Il 5 maggio 1915, tra gli stendardi patriottici e municipali raccolti sotto il monumento di Quarto, sventolava una bandiera fiumana. Era fatta con materiali di fortuna reperiti frettolosamente dai due uomini che la portavano, Riccardo Gigante e Giovanni Host-Venturi. Quest’ultimo, scrivendone oltre cinquant’anni dopo, raccontò che la loro concittadina Giuseppina Lenaz li aiutò a cucire i lembi342. Così, “increduli” che la loro città non fosse esclusa dai negoziati segreti per l’intervento italiano, due irredentisti fiumano parteciparono alla prima delle “Radiose giornate”.
Rientrammo in tempo a Quarto, e come Dio volle, la bandiera fiumana poté sventolare e sventolare, poiché riuscimmo ad intrufolarci da presso al palco. Molti si incuriosirono ai colori, udirono una prima voce di Fiume e dopo il rito non pochi ci accompagnarono a Genova per le manifestazioni che si susseguirono. [...] Una grande ora, che a noi riempì il cuore di speranza.
Giovanni Host in famiglia parlava croato. Nelle sue memorie ha scritto che cominciò a lottare contro “tutti gli austro-ungarici” quando, da ragazzino, i compagni di scuola ungheresi lo avevano picchiato per le sue simpatie filo italiane343. Il suo amico Riccardo Gigante, di poco più anziano, fin da ragazzo si era distinto nel circolo irredentista “Giovine Fiume”, diventandone il presidente344. Entrambi avevano raggiunto l’Italia per arruolarsi volontari nella “guerra di redenzione”. Esibire i colori della loro città all’adunata di Quarto era il culmine di una battaglia identitaria che, da un decennio, si era consumata sul terreno delle liturgie laiche.
339 Vinci, op. cit., pp. 31-32.
340 Ai primi di agosto, Nitti diramò ai prefetti le istruzioni per la controffensiva: “I Fasci di Combattimento preparano
nuove agitazioni che si devono iniziare primi di settembre e culminare con decisioni Conferenza di Parigi per Fiume e la Dalmazia. Il Governo ha fatto e fa per le rivendicazioni italiane quanto è possibile ma non vuole ingannare il paese e tanto meno eccitare gli animi. Do le seguenti istruzioni che devono essere assolutamente rispettate. Primo - non devono essere tollerate ne’ pubbliche dimostrazioni ne’ manifesti di eccitazione. Secondo - si arresti subito chiunque ecciti ad atti di rivolta senza usare riguardo alcuno. Terzo - si agisca sulla stampa per eccitare alla moderazione e se vi sono articoli pericolosi si proceda al sequestro del giornale. Quarto - non si tollerino violenze o sopraffazioni verso alcun partito. Quinto - si cerchi di evitare qualunque manifestazione contro pesi alleati soprattutto contro Francia e Stati Uniti di America e avvenendo si reprima.” Comunicato della Presidenza del Consiglio a Prefetti regno in data 9 agosto 1919, in ACS, MI, Ps A5 1916-21, Agitazione pro-Fiume e Dalmazia, b. 2, f. 1.
341 Ledeen, op. cit., pp. 60-61.
342 Host Venturi, L’impresa fiumana, cit., pp. 34-35; Gian Proda, Gli stemmi di Fiume, in «Fiume. Rivista di studi
adriatici», I semestre 2003, n. 7, p. 103.
343 Host Venturi, op. cit., pp. 18-19.
344 Per un profilo approfondito di Gigante, in particolare i primi anni, v. A. Ballarini, Quell’uomo dal fegato secco. Riccardo Gigante senatore fiumano, Roma, Società di studi Fiumani, 2003.
Tra Dante e Mazzini
Si come Pola presso del Carnaro che Italia chiude, e i suoi termini bagna
Così, nel nono canto dell’Inferno, l’Alighieri si riferiva all’ampio braccio di mare che si apriva a sud est della penisola istriana. Se il poeta avesse indicato con più esattezza gli esatti “termini” d’Italia lambiti dal Carnaro, cinque secoli dopo il principio dell’autodeterminazione avrebbe causato meno problemi nell’alto Adriatico.
