti di nazione e nazionalità tracciarono i confini e i rapporti tra gli stati.

L’applicazione dei principi di Wilson trovò difficoltà fin dai primi mesi. Il principio d’autodeterminazione creò nuovi stati fondati sull’appartenenza etnica e linguistica. La ricerca di legittimazione generò presto persecuzioni di minoranze e politiche di assimilazione, stimolando fenomeni di revanscismo con cui i nuovi “sottomessi” rinnegavano il nuovo assetto mondiale. In questo contesto, Fiume divenne presto protagonista del dibattito sulla pace italiana. Intorno alla città del Quarnero si confrontarono le diverse anime dell’interventismo e le loro differenti idee sugli scopi di guerra. Se in Italia la nuova questione nazionale si ridusse, per dirla con Chabod, in “un ben determinato problema territoriale”115, fu perché riguardo a Fiume erano tutti d’accordo ma con ragioni profondamente diverse.

Presso i democratici, la difesa della sua italianità esprimeva il nuovo principio di autodeterminazione dei popoli e doveva essere accompagnata dall’abbandono delle rivendicazioni imperialistiche del Patto di Londra; l’Italia vittoriosa, acquisite finalmente Trento e Trieste, doveva diventare il nume tutelare dei popoli liberati dalla corona asburgica.

Presso il fronte nazionalista, lo stesso principio doveva essere affermato per legittimare l’espansione militare italiana sull’Adriatico orientale. Le invocazioni degli italiani di Fiume acquistavano così un’eco più vasta. Una volta raggiunta l’unità nazionale, era tempo d’intraprendere una politica imperialistica recuperando le memorie di Roma e Venezia.

Questi due poli politici reagirono in modo diverso alla negazione di Fiume da parte degli Alleati filo-jugoslavi. Mentre i socialdemocratici calcarono la strada del negoziato e della rinuncia del Patto di Londra, gli intransigenti nazionalisti cavalcarono l’onda delle emozioni irredentiste, mobilitando l’opinione pubblica intorno al programma del “Patto di Londra più Fiume”.

L’intransigenza degli alleati, la difficile posizione del governo di Roma, la fioritura di movimenti combattentistici e l’agitazione del “pericolo bolscevico” portarono Fiume al centro dello scontro politico, sempre più governato da visioni e rappresentazioni emotive della vittoria. L’impresa dannunziana - crogiolo di rituali, violenza, cospirazione, reazione e rinnovamento - fu l’espressione più visibile della rivoluzione culturale portata dalla guerra.

114 “La politica nazionale degli irredentisti fiumani si fondava sulla consistenza italiana della popolazione del centro

urbano, rivendicando il principio wilsoniano di autodeterminazione nazionale; gli autonomisti, recuperavano il principio politico dell’autodecisione sul diritto storico del Corpus separatum fiumano, mentre la considerazione del carattere plurietnico della popolazione dell’intera provincia, con larga maggioranza dell’elemento croato nella zona di porto Barross e Sušak, faceva da traino alla soluzione di uno stato indipendente”. Ercolani, Da Fiume a Rijeka, cit., p. 61.

La crisi del diciannove

L’anno della vittoria si concludeva nel fermento per l’attesa della Conferenza della Pace. A Fiume, il corpo di occupazione interalleato vigilava su un clima di tensione sospesa. Oltre alla rivalità tra cittadini italiani e jugoslavi, il generale Grazioli doveva vigilare sulla competizione tra granatieri italiani e le truppe francesi appartenenti all’Armata d’Oriente, che si rinforzava ogni settimana di contingenti coloniali e serbi116.

