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Lo “Spettacolo santo” e altre liturgie dell’irredentismo

Il teatro e la piazza

“Quell’uomo no!” mormorò Leonida Bissolati quando riconobbe Benito Mussolini nella folla che, tra insulti e fischi, gli impediva di parlare.

La sera dell’11 gennaio 1919 il teatro alla Scala di Milano era gremito per l’assemblea in cui l’ex ministro socialista esponeva le sue proposte riguardo i compensi territoriali. In linea con i principi per i quali aveva sostenuto l’entrata in guerra, Bissolati proponeva di rinunciare ai territori sudtirolesi, sloveni e croati richiesti dal Patto di Londra e ottenere, in cambio, l’annessione della città italiana di Fiume in nome del principio di nazionalità. Erano gli stessi principi per i quali Mussolini aveva appoggiato l’intervento e sostenuto la necessità di una coalizione di tutte le forze dell’”interventismo di sinistra” in nome del rinnovamento nazionale. Tuttavia, per l’ex socialista romagnolo era necessario ritagliarsi un ruolo nel panorama del dopoguerra. Perciò, quella sera si recò alla Scala insieme ai futuristi, ai nazionalisti, agli Arditi e ai futuristi che invocavano l’applicazione integrale del Patto di Londra oltre l’annessione di Fiume e dell’intera Dalmazia: l’offensiva condotta per soffocare il neutralismo doveva dispiegarsi ora contro i “rinunciatari”245. Questa battaglia si consumò in uno spazio sacro della nuova politica: il teatro. Luogo d’elezione del Risorgimento mazziniano, il teatro ottocentesco era rimasto terreno di un orizzonte ideologico che opponeva i comizi e i contraddittori al chiuso clientelismo dell’establishment liberale. Le

rappresentazioni portate dalla guerra mondiale e della pace avevano investito questi spazi di una

luce nuova. Militanti e reduci invasero i santuari della “rivoluzione” per conferire forza ai propri messaggi, e dimostrare quanto gli avversari fossero distanti dalla volontà del paese reale. Ciò diede vita a un inedito sincretismo i vecchi spazi e le nuove immagini che avrebbero ospitato. Il perimetro assembleare del teatro fu investito dalle liturgie della guerra, diventando un altare laico cui consacrare la memoria dei caduti e il culto della nazione rinnovata; ogni atto dispiegato in questa cornice acquistava un crisma assoluto ed era vissuto dai presenti come una materializzazione di

valori. Attraverso l’estetizzazione del discorso pubblico si consumavano l’appropriamento della memoria e la lotta per la legittimità. Mostrandosi tra gli imbucati che disturbavano il discorso di Bissolati e lo chiamavano “croato”, Mussolini dichiarava il suo abbandono dall’interventismo “di sinistra”. Da allora in avanti avrebbe militato con nazionalisti, futuristi e combattenti in un fronte unito dai miti dell’intervento, dell’antisocialismo, dell’irredentismo e della “trincerocrazia”. Pochi giorni prima, Mussolini aveva scritto per la prima volta al più celebre esponente di quel fronte, Gabriele d’Annunzio.

Caro d’Annunzio,

[...] Io credo che un nostro incontro, possa giovare alla causa che ci è comune. Le nostre idee collimano in questi punti fondamentali.

1° La vittoria italiana non deve essere «mutilata» nemmeno col pretesto della democrazia o del wilsonismo interpretato alla croata;

2° È necessario intraprendere dal e sul terreno della vittoria una profonda rinnovazione della nostra vita nazionale;

3° Bisogna sbarrare la strada ai sabotatori della guerra - preti temporalisti, giolittiani e social-boches. Va bene?