Fin dalla seconda metà del XIX secolo, Dante era divenuto il nume protettore delle comunità italiane dell’Impero, che trovavano nella lingua comune il nesso di un’identità nazionale. La memoria dantesca pose in luce lo sfaccettato panorama dell’associazionismo irredentista. L’occasione più significativa si presentò nei giorni del 587° anniversario della morte del poeta, con la donazione collettiva di un manufatto per la sua tomba ravennate cui parteciparono le principali comunità italiane d’oltreconfine. L’elegante ampolla in argento doveva contenere l’olio della città di Firenze che alimentava la lampada votiva nel sacello del poeta345. Le comunità irredente, rappresentate da allegorie o altre integrazioni votive, parteciparono alla realizzazione con sottoscrizioni, contributi volontari e un pellegrinaggio che culminò in un’emozionante celebrazione tra il 13 -14 settembre 1908.
Giunte a Ravenna via piroscafo, le rappresentanze giuliane, istriane e dalmate furono accolte da una folla festante, dalle autorità locali e dalle delegazioni d’istituti patriottici. I rituali e le parole delle due giornate dantesche furono l’espressione evidente della fitta rete che legava larga parte dell’associazionismo irredentista al repubblicanesimo mazziniano. I richiami a questo legame durante le giornate dantesche non mancarono di suscitare freddezza nel mondo cattolico, nelle rappresentanze monarchiche e persino nella delegazione triestina, di orientamento prevalentemente liberal-democratico346. Ciò tuttavia non valeva per la delegazione di Fiume.
Sia agli occhi dei buoni borghesi triestini, sia a quelli di molti concittadini, gli adolescenti quarnerini guidato da Riccardo Gigante dovettero apparire come chiassosi ed entusiasti estremisti. La loro associazione, “La Giovine Fiume”, era nata solo tre anni prima. Fondata da un gruppo di studenti decisi a radicalizzare la lotta identitaria, essa non intendeva più limitarsi alle tradizionali richieste di autonomia, ma guidare l’opposizione alla penetrazione culturale magiara e croata347. Ispirazioni risorgimentali echeggiarono immediatamente fin dalla scelta del nome e del campo di lotta, il teatro. Ha scritto Dubrini:
Molte, comunque furono le manifestazioni visibili che ebbero luogo in quegli anni di attesa. L’offerta di un mazzo di fiori col nastro italiano all’ottimo artista Ermete Novelli che si trovava a Fiume per una recita. Lo sventolio del nostro tricolore nel teatro Verdi durante una rappresentazione di «Romanticismo» di Rovetta. Ogni rappresentazione teatrale era un pretesto per ricordare che Fiume era italiana. [...] Il 23, 24 e 25 ottobre 1907 Gabriele d’Annunzio giungeva a Fiume con la scusa di incontrarsi con Ferruccio Garavaglia che, con la sua compagnia, recitava al teatro Comunale. [...] Gabriele ebbe un’accoglienza trionfale dalla popolazione, sapientemente guidata dalla Giovine Fiume.348
La “sapiente” mobilitazione per la visita di uno scrittore italiano fu solo un episodio, ma dimostrò come il gruppo avesse fatto proprio il valore mazziniano della missione: essi erano l’avanguardia destinata a rivoluzionare il modo di vivere l’italianità fiumana. Il carattere minoritario e l’isolamento sarebbero divenuti, in seguito, valori nobilitanti. Così, oltre trent’anni dopo, Gigante ricordò l’inizio della sua militanza:
345 P. Cavassini. L’Ampolla e la Ghirlanda, cit., p. 299. 346 Baioni, Rituali in provincia, cit., pp. 97-98.
347 Cavassini, L’Ampolla e la Ghirlanda, cit., p. 306.
Improvvisamente ci trovammo dinanzi, sorta per generazione spontanea, la esigua schiera adolescente della Giovine Fiume ardente di fede italiana e desiderosa di manifestarla audacemente. E noi, maturi o appena maggiorenni, ci aggregammo agli adolescenti, ci unimmo al loro movimento, fummo da loro trascinati a osare. [...] Andammo noi incontro ai giovani, agli adolescenti, e demmo loro la voce, l’organo di propaganda che loro mancava. Entrammo nel circolo la Giovine Fiume e fondammo un modesto periodico - La Giovine Fiume - che si presentava al pubblico con l’impegno di essere all’avanguardia, e primo a combattere per il trionfo de’ nostri ideali, che sono quelli di quanti nella nostra Fiume si sentono italiani.349
Il teatro, la cospirazione, la giovinezza, il giornale clandestino: tutti topoi di una narrazione patriottarda che, innestandosi sul successivo poema dell’impresa fiumana, avrebbero creato uno dei più influenti miti della “Rivoluzione fascista”.
Nel 1908, ultima arrivata tra le comunità irredentiste, Fiume aveva rischiato di non partecipare alla donazione per il sacello dantesco. Fu grazie alle insistenze di Gigante se la “perla del Carnaro” poté coronare la colonna per l’ampolla dantesca con una ghirlanda d’argento, frutto di una fusione a contributo collettivo realizzata nel laboratorio d’oreficeria della famiglia Gigante350.
Tra i delegati fiumani che recarono il dono era presente Host-Venturi:
Giungemmo a destino con quattro piroscafi, percorrendo il canale Corsini tra canti e musiche, in una atmosfera di grande entusiasmo. Gli inni di Garibaldi e di Mameli, cantati da noi irredenti suscitarono vibranti manifestazioni di solidarietà dalla popolazione [...]. Non riuscirei a dare un’idea del calore e dell’entusiasmo di quella accoglienza, veramente commovente sia da parte della popolazione che da parte della Amministrazione comunale tutta, che era socialista.351
L’amministrazione ravennate guidata da Fortunato Buzzi non era socialista, bensì repubblicana. La radicalizzazione di questo ricordo, evocato dal vecchio fiumano dopo oltre mezzo secolo tre le note “sovversive” degli inni di Garibaldi e Mameli, può dir molto su come lui e i suoi compagni vissero quell’esperienza. Per molti fiumani poco più che adolescenti, la cerimonia di Ravenna fu l’occasione per sperimentare la sensazione di una comunità liberamente riunita attorno alla propria memoria. Filomena Ferrari, moglie di Enrico Burich, ricordò:
fu per mio Marito (non ancora ventenne) non solo l’omaggio devoto, ammirato e commosso alla tomba di Dante, ma fu anche il primo - ardentemente desiderato - contatto reale con la terra italiana, sogno aspirazione e speranza di tutta la sua giovinezza, e di tutta la sua vita.352
Per questo motivo, all’anniversario dantesco del 1911, avrebbero partecipato solo i fiumani. Le strumentalizzazioni da parte dei repubblicani romagnoli avevano tenuto lontane le delegazioni giuliane e istriane, ma per i ragazzi della “Giovine Fiume” era di vitale importanza mantenere saldo il legame con Ravenna, che ospitando il totem del loro nation-building era diventata la “Mecca dell’irredentismo”353. Essi lottavano infatti su due fronti: mentre perseguivano la militanza semiclandestina contro l’associazionismo croato e l’amministrazione magiara, entro le mura cittadine dovevano rifondare la stessa autorappresentazione della comunità fiumana.
Nel capitolo precedente abbiamo visto come la storia e la posizione geografica del comune avessero creato una fiorente comunità identificata dalla gelosa custodia delle proprie tradizioni civiche e dei privilegi derivanti dal suo stato di corpus separatum. Ma per i militanti del convivio irredentista, era tempo che anche la loro città onorasse il culto della Nazione. Era necessario che Fiume rinnegasse il
349 Ibid., p. 47.
350 A. Ballarini, Quell’uomo dal fegato secco. Riccardo Gigante senatore fiumano, Roma, Società di studi Fiumani,
2003, p. 58; Cavassini, L’Ampolla e la Ghirlanda, p. 307.