Se la città di Fiume poteva vantare una maggioranza italiana che, costituitasi in Consiglio nazionale, aveva reclamato l’intervento italiano, non così poteva dirsi nel resto della Dalmazia. Nel corso dei mesi successivi all’armistizio, l’occupazione italiana nell’Adriatico orientale mise in atto una risoluta politica di assimilazione, attraverso l’eliminazione dei toponimi slavi e l’esautoramento delle amministrazioni municipali117. Il mito nazionalista dell’Adriatico “golfo italiano”, che si nutriva del principio di nazionalità per affermare la conquista della Dalmazia, non poteva accettare di essere contraddetto dalla realtà multietnica - quando non a maggioranza slava - delle città dalmate. Contro questa realtà contraddittoria, che cozzava visibilmente con il mito della “guerra di liberazione”, tra novembre e dicembre si batté Leonida Bissolati118. Coerentemente al proprio orientamento d’interventista democratico, Bissolati propose una modifica delle istanze da presentare a Parigi: ferma restando la redenzione di Trento, Trieste e dell’Istria, l’Italia avrebbe rinunciato al possesso di territori non italiani quali il Tirolo e la Dalmazia in cambio dell’autonomia per Fiume119.

Eppure il leader riformista si trovò isolato. La freddezza del governo lo costrinse alle dimissioni il 28 dicembre e nei giorni successivi, quando trapelarono indiscrezioni sul suo programma “rinunciatario”, il paese fu scosso da un’ondata d’indignazione. Persino testate favorevoli al programma democratico come il “Corriere della Sera” e “La Tribuna” presero le distanze dalle sue dichiarazioni sul Tirolo e sull’autonomia di Fiume. La dimostrazione dell’isolamento di Bissolati si manifestò quando l’ex ministro tentò di spiegare le ragioni delle sue dimissioni in una conferenza alla Scala, l’11 gennaio 1919. Un gruppo di futuristi, combattenti e nazionalisti guidati da Marinetti gli impedì di parlare, e tra questi rumorosi infiltrati c’era Mussolini. Il direttore de “Il Popolo d’Italia”, dopo aver militato per una guerra “rivoluzionaria” e per una pace secondo i diritti wilsoniani, aveva scelto la causa nazionalista sposando il programma del “Patto di Londra più Fiume”; già il 20 dicembre aveva tenuto un comizio a Fiume, saggiando il mutato contesto nelle terre occupate e nel Regno120.

L’acume, la spregiudicatezza e la volontà di ricavarsi un ruolo politico gli avevano permesso di vedere ciò che Bissolati e i suoi sostenitori, con la loro fiducia nella ragionevolezza e nella loro buonafede, non vedevano - o rifiutavano di vedere - nella questione adriatica. Problema generato da una concatenazione d’interessi e di rappresentazioni che non potevano essere sradicate facilmente dalla coscienza collettiva. C’erano ormai troppa emotività, troppa volontà di sopraffazione e di riscatto, troppa invocazione all’impegno e al coinvolgimento “morale” dell’opinione pubblica perché la questione si potesse affrontare, in particolare nel caso Fiume, attraverso il compromesso.

116 Il governo di Parigi, nel frattempo, proseguiva nella sua strategia di sostegno alle forze jugoslave dell’entroterra, i

cui ufficiali e funzionari di scuola asburgica ben vedevano ogni azione di contenimento anti-italiano. Ercolani, Da Fiume a Rijeka, cit., pp. 93-94.

117 Il contegno dell’esercito italiano in Dalmazia non era un caso isolato. In molti casi, le nuove costruzioni della

nazione si risolsero tristemente in semplificazioni etniche, assimilazioni culturali, disconoscimento dei diritti delle minoranze. v. Cattaruzza, L’Italia e il confine orientale, cit., pp. 128-134.

118 Questa tesi teneva conto sia delle tensioni ideali portate dalla guerra, sia del significato da conferire allo sforzo

bellico, sia del ruolo dell’Italia nell’equilibrio internazionale. v. L. Bissolati, La politica estera dell’Italia dal 1897 al 1920, pp. 394-414.

119 La proposta era frutto di un lungo dibattito culturale e politico avviato da fronte democratico in polemica con

Sonnino e la stampa nazionalista. v. Vivarelli, op. cit., I, pp. 204-224.