Ciò posto, rimane il problema dei mezzi e degli uomini, la raccolta e l’impiego delle nostre forze. [...] Intanto, io credo che il Suo riserbo - bellissimo e oserei quasi scrivere sacro, non debba durare all’infinito. Bisogna dire la grande parola della pace, come fu detta la grande parola della guerra. Lo scoglio di Quarto può essere ancora una volta la tribuna e l’altare del Poeta e del Capitano.246

Era il primo dell’anno: in quello stesso giorno, mentre la lettera viaggiava da Milano a Venezia, a Roma veniva fondata l’Associazione Nazionale fra gli Arditi d’Italia (Anai)247.

Agli albori del 1919, un’associazione a carattere militare nasceva con l’aperto intento di rivoluzionare lo Stato; un pubblicista invocava una crisi istituzionale chiamando uno scrittore a intervenire nelle piazze e, dopo pochi giorni, con altri giornalisti e scrittori, decretava la sconfitta di un progetto politico con una gazzarra in uno storico teatro nazionale. Questi tre episodi dimostravano l’ingresso di nuove formule del confronto pubblico ed erano i segni evidenti di un modo diverso di concepire la politica stessa. Non fu un caso che Mussolini iniziasse il distacco dal fronte democratico negli stessi giorni in cui scriveva a d’Annunzio. La politica delle emozioni, dei sentimenti e delle adunate richiedeva un messia di riferimento: abbandonando Wilson, era naturale rivolgersi allo stendardo vivente dei combattenti, della guerra e degli interessi della Nazione. Durante la lotta per l’intervento e per l’intera durata del conflitto, lo scrittore era diventato il punto di raccordo dello sfaccettato orizzonte “trincerista” con una minuziosa opera di perfezionamento del sincretismo simbolico nato dalla sua eterogeneità ideologica.

La guerra mondiale aveva intensificato un processo d’ibridazione tra linguaggi rituali differenti: il coinvolgimento della società civile passò attraverso il corteo, il comizio, l’assembramento disciplinato, momenti cardine della liturgia “antisistema”; l’esaltazione della Nazione in guerra fu esibita con le parate, le cerimonie e le erezioni monumentali della pratica istituzionale; il lutto collettivo fu incanalato negli spazi confessionali della Chiesa e del cimitero. Al tempo stesso, la propaganda si nutrì della contaminazione tra differenti narrazioni del passato e dell’identità nazionale. La memoria del Risorgimento, vero pilastro del processo di nation building nei decenni postunitari, rappresentava un grande bacino dove recuperare formule in grado di colpire un immaginario che travalicasse i limiti della classe borghese.

Si recuperarono figure, immagini e rituali di quel Risorgimento “eterodosso” di matrice mazziniana, repubblicana e garibaldina che le istituzioni postunitarie avevano in parte cercato di arginare, in

246 Lettera di Mussolini a d’Annunzio in data 1° gennaio 1919, in De Felice, Mariano (a cura di), Carteggio

D’Annunzio-Mussolini (1919-1938), Milano, Mondadori, 1971, p. 4.

favore di un’oleografica rappresentazione incentrata sull’epopea sabauda248. Coinvolgere il proletariato nella narrazione patriottica più “popolare” significava disinnescare la legittimità dell’internazionalismo socialista che, oltre a esecrare l’esperienza della guerra, si nutriva dei miti della Rivoluzione e della fiducia nei corsi e i ricorsi della storia249. L’interventismo democratico vi

oppose l’immagine e la celebrazione dell’“ultima guerra d’indipendenza” dove il sacrificio collettivo era assimilato a quello dei grandi uomini del passato e del presente, da Mazzini a Corridoni, da Oberdan a Battisti: genuine incarnazioni delle virtù umane della comunità nazionale250. Queste immagini si fondevano con il magmatico apparato ideologico della destra nazionalista, che oscillava tra il mito corradiniano della “nazione proletaria” e un sempre più aperto fiancheggiamento a derive autoritarie e imperialiste251. La militanza per l’intervento aveva unito

sotto gli stessi stendardi identità dagli scopi differenti ma dalle frontiere talvolta non perfettamente definite, vulnerabili a forzature e strumentalizzazioni; immagini e rievocazioni di un “passato rivoluzionario” cementavano dunque l’orizzonte combattentista, seppellendone le contraddizioni attraverso la mitizzazione in diretta dell’esperienza della guerra.