351 Host Venturi, L’impresa fiumana, cit., p. 22.
352 Lettera di Fila Ferrari a Ruggero Gherbaz cit. in Cavassini, L’Ampolla e la Ghirlanda, cit., p. 326. 353 L’espressione è stata rilevata da Cavassini, ibid., pp. 320-321.
servilismo dei vecchi notabili, si sollevasse dalle angherie degli oppressori e imboccasse la strada verso l’annessione alla Madrepatria. Ciò doveva portare a una radicalizzazione della militanza in senso sempre più aggressivo e xenofobo. Ai tempi del secondo pellegrinaggio ravennate, la “Giovine Fiume” si era già da tempo aperta alle ispirazioni del nazionalismo italiano di forte impronta monarchica e imperialista354.
Una realtà creata intorno a simboli e rappresentazioni non poteva che cadere in pieno nel vortice di lacerazioni portato dallo scoppio della guerra. Il giorno in cui il governo Salandra entrò in guerra con un trattato segreto che assegnava Fiume alla Croazia, fu per i cittadini inconsapevoli un “giorno di esultanza e di allegrezza”, come ricordò lo scrittore fiumano Edoardo Susmel in un opuscolo pubblicato dalla Trento-Trieste nel 1919:
Gli occhi brillarono di gioia, i cuori fremettero di commozione e nel silenzio delle nostre case, che solo conobbero il palpito, l’ansia dei nostri cuori, si apprestavano gonfaloni, si cucivano bandiere. «L’Italia sarebbe venuta in pochi giorni, l’Italia ci avrebbe redento» - era il nostro palpito d’amore, la nostra parola di fede.355
Di tutte le contraddizioni generate dalla rappresentazione dell’intervento del 1915, la rudimentale bandiera portata a Quarto e l’arruolamento di fiumani nelle file del Regio Esercito furono certamente le più tragiche356. L’esperienza della guerra approfondì queste rappresentazioni, arricchendole con tutte le immagini della passione, del martirio e del nuovo Risorgimento.
100 ufficiali fiumani combatterono per la grandezza, d’Italia, per la redenzione di Trento, Trieste, Fiume e la Dalmazia. Ecco, tra questi, il giovinetto Noferi venire dall’America e cadere da eroe per la giusta causa d’Italia; ecco Ipparco Baccich morire tra la pietraia del Carso col grido di «Evviva l’Italia»; ecco Mario Angheben sfidare eroicamente la micidiale mitraglia nemica; ecco il capitano Host-Venturi le cui gesta potrebbero essere cantate da Omero [...]; ecco la eletta schiera di fiumani divenire soldati valorosi d’Italia. Il sangue dei soldati italiani ha consacrato il vincolo indissolubile che lega Fiume all’Italia; la nostra città si rese per merito dei suoi figli degna figlia dell’Italia.357
Le parole di Susmel, irriducibile irredentista, scritte nel pieno del dibattito del dopoguerra, dimostrano la forza degli argomenti con cui il caso fiumano s’inserì nel conflitto tra differenti
rappresentazioni della pace. La memoria “negata” dei volontari irredenti e la trasfigurazione
allegorica di Fiume come figlia naturale della Nazione diventarono i cardini della propaganda nazionalista. Se il sangue dei martiri fiumani è sangue di soldati italiani, ogni negoziato riguardo a Fiume o le sue sorelle dalmate è un sacrilegio verso la guerra del popolo, e dunque contro il corpo della Nazione.
Celebrazione dell’autodeterminazione
A Fiume, le rappresentazioni della nazionalità, dell’autodeterminazione e del sacrificio ebbero l’immediato effetto di approfondire la lacerazione tra autonomisti e annessionisti. Il conflitto con il nazionalismo croato, la memoria della “Giovine Fiume” e l’esperienza volontaria divenivano così i pilastri di una militanza insofferente a ogni cedimento.