Mussolini aveva compreso che la battaglia politica e diplomatica dei mesi successivi si sarebbe consumata tra miti contrapposti. Con l’inizio dell’anno 1919, infatti, i problemi che avevano animato i dibattiti sulla pace si materializzarono in forme ed eventi concreti, animando gli attori di un nuovo palcoscenico.

Nei primi giorni di gennaio, mentre Wilson arrivava in Europa, in Italia un’ufficiale degli Arditi, il futurista Mario Carli, fondava l’Associazione Nazionale fra gli Arditi d’Italia. L’associazione era aperta a tutti i reduci dei reparti d’Assalto che intendevano conservare la memoria delle loro imprese e il ruolo di soldati scelti. La propaganda di guerra li aveva dipinti come guerrieri ideali, come il nerbo volontario dell’Esercito vittorioso. Mito vivente per i giovani che non erano stati chiamati alle armi, artefice della vittoria secondo i proclami dei politici che se lo contendevano, temuto dai buoni borghesi che avevano letto i truculenti racconti sulle sue imprese, l’ex-ardito era un individuo pericoloso e portentoso121. I suoi ideali combinavano confusamente l’anti-politica del maggio radioso, la volontà di rinnovamento sociale, il culto per la guerra e l’intransigenza per la “difesa della Vittoria”, l’odio per il socialismo neutralista, e la convinzione di poter risolvere con la forza le questioni del proprio tempo.

Già prima dell’armistizio, nazionalisti, anarchici e futuristi cercarono di sfruttare gli arditi, esaltandoli come avanguardie della nazione. Ma questo era il mito. Come avveniva con altre categorie di reduci corteggiate dalla politica - i mutilati, le madri o le vedove di guerra - l’esaltazione degli arditi mascherava lo sfruttamento di giovani problematici, spesso rifiutati dal mondo civile dopo il processo di disumanizzazione subìto con la guerra d’assalto.

Con grande preoccupazione delle istituzioni, estremisti di destra e sinistra iniziarono ad avvicinare i reduci Arditi nella speranza d’incanalare la loro insicurezza e la loro esperienza nella lotta politica122.

La fondazione dell’Associazione Arditi rispose alla domanda, da parte dei più istruiti tra gli arditi, di difendere la propria identità e preservarla da strumentalizzazioni esterne. Tuttavia, quando si trovarono inevitabilmente coinvolti nel dibattito pubblico, gli arditi furono conquistati alla causa dell’annessione dell’Adriatico orientale. Nei mesi successivi, quando trenta su trentatré comuni dalmati subirono l’imposizione di amministratori italiani fiancheggiati dall’Esercito e da reparti armati irredentisti, Carli si vantò che “si è visto persino, in Dalmazia, qualche Ardito far la pattuglia coi carabinieri, per spazzar via le carogne jugoslave!”123.

La forte presenza nel Regno di associazioni irredentiste e nazionaliste aiutò la diffusione del problema adriatico nel sentire comune, conferendo al caso di Fiume un aspetto solenne. La guerra al “rinunciatarismo” si unì a un senso di sfiducia e scoraggiamento verso le imminenti trattative di Parigi, scatenando nuove divisioni. Il clima arroventato del “maggio radioso” tornò ad aleggiare nel dibattito pubblico, e la prova più evidente fu il ritorno alla ribalta di d’Annunzio.

Il 14 gennaio la “Gazzetta di Venezia” pubblicò un manifesto del “poeta soldato”, nel quale egli si pronunciava a favore del programma nazionalista intransigente. Naturalmente, l’affermazione d’italianità della Dalmazia vi era presentata come una missione morale verso i fratelli irredenti che rischiavano di languire oltreconfine. Intitolando il testo come Lettera ai Dalmati, lo scrittore aveva