Le celebrazioni irredentiste nell’immediato dopoguerra furono il tentativo di mantenere unito quest’orizzonte sotto un affresco corale di rituali ed emozioni collettive, con il preciso scopo d’inscenare un clima di Union Sacrée in grado d’influire sulla politica nazionale e internazionale. Sovrapponendo la storia di questi simboli alle vicende analizzate nel capitolo precedente, cercheremo di analizzare gli elementi della nuova religione civile che diedero origine al mito dell’impresa fiumana.

Nel 1915, quando i nazionalisti unirono i loro sforzi propagandistici ai repubblicani e a una parte del movimento operaio, i simboli e i riti del mito della “Quarta d’indipendenza” riuscirono a coprire le loro profonde differenze ideologiche.

I culti dell’impresa volontaria, dei condottieri carismatici e dei martiri uscirono dalla tradizione democratico-mazziniana e contaminarono l’apparato scenico istituzionale. Le “radiose giornate” furono un tripudio coreografico in cui i cittadini favorevoli all’intervento si sentirono partecipi nelle vicende della Nazione come patrioti risorgimentali o lavoratori radunati per i propri diritti. I teatri, le piazze e le università si riempirono di ascoltatori; si cantavano inni e si marciava in cortei; invocazioni agli eroi e improperi contro il potere aprivano e chiudevano i comizi pavesati di bandiere252. Per il governo era necessario negare la legittimità politica dei neutralisti socialisti e

cattolici, contrastando la loro presa sulle masse e ricreando l’atmosfera si era respirata nel resto d’Europa durante le giornate d’agosto. La contraddizione riemerse con violenza alla fine del conflitto, quando la questione adriatica riportò alla luce le differenze ideologiche che convivevano dietro il sipario della retorica.

248 Sul ruolo cardine della monarchia come veicolo di coesione del tessuto nazionale nei decenni postunitari, v. C.

Brice, La monarchia e la nazionalizzazione degli italiani (1861-1900), in «Memoria e Ricerca. Rivista di storia contemporanea», Milano, Franco Angeli, I trimestre 2013, n. 42, pp. 69-85.

249 Sui valori e linguaggi rituali dell’Interventismo democratico, v. B. Bracco, Memorie di guerra e rituali, cit., pp. 168-

169.

250 Ibid., p 169. Per le vicende della mitizzazione di Mazzini, cfr. S. Luzzatto, La mummia della Repubblica. Storia di Mazzini imbalsamato 1872-1946, Milano, Rizzoli, 2001.

251 Ha notato Baioni: “Era lo stesso mito del Risorgimento, in definitiva, che poteva suggerire una commistione tanto

equivoca: e a maggior ragione quel Risorgimento i cui valori di libertà e solidarietà tra i popoli si intercalavano con altri messaggi che si volevano attinti alla stessa tradizione; l’idea di primato, la missione civile, la superiorità e la potenza del genio italiano, di cui il mito della Terza Roma fu il simbolo e l’idea-forza aggregante”. Cit. M. Baioni, La “religione della patria”, p. 159. La rappresentazione della guerra mondiale come compimento di un percorso storico

s’innestò su questa contraddizione di fondo, approfondendola. Ha scritto Gentile: “Per assumere autentica sacralità, dunque, la nazione italiana doveva passare attraverso la prova del sacrificio ed essere santificata dal sangue dei suoi figli. Il simbolo del sangue salvifico purificatore e santificante, insieme con il mito della violenza rigeneratrice, entra nella retorica di un nazionalismo che soffre del complesso d’inferiorità per una tradizione nazionale senza grandi guerre e grandi vittorie, ma è anche presente nella tradizione del mito rivoluzionario, che non concepisce rivoluzione senza violenza purificatrice”. Cit. Gentile, Il culto del littorio, cit., p. 27.