354Cavassini, L’Ampolla e la Ghirlanda, cit., pp. 321-323.
355 Susmel, Fiume italiana, Roma, Stabilimento Armani, 1919, p. 47.
356 Sui volontari fiumani nell’esercito italiano, v. Ercolani, Da Fiume a Rijeka, p. 50; cfr. N. Bianchi, Il contributo fiumano alla guerra di redenzione, in «Fiume. Rivista di studi fiumani», ottobre 1983, n. 6. Sul concreto impegno propagandistico dispiegato degli irredentisti fiumani durante la guerra, v. E. Loria, Per Fiume italiana: la propaganda degli irredentisti fiumani nelle carte dell’Archivio Museo Storico di Fiume (1910-1915), in «Fiume. Rivista di studi fiumani», 2008, n. 18, pp. 11-58.
Per gli “estremisti” dell’annessione, la rivendicazione dell’assoluta italianità di Fiume passava per la negazione del carattere multietnico della città. Alcuni dei loro esponenti più noti si chiamavano Baccich, Oissonack, Grossich, Host, Hodnig; pronunciavano discorsi e stendevano proclami in italiano, tra loro parlavano un dialetto di radice veneta, avevano studiato in tedesco e ungherese, e comprendevano perfettamente il croato; la fluidità linguistica si univa alla nebulosità delle ascendenze familiari e alle consuetudini quotidiane. L’esule Aldo Paladin ha ricordato:
I fiumani erano come una razza a parte; molto orgogliosi della loro fiumanità, dividevano il mondo in due categorie: fiumani e forestieri; non erano però razzisti; tutte le razze erano presto accettate e assimilate; i forestieri diventati fiumani diventavano più fiumani dei fiumani.358
Il principio di nazionalità imponeva invece il riconoscimento preciso di codici e di spazi che stabilissero la contiguità di Fiume con il suolo nazionale: mentre, a nord, l’intera Istria era già Italia, a sud la nazione terminava con il canale che divideva la città vecchia dal sobborgo croato di Sušak. Il ponte tra le due sponde, trafficato snodo di una comunità cittadina dai confini etnici spesso indefiniti, divenne una frontiera. Così, quando dopo l’armistizio i reparti della III armata italiana arrivarono in città, un giovane ufficiale poté convincersi del
taglio netto che il Rècina dava a due sentimenti, a due nazionalità, a due razze. Il ponte di Sussak era un vero e proprio passaggio dall’Italia alla Croazia. Di qua si parlava, si pensava, si amava all’italiana; di là tutto ciò era fatto in croato. E per quanto cercassimo di scuotere un sistema così urtante per noi, non erano che vani tentativi.359
Pochi mesi dopo, la stessa evidenza convinceva anche un sensibile intellettuale come Leon Kochnitzky, attirato nella Fiume di d’Annunzio da giovanili illusioni progressiste.
Un ponte: garetta, “posto di blocco”; sull’altra sponda l’Oriente, la Schiavonia, quasi non siamo più in Europa. Una semplice passerella, quindici metri scarsi, separa due mondi [...]. I dodici mila abitanti di Sussak sono quasi tutti croati. Una buona ragione, questa, per sacrificar loro i trentottomila italiani di Fiume?360
La partenza dell’ultimo governatore ungherese diede avvio alla contesa dello spazio urbano da parte dei contrapposti nazionalismi. Nelle concitate giornate del 28-29-30 ottobre 1918, il primo atto del “Comitato popolare” croato e del “Consiglio nazionale” italiano, ancor prima di proclamare l’anessione alle rispettive patrie, fu l’occupazione dei centri del potere cittadino. Il comitato croato, primi a mobilitarsi, presero il Palazzo del governatore; gli italiani, cui non rimaneva che installarsi nel Municipio poco distante, compensarono l’inferiorità simbolica inalberando il tricolore sabaudo anche sulla torre civica, “simbolo della nostra italianità, poiché è l’antica porta marina”361.