121 I testi di Carli restituiscono un quadro interessante della costruzione dell’immagine mitica, e dell’influenza che

questa esercitò sulla cultura adolescenziale del primo dopoguerra. Nel suo L’arditismo, Roma-Milano, L’Augustea, 1929 vi si trova il ritratto ideale. Tra i punti del Manifesto dell’Ardito Futurista (Novembre 1919): “Non risolvere mai un problema di vita a base di mediocre buon senso (tipo mentalità borghese) ma preferire le soluzioni impreviste, dense di coraggio morale e di sforzo intellettuale; [...] Imporre a pugni e a pugnalate la bellezza di una immagine originale; [...] Gettarsi nelle avventure più assurde col solo obbiettivo di «costruire valori nuovi» anche se non vi è «utilità immediata».” Cordova, op. cit., Appendice, pp. 255-259, cfr. Vivarelli, op. cit., p. 323, n. 157.

122 La più chiara fotografia della situazione è un breve rapporto inviato dal Comitato di Difesa interna a Diaz il 15

maggio 1918: “Ci si riferisce di attivo accaparramento da più parti di elementi componenti il corpo degli “arditi”. Tale accaparramento è condotto dai partiti estremi, d’ogni tendenza di guerra. Ciò evidentemente per la preparazione, non certo pacifica, dalla transizione dalla guerra al dopoguerra. I metodi russi delle «guardie rosse e bianche» fanno scuola.” In ACS, MI, Dgps, Cat. A5 G: Prima guerra mondiale, b. 4 f.7 sf. 48. Cfr. Cordova, op. cit., p. 25; Rochat, Gli arditi, cit., p. 78.

carpito lo spirito del tempo e dell’emotività collettiva, affinando la propaganda con nuove e coinvolgenti immagini retoriche124.

In questo clima, la delegazione italiana guidata da Orlando partiva per Parigi, dove il 18 gennaio iniziarono i lavori della Conferenza internazionale. La pressione mediatica sulla delegazione italiana e le divergenze con gli alleati erano aggravate dall’ingombrante presenza di Sonnino, deciso a difendere le richieste avanzate a Londra nel 1915. Ricatto morale, irrazionalità propagandistica e vecchia politica gravavano sul programma adriatico di Orlando al tavolo della pace. Il 7 febbraio fu così presentato il programma italiano del “Patto di Londra più Fiume e Spalato”, al quale, dieci giorni dopo, gli jugoslavi opposero un loro memorandum che rivendicava Trieste, l’Istria, Gorizia, Gradisca, Fiume e l’intera Dalmazia125. Ai due estremismi si opponeva risolutamente Wilson, che

nonostante il suo aperto sostegno alla Jugoslavia, era deciso ad affermare l’applicazione del principio etnico lasciando in secondo piano esigenze economiche e strategiche126. Contemporaneamente, i rappresentanti di Francia e Gran Bretagna avvertirono l’esigenza di contrastare la presenza italiana sull’Adriatico, che dopo l’armistizio stava traducendosi in un’occupazione di fatto.

Questo complesso di ragioni giungeva in Italia sotto il filtro delle passioni mobilitate dall’irredentismo, dal nazionalismo e da tutte le frange del combattentismo. La discussione tra la delegazione italiana e gli alleati fu presentata come una lotta contro i negatori della vittoria italiana. Nel linguaggio della nuova politica, la complessità della convivenza ideologica e multietnica fu appiattita in categorizzazioni assolute. Dalmazia italiana o slava, custodi o negatori della Vittoria, patrioti o “rinunciatari”. La guerra dei miti entrava in una fase acuta.

Ne era cosciente Mussolini quando il 23 marzo, in un circolo milanese di piazza San Sepolcro, raccolse un gruppo di reduci, sindacalisti, nazionalisti e irredentisti attorno a un manifesto che riassumeva le aspirazioni del combattentismo e dell’irredentismo127. Prassi imperialista e

rappresentazione anti-imperialista convivevano in un programma che, di fatto, mirava a riunire lo

sfaccettato interventismo di sinistra per opporlo alla politica tradizionale e al Partito socialista. La prima prova generale si consumò il 15 aprile a Milano, quando una squadra di sansepolcristi, futuristi e arditi devastò la sede dell’”Avanti!”. Frutto di una combinazione tra i più efficaci miti della guerra e della pace, nascevano i Fasci di Combattimento128.