Lo scontro per le rivendicazioni al confine orientale investì anche il terreno dei simboli e delle “rappresentazioni”. Nelle ore in cui veniva firmato l’armistizio, la III armata italiana dilagava oltre il confine, occupando le aree promesse dal patto di Londra. Contemporaneamente, in tutta la Venezia Giulia e l’Istria proliferarono comitati e consigli d’irredentisti italiani, sloveni e croati costituitisi in nome del principio di autodeterminazione. Il principio di nazionalità calava artificialmente su una realtà etnicamente complessa, dai confini interni fluidi e sfaccettati. Forzature, omissioni, riletture della storia e dell’etnografia locali iniziarono a costellare il dibattito pubblico sull’assestamento dei “giusti confini”253.

Fu il partito nazionalista a guidare la rivendicazione dell’espansione italiana nell’Adriatico, sostenendo i movimenti annessionisti al confine orientale. Facendo leva sul principio di nazionalità si cercò di presentare al paese l’annessione dell’intera Dalmazia come una missione umanitaria verso i fratelli irredenti che invocavano l’unione alla madrepatria. Il manifesto ufficiale di quest’offensiva di simboli giunse il 14 gennaio 1914, con la pubblicazione della Lettera ai Dalmati di d’Annunzio.

Una settimana prima lo scrittore aveva disertato un solenne convegno per Dalmazia italiana al Palazzo Ducale di Venezia, deludendo le attese del pubblico e degli organizzatori. La Lettera, pubblicata dalla “Gazzetta di Venezia”, compensò l’assenza e rappresentò il suo primo contributo alla nuova campagna irredentista254. In essa sono evocati tre temi fondamentali che, da allora in avanti, sarebbero divenuti i pilastri dell’imperialismo adriatico.

a) L’affermazione di un diritto storico che unisce le sponde dell’adriatico nel segno della romanità, della venezianità e del culto religioso255.

b) La lotta allo straniero: nei confronti dei dalmati jugoslavi, diventa il rifiuto di ogni legittimità alle ragioni dei “barbari”256; nei confronti degli Alleati, si configura come una ribellione a viso aperto contro potenze coalizzate contro la libertà di un popolo e la dignità di una Nazione vittoriosa257.

253 Sul “mondo in frantumi” travolto dall’invasione italiana a nord-est, v. Isnenghi, Rochat, La Grande Guerra 1914- 1918, pp. 428-444. Vinci, op. cit., pp.17-30.

254 G. d’Annunzio, Lettera ai Dalmati, «La Gazzetta di Venezia», 14 gennaio 1919. L’apertura stessa si concentrò sulla

mancata partecipazione alla cerimonia e sul suo ruolo nel dibattito pubblico: “Amici, del mio non essere io venuto a parlare l’altrieri nella Sala dei Pregadi [...], Della mia ripugnanza a sermonare una radunata comoda, dopo aver tante volte parlato breve a compagni pronti ed esser partito innanzi a loro, io non debbo giustificarmi. [...] Che sieno compresi o mal compresi i miei silenzii, che sieno lodati o disapprovati, non me ne importa”.

255 “Ve ne ricordate? il 15 di settembre, poche settimane prima della vittoria, quando mi donaste l’imagine del Leone di

Curzola infissa in una lastra di marmo verde proveniente dal Palazzo di Diocleziano in Spalato, io rievocai quell’attestazione e dissi che veramente in ginocchio avrei dovuto ricevere il dono per me simile alla faccia di quel vangelo dalmatico su cui avevamo giurato il patto di guerra. [...] Il custode del Fòro e del Palatino augusto, Giacomo Boni, al tempo tristo in cui crollò il campanile di San Marco, volle caricare il tritume dei mattoni romani e dei calcinacci veneti in una peata; e dalla laguna uscì nel nostro mare asservito, e nel mezzo mare gittò il carico solenne, che andasse a ritrovar gli anelli sommersi dei Dogi”. Ibid.

