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Un’impresa contro il governo Verso le elezioni nazionali (settembre novembre 1919)

La marcia di Ronchi

Alla sera del 10 settembre, quando Frassetto si recò alla “Casetta rossa” per definire gli ultimi preparativi, d’Annunzio era chiuso in camera in preda a una crisi di febbre. Consapevole che un complesso ingranaggio attendeva ormai di essere messo in moto, lo scrittore assicurò che l’indomani sarebbe partito in ogni caso443. Ciò gli permise di guadagnare alcune ore di solitudine

per curarsi e preparare lo sforzo imminente. La sera precedente aveva incontrato l’amica Ida Rubinštein - con cui forse discusse di coreografia e tecnica scenica - e in quelle ore terminò un nuovo articolo per la “Gazzetta del popolo” e la “Vedetta d’Italia”, perché uscisse contemporaneamente alla sua entrata in Fiume444. La mattina dell’11, accanto alle bozze dell’articolo lasciò due lettere per i direttori dell’”Idea Nazionale” e del “Popolo d’Italia”, nelle quali annunciava la partenza. I brevi messaggi, pur essendo poco più che una comunicazione operativa tra agenti propagandisti, furono stilati in prosa breve e drammatica forse già pensando alla loro pubblicazione445.

Alle 13, indossata la divisa di tenente colonnello e le decorazioni, d’Annunzio uscì di casa coperto da impermeabile e occhiali scuri. Scortato dal suo attendente, da Frassetto e da Keller, salì su un motoscafo diretto a Mestre, di dove partì in auto per Ronchi446. Qui lo scrittore incontrò finalmente i congiurati e poté discutere con Reina, accettando l’invito a riposarsi nella stanza che il maggiore aveva a disposizione in una casa nel centro del paese. Gli autocarri per il trasporto delle truppe erano in ritardo. Verso sera, la situazione era immutata, mentre secondo gli accordi già giungevano alcuni membri del Fascio triestino e i giornalisti dell’”Era Nuova”447. La spasmodica attesa dei

443 Daniele: “Frassetto esercitò un’influenza decisiva andando a Venezia a prendere D’Annunzio ammalato”; Daniele, op. cit., p. 86.

444Il proclama, intitolato Italia o morte come il precedente, si configurava come una continuazione dello stesso. Oltre a

un’altra lode all’italianità di Fiume - incarnata dalla devozione delle sue donne per le sepolture dei caduti italiani, il proclama approfondiva il tema dell’antinomia tra Nazione reale e paese legale: “L’Italia grande è di là del mare, dove i pochi la difenderanno, dove quelli del maggio 1915 la ricondurranno alla vittoria dolorosa”. Italia o morte, «La Vedetta d’Italia», 13 settembre 1919. In seguito rielaborato per il volume Il sudore di sangue con il titolo Non abbiamo sofferto abbastanza, è pubblicato in G. d’Annunzio (a cura di R. De Felice), La penultima ventura, cit., pp. 112-118.

445 Le lettere a Mussolini e Corradini differiscono di poco: in esse lo scrittore utilizzò le stesse immagini e la stessa

struttura, componendole probabilmente di getto. L’unica differenza è data dal rapporto con il destinatario. La lettera al leader nazionalista è una comunicazione confidenziale tra collaboratori: “Il dado è tratto. Quando questa mia ti giungerà io avrò occupato la città fedele. Mi levo febbricitante e parto perché è necessario. Vivere e star bene non è necessario. Quella di domattina sarà una bell’alba. Ti abbraccio e abbraccio in te i compagni tutti.” Cit. in Il dado è tratto. Una lettera del poeta-soldato, «Il Gazzettino», 3 settembre 1919. Nella lettera a Mussolini, l’utilizzo del voi e l’aggiunta di disposizioni sulla pubblicazione del discorso suggeriscono un distacco maggiore, sia umano sia gerarchico: “Mio caro compagno, il dado è tratto. Parto ora. Domattina prenderò Fiume con le armi. Il Dio d’Italia ci assista. Mi levo da letto febbricitante. Ma non è possibile differire. Anche una volta lo spirito domerà la carne miserabile. Riassumete l’articolo che pubblicherà la «Gazzetta del Popolo», e date intera la fine. E sostenete la Causa vigorosamente, durante il conflitto. Vi abbraccio”. In De Felice, Mariano, Carteggio d’Annunzio-Mussolini, p. 9. Il riferimento all’articolo, e gli stessi scopi simbolici della marcia, fanno pensare che Mussolini fosse avvisato in veste di giornalista propagandista più che come dirigente del Fascio milanese. Nelle rievocazioni di regime, la lettera sarebbe diventata il documento probante dell’attiva partecipazione di Mussolini nella preparazione dell’impresa Fiumana. Della presenza di questo messaggio ha scritto l’ex-legionario Eno Mecheri, che parlò anche di una terza lettera rivolta al direttore della Gazzetta del Popolo. E. Mecheri, Chi ha tradito?, cit., p. 161.