Nel clima di tensione di quelle giornate giocarono un ruolo importante i secoli di consuetudini municipali e l’avanzato livello di coscienza civica dei fiumani di entrambe le etnie, ora conquistati dalla nuova immagine dell’autodeterminazione. L’adunata patriottica del 30 ottobre, dove Grossich lesse alla folla il proclama con cui si dichiarava Fiume “unita alla sua Madrepatria, l’Italia” segnò certamente il primo atto di quell’escalation neo-risorgimentale di manfestazioni che, confluendo nella mobilitazione nel Regno e nell’esercito, avrebbe divulgato il mito di Fiume italiana.
La chiavarese Mary Vitali, che sarebbe diventata una delle più celebri attiviste per la causa fiumana, ricordò che nell’autunno 1919 iniziò la sua militanza sapendo “poche ed essenziali cose su Fiume”; per prima cosa, “che era italianissima per storia cultura, lingua. E che, con solenne plebiscito, il 31
358 A. Paladin, Usanze popolari e feste religiose a Fiume, «Fiume. Rivista di studi fiumani», II semestre 1991, n. 22, p.
39.
359 Frassetto, op. cit., p. 13.
360 Kochnitzky, La quinta stagione o i centauri di Fiume, Bologna, Zanichelli, 1922, p. 34. 361 Susmel, Fiume italiana, cit., p. 53; cfr. Tirotti, op. cit., n. 8, p. 39.
ottobre 1918 [sic] aveva chiesto di essere unita all’Italia”362. L’adunata del 30 ottobre rispondeva all’urgenza di precedere l’imminente occupazione croata con un fulmineo atto collettivo. Per la maggior parte della popolazione italiana, applaudire al proclama di Grossich e alla bandiera italiana significava perseguire la tradizionale affermazione di autonomia rispetto all’accerchiamento straniero, seppure con le energie e i mezzi portati dal vuoto di potere e dalle nuove rappresentazioni della pace363. Per i militanti irredentisti della “Giovine Fiume”, invece, era il culmine di una battaglia decennale per il congiungimento della città allo stato italiano. Nel già citato resoconto propagandistico di Susmel, l’adunata del 30 ottobre fu investita di un titolo storico che l’avrebbe consegnata alla memoria come unanime atto volontaristico.
Il plebiscito dei fiumani, di essere uniti alla loro madre patria, suscitò un entusiasmo immenso, una commozione profonda, un vero delirio. Le finestre si adornarono del tricolore, i davanzali si vestirono di bandiere, nelle piazze, sui tetti sventolò lo stemma sabaudo, le campane della Torre di San Vito suonarono a festa e da per tutto fiori, nastri, gonfaloni.364
Da allora in avanti, ogni rievocazione scritta o pronunciata avrebbe definito il 29-30 ottobre come le giornate del “plebiscito” con cui la “città italianissima” compì il suo ingresso nella storia nazionale e, più prosaicamente, nel dibattito del suo tempo. L’arrivo delle navi italiane il 4 novembre e l’ingresso della fanteria il 17 furono teatro di un simile tripudio patriottico, portato al parossismo. Ciò non mancò di colpire i militari, sopratutto le classi e le categorie più sensibili alle immagini evocate dall’intervento in poi. Il giovane tenente Nicola Benagli, di stanza a Trieste, ricordò:
Eravamo tutti baldanzosi della nostra vittoria [...]. Trieste, l’Istria, Fiume, la Dalmazia furono la meta diretta dalle nostre aspirazioni di grandezza, commossi dalle manifestazioni che per ogni dove scoppiavano imponenti. [...] Fiume, la cui architettura severa aveva qualche cosa di straniero, nella sua popolazione ci si rivelò più italiana di Trieste e fummo ovunque accolti fraternamente e coccolati come si dice nel loro dialetto come fratelli da tanto desiderati.365
La tradizionale partecipazione dei cittadini si esprimeva ormai nella divisione tra autonomisti e annessionisti, i quali cercavano di offrire l’immagine di un diritto - quello dell’autodecisione - in grave pericolo, garantito soltanto dalla presenza dei “nostri soldati”366.