256 “Io e i miei compagni abbiamo combattuto per quel pegno dichiarato, per quel pegno consentito, posto tra noi e il

nemico, posto tra noi e l’Austriaco, posto tra noi e quell’accozzaglia di Schiavi meridionali che sotto la maschera della giovine libertà e sotto un nome bastardo mal nasconde il vecchio ceffo odioso seguitando a contenderci quanto con le nostre sole armi e con la nostra sola passione riacquistammo e vogliamo tenere in perpetuo [...] Or è pochi giorni, nella nobile Almissa, minor sorella di Spalato, il vinto, il nostro nemico vinto, il croato lurido, s’arrampicò su per le bugne del muro veneto, come una scimmia in furia, e con un ferraccio scalpellò il Leone alato.”. Ibid.

257 “Sembriamo quasi oppressi dal nostro trionfo. C’è chi vuole spaventarci coi pericoli della vittoria, noi che abbiamo

affrontato e soverchiato tutti i pericoli. [...] Il popolo della rivincita [la Francia], inebriato di vittoria, ridona al vento tutti i suoi pennacchi, riaccorda tutte le sue fanfare, accelera il passo per sopravanzare i più risoluti e i più spediti; e noi premurosamente ci facciamo da parte per lasciarlo trascorrere. Il popolo dei cinque pasti [la Gran Bretagna], terminata appena la sua bisogna di sangue, riapre le fauci per divorar quanto più possa; e noi ci serriamo di qualche altro punto la cintura intorno alla nostra sobrietà.

Il popolo della bandiera stellata non nasconde di aver condotto a termine l’ottimo e il massimo dei suoi affari, sotto la specie delle idealità eterne; e noi già ci lasciamo intorbidare dagli estranei le fonti della nostra ricchezza. [...]

c) Il legame tra interventismo, eroismo di guerra e impegno per la causa della Dalmazia italiana. D’Annunzio invitava i reduci e i militari a sostenere la lotta, facendo leva sul suo ruolo di condottiero di guerra e ideatore d’imprese258.

“Abbiamo combattuto per la più grande Italia. Vogliamo l’Italia più grande. Dico che abbiamo preparato lo spazio mistico per la sua apparizione ideale. L’attendiamo alfin quale noi l’annunziammo”: quest’atto pubblico rappresentò per d’Annunzio una definitiva scelta di campo all’interno dell’orizzonte interventista. La Lettera ai Dalmati fu il suo primo scritto non pubblicato dal “Corriere della Sera”: il giornale milanese, sotto la direzione di Luigi Albertini, era infatti divenuto uno dei più potenti sostenitori del programma democratico, che prevedeva l’abbandono del patto di Londra a favore dell’annessione di Fiume. Albertini aveva chiuso a malincuore la collaborazione con d’Annunzio quando, all’indomani della vittoria, lo scrittore aveva mandato in stampa il Cantico per l’ottava della Vittoria, dov’erano rivendicate all’Italia tutte le città della Dalmazia. “Vorrei con tutte le mie forze che tu ripudiassi le concezioni violente e assegnassi all’Italia ben più alta missione nel mondo” gli scrisse Albertini qualche giorno dopo, ancora inconsapevole che nemmeno la loro amicizia avrebbe distolto distolto d’Annunzio dal fronte degli intransigenti259.

Mentre arruolava personalità come d’Annunzio e Mussolini, la falange di nazionalisti, repubblicani, e combattenti iniziava la propria campagna in piazze, teatri, giornali e università.