446 Erano presenti anche il tenente Simoni e Luigi Amaro, che tuttavia rimasero a Mestre con compiti di collegamento,

Susmel, La marcia di Ronchi, p. 380; cfr. L. Amaro, Come d’Annunzio partì per Fiume, Milano, Elettra, 1934.

447 I membri del Fascio triestino erano l’ardito repubblicano Ercole Miani, il capitano Calligaris, i tenenti Giuseppe

Pagano, Gabriele Foschiatti e Orseolo Pieri. Sulla figura di Miani, v. F. Rocco, Ercole Miani. Per una biografia politica, in «Fiume. Rivista di studi adriatici», 2008, n. 18. Sulla sua partecipazione alla marcia di Ronchi insieme a Piero Jacchia, v. Vinci, Sentinelle, cit., p. 54. Gli inviati dell’«Era Nuova» erano Ottone Popazzi e Salvatore Sibilia.

camion a causa del “tradimento” del comandante dell’autoparco di Palmanova avrebbe costituito l’avventuroso esordio dell’”epopea” di Ronchi. “Siamo accasciati, angosciati, inebetiti, senza più pensiero. È il crollo e con questo l’irrisione. Chi potrà sopravvivere alla vergogna, all’onta?” ricordò Cianchetti, ben traducendo la principale preoccupazione dei militari ormai compromessi448. Mentre essi cercavano di sciogliere il nodo, d’Annunzio, dalla propria stanza, iniziò a svolgere il suo compito di “Tirteo” elaborando una giustificazione simbolica. Anche qualora fosse fallita sul nascere, la cospirazione poteva essere nobilitata dalla sua diretta ascendenza con le passioni risorgimentali rievocate in quei mesi. Lo scrittore riconobbe la tangibilità di questa connessione nella stessa memoria di quel luogo.

Il valore simbolico i Ronchi, infatti, fino a quel momento non era parso rilevante ai congiurati, preoccupati piuttosto della sua scomoda posizione strategica. Frassetto ricordò:

Ronchi? E chi aveva mai visto quel paese? Si sapeva, è vero, che lì, il giorno tale, l’anno tale (a un di presso) gli sbirri della imperiale e regia maestà austro-ungarica avevano messo le mani sul collo di Guglielmo Oberdan. E che quella stretta si era poi tramutata in capestro. Ma nulla di più, sulla storia di Ronchi.449

Anche Daniele, che da Venezia aveva seguito i preparativi della congiura, ammise:

Il fatto che Ronchi avesse una piazza intitolata ad Oberdan dal giorno dell’occupazione italiana era passato inosservato a tutti noi, ma non a D’Annunzio, che vi diede grande importanza subito. Egli ne creò la leggenda, che ora sopravvanza la storia.450

Così, mentre gli altri ufficiali già preparavano a smobilitare le truppe e rielaboravano i piani, lo scrittore chiamò al suo capezzale il capitano Sovera, che ricordò:

È preoccupatissimo per il ritardo dei carri, mi parla di Oberdan e crea la leggenda che, appunto in quella casa, nell’osteria sottostante sia stato tratto in arresto dai gendarmi dell’imperatore; conclude dicendo che lo spirito del martire ribelle non poteva essere che con noi e ci avrebbe guidato verso il grande destino.451

Guglielmo Oberdan era il genius loci di Ronchi. Trovarsi nel luogo del suo fallimento significava che l’avventura di quella notte, comunque si fosse conclusa, sarebbe entrata di diritto nel travagliato corso della memoria risorgimentale. Dal punto di vista di quest’analisi, l’assenza degli automezzi appare più come un disguido che limitò il numero di militari coinvolti, piuttosto che una concreta minaccia al successo dell’”impresa”. Per questo motivo fu deciso di ricorrere al piano già suggerito da d’Annunzio nei giorni precedenti: sarebbero partiti solo il “Vate” e i sette “giurati”452, nella speranza che un simile atto simbolico avrebbe egualmente mobilitato i volontari cittadini e messo in crisi il comando interalleato. Tuttavia, mentre Reina e d’Annunzio abbozzavano questo plateale episodio di generosità irredentista da consegnare all’opinione pubblica, i loro compagni “sovversivi” si adoperarono perché il dramma procedesse come da copione.