Anche Wilson comprese che i nuovi contenuti della politica dovevano essere affiancati da un nuovo linguaggio. A fine aprile, di fronte alla difficoltà delle trattative adriatiche, diramò direttamente un “messaggio al popolo italiano”. In esso spiegava la bontà delle proprie proposte e auspicava che il celebre altruismo dagli italiani si manifestasse nei confronti di sloveni e croati129.

L’atto non fece che approfondire la crisi delle trattative. In Italia, un’ondata d’indignazione generale fu scatenata dagli intransigenti, i quali poterono contare su una nuova serie di sermoni dannunziani130. Quest’atmosfera di furore religioso obbligò Orlando ad abbandonare Parigi il 24 aprile in segno di protesta, salvo poi ritornarvi il 7 maggio per scongiurare una crisi più grave e

124 Gerra, op. cit., I, pp. 32-34.

125 Ercolani, Da Fiume a Rijeka, cit., p. 86.

126A questo fine, Wilson si avvalse di un’inquiry internazionale di esperti dell’Europa orientale, che sulla scorta di dati

etnografici avrebbe dovuto dare avallo scientifico alla ridefinizione dei confini. Il 21 gennaio l’equipe produsse un documento dove assegnava all’Italia “parti del retroterra slavo nell’Istria e la valle dell’Isonzo ritenute essenziali alla vitalità economica dei centri urbani italiani”, e alla Jugoslavia, la “costa orientale dell’Istria, tutta la costa dalmata e l’arcipelago rivendicato dall’Italia, oltre a Fiume”. Ne facevano parte storici del calibro di Weeckam Steed e Seton- Watson. I. J. Lederer, La Jugoslavia dalla Conferenza della pace al Trattato di Rapallo (1919-1920), Milano, Il Saggiatore, 1966. pp. 158.160. cfr. Cattaruzza, L’Italia e il confine orientale, cit., pp. 118-120.

127 De Felice, Il rivoluzionario, cit., pp. 504-510.

128 Sui forti legami tra fascismo e arditismo ha scritto, tra i primi, A. Tasca nel suo Nascita e avvento del fascismo,

Milano, Pgreco, 2012 (ristampa), pp. 60-62.

129 Sul messaggio di Wilson, Gerra, op. cit., I, p. 37.

130 D’Annunzio parlò a Venezia, a piazza San Marco, il 25 aprile; e a Roma, all’Augusteo e in Campidoglio, il 4 e il 6

riprendere concretamente le trattative131. In maggio la delegazione italiana si scontrò ancora con Wilson, che arrivò a proporre un plebiscito per l’Istria orientale e l’erezione di Fiume a Stato libero sotto il controllo della Società delle Nazioni. L’empasse delle trattative portò dunque alla crisi dell’esecutivo, e l’estenuato Orlando dovette dimettersi.

Il 23 giugno il capo dello Stato affidò il governo all’ex-ministro del Tesoro, Francesco Saverio Nitti. Nei mesi precedenti, l’economista lucano aveva curato il dissesto delle finanze e pianificato la riconversione dell’Economia di guerra; era dunque risoluto a concentrare il programma di governo su una normalizzazione organica della società ancora mobilitata132. Nella sua agenda, la risoluzione della questione adriatica rappresentava una priorità per una serie di ragioni tecniche: la smobilitazione dell’esercito, di cui buona parte si trovava in Dalmazia come forza d’occupazione; la ripresa di buone relazioni con gli Stati Uniti, dai quali provenivano i crediti necessari alla ricostruzione; la pacificazione del dibattito pubblico, infiammato dalla questione adriatica a destra e dalla Rivoluzione russa a sinistra. Inoltre, Nitti era un convinto sostenitore del programma della collaborazione tra i popoli ed era deciso a trovare un compromesso per Fiume133. Il suo tecnicismo non teneva conto di quanto il fattore “rappresentazione” fosse necessario al compimento della sua agenda per il ritorno alla pace.