Il 18 gennaio, il fronte della sinistra combattentista “purificò” il Teatro alla Scala, celebrandovi un comizio dedicato ai diritti italiani sulla Dalmazia. Il palcoscenico, una settimana prima bersagliato di fischi e insulti, fu pavesato dalle bandiere di Trieste, delle città dalmate e dai gonfaloni di associazioni combattentistiche e irredentiste. Ovazioni e silenzi religiosi si alternarono davanti ai delegati di Fiume, Spalato e Traù, così come davanti ai relatori: l’ex-socialista Guido Podrecca e il reduce repubblicano Fabio Luzzatto. Quest’ultimo chiuse i lavori leggendo una risoluzione che, “in nome del diritto romano e Mazziniano”, chiedeva

che l’Italia, garantito agli stranieri che risultassero compresi nel suo quadro geografico, tutte le libertà civili, ed ai popoli danubiani e balcanici tutti gli sbocchi economici nel mare romano, veneto italiano, reclami la definitiva liberazione dallo straniero dal Trentino al Brennero, dell’Istria e della Dalmazia Italiana comprese Fiume e Spalato.260

Questo protendersi verso gli italiani d’oltre confine, identificandosi con essi proprio nel momento in cui rischiavano di ritornare oppressi dallo straniero, era una formula tipicamente repubblicana che le destre interventiste avevano adottata fin dalla loro alleanza con l’interventismo democratico. Bisognava dimostrare che l’annessione italiana dell’adriatico orientale era non solo una necessità inappellabile per onorare la vittoria, ma che essa era voluta fermamente dalle popolazioni locali in nome del principio di autodeterminazione.

La lingua era il veicolo più immediato di questo principio; da essa derivavano la coesione della comunità nazionale e la venerazione della bandiera. Su questa consequenzialità patriottica, il fronte irredentista trovò un potente alleato nella Società Dante Alighieri, importante istituto carducciano

258 “Che valore hanno i segreti dei trattati laboriosi - espedienti della fede fiacca e della paura intempestiva - al paragone

delle diritte volontà eroiche? Chi di noi andò sopra Trieste passando tra fuoco e fuoco, prese possesso di Trieste. Chi sfidò l’inferno di Pola, staggì per l’Italia il porto. Chi operò il miracolo di Permuda, s’impadronì di tutto l’arcipelago. Chi volò primo su la baia di Teodo, credette di svegliare tra Risano e Perasto il rugghio del Leone che ci aspetta. Chi violò il Carnaro nella notte di Buccari, volle riempire la lacuna del Patto di Londra. Dal principio alla fine, io fui di quella stirpe sempre. [...] Mi avrete con voi fino all’ultimo. E voi sapete che cosa io intenda con questa promessa”. Ibid.

259 Cit. in Alatri, D’Annunzio, cit., p. 401. Isnenghi ha rilevato come la “guerra per simboli” delle imprese dello scrittore

ne avesse già determinato una localizzazione della tensione sul confine orientale: “L’opera di sovradeterminazione ideologica perseguita dal poeta combattente sposta nettamente l’accento su Trieste, mentre Trento tende a sbiadire. Questa che D’Annunzio visualizza anche agli occhi del suo vastissimo pubblico è solo per coincidenza a guerra «per Trento e Trieste» di un Bissolati o di un Salvemini e della tradizione risorgimentale in genere; e, dunque, molto meno la guerra di Cesare Battisti che non quella di Nazario Sauro”. Isnenghi, L’Italia del fascio, Firenze, Giunti, 1996, p. 59.

vicino al Grande Oriente d’Italia, fondato nel 1889 per tutelare la lingua e la cultura italiane all’estero261. La rivendicazione della costa dalmata prese così l’aspetto di una militanza a fianco di chi lottava per dare una bandiera alla propria identità nella nuova Europa delle nazionalità. La campagna “Pro Fiume e Dalmazia” permise di unificare scopi differenti sotto una coltre di suggestioni comuni.

Il primo e più rilevante episodio fu l’inaugurazione del “convegno adriatico” celebrato ad Ancona