Susmel, La marcia di Ronchi, cit., p. 385. Sibilia avrebbe lasciato una memoria, La marcia di Ronchi (Schema di ricostruzione), Roma, Casa del Libro, 1933. “Bisognò [...] farci riconoscere perché il maggiore Reina non si fidava né di noi, né di altri. E ci volle del bello e del buono perché egli ci riconoscesse: si persuase della nostra identità soltanto quando gli mostrammo le nostre tessere giornalistiche”. Ibid., p. 109.

448 Cianchetti, op. cit., p. 20. 449 Frassetto, op. cit., p. 38.

450 “Era un paese qualunque dei più distrutti dalla guerra, occupato e sgombrato, risgombrato e rioccupato dagli

austriaci e dagli italiani. Ma era certamente un luogo adatto all’assunzione d’un eroe [...] il luogo sacro ad Oberdan, ribelle e martire. Donde meglio poteva partire una marcia di libertà e di liberazione?” Cit. Daniele, op. cit., pp. 107-108.

451 Testimonianza di Sovera cit. in Woodhouse j., L’ottavo giurato: Giuseppe Sovera con D’Annunzio a Fiume,

Bologna, Gedit, 2008, p. 70.

452“Una decisione è presa: Il Comandante partirà con i giurati. [...] Si deve partire, si deve morire. Fiume

Il fascista Miani, l’ardito Beltrani e Keller si recarono in auto al deposito di Palmanova e, minacciando il responsabile con le armi, riuscirono a requisire 23 automezzi e autisti; il loro arrivo trionfale a Ronchi nel tramestio dei camion e nel clamore dei militari sarebbe divenuto il coup de

théâtre di tutti racconti elaborati in seguito453. La rivoltella di Miani doveva essere l’unica arma sfoderata in questa scorribanda incruenta; prima di partire, infatti, Reina si tolse la fondina d’ordinanza e invitò tutti gli ufficiali a fare lo stesso454. Ufficiali e truppa presero posto nel convoglio fino all’esaurimento dei posti, e per far spazio a più uomini furono lasciati mitragliatrici e mortai455.

Nel frattempo, due vetture precedevano il convoglio di mezz’ora: la prima, diretta a Fiume, doveva annunciare l’inizio della mobilitazione dei volontari e della popolazione456; la seconda, che ospitava

i bersaglieri Ranci e Benagli e il mitragliere Testoni, aveva la missione di trovare e requisire la 4a squadriglia autoblindo, presente nei dintorni457. Ora che la colonna sediziosa era in movimento con il pericolo di provocare scontri con le autorità interalleate, la presenza di mezzi corazzati fu probabilmente vista come un valido deterrente. Identico scopo aveva la lussuosa Tipo 4 rossa che apriva il convoglio, con la poco regolamentare dislocazione dei suoi passeggeri: lasciando l’attendente accanto a Reina sul sedile posteriore, d’Annunzio prese posto accanto all’autista. Sul primo autocarro al seguito, accanto all’autista, sedeva il giornalista Sibilia458.

Verso le sei del mattino il convoglio attraversò la zona di Trieste, passando indisturbato presso gli accantonamenti di Monfalcone, Prosecco, Opicina e Bazovica459. Pur di offrire tempo ai volontari fiumani e a chi doveva procurare le autoblindo, la colonna si arrestò parecchie volte sacrificando persino gli ultimi sette autocarri che, raggiunti dalle autorità, furono costretti a fare dietrofront460. Nella piazza di Castelnuovo d’Istria (Podgrad) si consumò il secondo capitolo del “dramma”. Qui, la vettura dei bersaglieri intercettò finalmente i mezzi corazzati, e l’apparizione di d’Annunzio conquistò alla causa gli equipaggi di cinque autoblindo. Essi posero i loro mezzi in testa e in coda al convoglio, conferendo alla colonna ribelle un aspetto impressionante461. “I mostri rombano, pulsano, urlano” ricordò il tenente Ranci, che salì sulla prima autoblinda a protezione della Tipo

453 “...improvvisamente il nostro cuore ha un sobbalzo. Tutti i nostri sensi si tendono per afferrare quel suono che può

essere un sogno ancora, un’illusione, una sensazione falsa dei nostri nervi ormai scossi, stanchi, sfiniti. Ma no, solo loro, i carri, i carri! È la pazzia! Ci si abbraccia, si grida, si urla, si ride, si piange”. In Cianchetti, op. cit., p. 20; cfr. Lerda, op. cit., p. 22.