Il nuovo governo era circondato da oppositori, che cercarono di minarne la stabilità sin dal suo insediamento. Oltre all’enorme massa di ufficiali di complemento - che con la smobilitazione avrebbero perso privilegi e stipendio -, ostili erano la Marina e alcuni settori dell’industria e della finanza interessati al controllo delle fiorenti infrastrutture fiumane134. Al tempo stesso, il dissesto

del paese si ripercuoteva sulla classe operaia e sulle campagne, dove gli echi della Rivoluzione accrescevano l’ascendente del Partito socialista e del movimento anarchico. Le soluzioni frutto di calcolo e ponderazione potevano esser facilmente condannate da destra e sinistra come l’atto di una politica estranea alla volontà popolare.

Mentre il nuovo ministro Tittoni riprendeva i negoziati con spirito più conciliante, rimandando la questione di Fiume a futuri accordi tra Italia e Jugoslavia, nella città del Quarnero cresceva l’agitazione. Gli irredentisti fiumani avevano sin da maggio organizzato una “Legione” di volontari armati sotto la guida del capitano Giovanni Host-Venturi, con l’appoggio della Trento-Trieste e il benestare del Consiglio nazionale135. L’esasperazione dei fiumani davanti all’incertezza del suo futuro e alla presenza di truppe d’ogni provenienza fu cavalcata da notabili annessionisti e autonomisti, oltre che fomentata da agenti provocatori italiani, jugoslavi e francesi. Proprio mentre si delineava l’ipotesi che il Quarnero divenisse territorio libero, era nell’interesse di ogni fazione giustificare la propria presenza militare nel prezioso delta, fomentando un adeguato livello di tensione. Essa non tardò a scoppiare il 29 giugno, quando alcuni militari francesi furono aggrediti per aver inneggiato alla Jugoslavia. Tumulti e scontri proseguirono fino al 6 luglio, con il bilancio di numerosi feriti, nove morti francesi e la distruzione di un circolo croato136. La crisi fu risolta con l’istituzione di una commissione interalleata d’Inchiesta, i cui lavori deliberarono la creazione di un Consiglio eletto a rappresentanza proporzionale che includesse tutte le etnie cittadine. Il generale Grazioli fu sollevato dal comando del corpo di occupazione, che fu affidato al più moderato generale Pittalunga; contemporaneamente, i reparti francesi e gli italiani colpevoli dei disordini ebbero l’ordine di evacuare la città137. Il 25 agosto, il I° battaglione del II° reggimento “Granatieri di Sardegna” abbandonò Fiume, accompagnato da una patetica dimostrazione di popolo che, come

131 Vivarelli, op. cit., I, pp. 415-417.

132 Sulla nomina di Nitti e sul suo programma di ricostruzione, Ibid., cap. V.

133 Sulle posizioni di Nitti circa il nuovo assetto europeo, v. A. Monticone, Nitti e la grande guerra (1914-1918),

Milano, Giuffré, 1961, pp. 23 e ss..

134 Vivarelli, op. cit., I, pp. 501-504.

135 Gerra, op. cit., I, pp. 64-65. Ad essi si aggiungevano altri battaglioni paramilitari organizzati dalla Trento-Trieste in

Venezia-Giulia e Istria, con il benestare dell’Ufficio Propaganda del Comando militare di Pola. v B. Coceani, La partecipazione della Venezia Giulia all’impresa di Fiume, Trieste, Lega Nazionale Trieste, 1967, pp. 146-148.

136 Cattaruzza, L’Italia e il confine orientale, cit., pp. 147-148. 137 Ledeen, op. cit., pp. 80-81.

avrebbe scritto uno dei creatori del mito fiumano, “il Guicciardini avrebbe volentieri narrata”138. Tre giorni dopo, sette ufficiali di questo reparto si fermarono in una piccola località tra Udine e