454 Susmel, La marcia di Ronchi, cit., p. 389. 455 Lerda, op. cit., p. 22.

456 Vi presero posto il capitano Sovera e i tenenti Rusconi e Beltrami. Susmel, La marcia di Ronchi, cit., p. 390.

457 Per molti anni, la principale testimonianza sulle vicende delle autoblinde rimase quella del tenente Costanzo Ranci,

che raccolse le sue memorie di guerra e di Fiume in Piume al vento, Milano, Alpes, 1923. La sua prosa incalzante non è priva, tuttavia, di lacune e contraddizioni. Queste sono lampanti nel confronto con la già citata memoria del suo commilitone Benagli (di futura pubblicazione a cura di P. Cavassini), e i ricordi del caporale VCA (volontario ciclista automobilista) Arrigo Ghinelli, pubblicati a cura di Antonio Bonelli in La sbarra si spezzò come un sermento.

L’episodio di Cantrida nella testimonianza del legionario Arrigo Ghinelli, in «Fiume. Rivista di studi adriatici», II semestre 2006, n. 14. Per un profilo del tenente ardito Tito Testoni, si veda il saggio con cui di P. Cavassini ha curato il suo album fotografico del periodo, Ombre fiumane. Il fondo fotografico dei fratelli Testoni, legionari ravennati, in «I Quaderni del Cardello», n. 14, p. 201, n. 1.

458 Susmel, La marcia di Ronchi, cit., p. 390. 459 Ibid., pp. 391-394.

460 Susmel attribuisce i ritardi e gli intoppi allo scarso entusiasmo di alcuni autisti, Ibid. p. 394.

461 Il caporale Ghinelli, che si trovava tra gli addetti alla squadriglia parcheggiata che seguirono la colonna, reclamò il

4462. Quando la marcia riprese e il fucile di una sentinella s’inceppò impedendole di far fuoco, d’Annunzio immaginò l’intervento di Corridoni463.

Nei pressi di Mattuglie, a pochi chilometri dalle prime case, il convoglio fu arrestato nuovamente. Reina chiamò gli ufficiali a rapporto e lo scrittore pronunciò un breve discorso motivazionale, annunciando la necessità di espugnare la città e mettendo in relazione questa missione con le sue precedenti imprese di guerra464. La calibratura dei tempi fece in modo che l’avanzata proseguisse lentamente verso la città accogliendo sbandati, pattuglie e interi reparti. Tra essi, uno squadrone di Dragoni, due raggruppamenti di Arditi agli ordini del colonnello Repetto, e i fanti della brigata Sesia465. L’incrociarsi di staffette e comunicazioni tra la colonna e la città non fece altro che rinforzare le fila dei ribelli466. Le ambigue disposizioni dei comandi regolari, la sotterranea opera di

persuasione e, ancora una volta, la forza dei simboli fecero sì che davanti al posto di blocco di Cantrida, alle porte della città, giungesse indisturbata una colonna di oltre mille militari armati467. Il comandante del XXVI corpo d’armata, generale Gandolfo, avvertito del loro arrivo e indeciso sul contegno da tenere, aveva raccomandato “che non si sparga sangue: non è il caso di ripetere Aspromonte”468. Una simile condotta, ambiguamente giustificata da richiami risorgimentali, si ripeté nel comportamento del generale Pittalunga, comandante del corpo interalleato e la sola figura che, ormai, avesse l’autorità per fermare la marcia.

Mentre volontari e cittadini si mobilitavano ad accogliere il corteo, il generale mosse incontro alla colonna per opporre un ultimo tentativo di resistenza formale. Il suo incontro con Reina e d’Annunzio, consumatosi in mezzo al folto pubblico dei militari ribelli, era destinato a diventare il

462 Ulteriore conferma del valore scenografico dell’autoblindo nella parata dannunziana è il richiamo di Ranci al culto

marinettiano della macchina viva, espressione meccanicista e sensuale della guerra moderna: “Sono io, son io che ti bacio! - urrrla la mia blindata 74”. Marinetti, L’alcova d’acciaio, p. 283. Cfr. Isnenghi, Il mito della Grande Guerra, cit., pp. 179-183.

463 “Il gesto poteva essere gravido di conseguenze; ma il colpo non partì e il Comandante ricordò che quel fucile, che

fatalmente non aveva sparato, doveva essere stato impugnato dallo spirito di Filippo Corridoni”. Susmel, La marcia di Ronchi, cit., p. 395.

464 Il discorso fu rielaborato dallo scrittore come l’Orazion piccola in vista del Carnaro, con aperto richiamo a Dante

(“Li miei compagni fec’io sì aguti,/con questa orazion picciola, al cammino,/ che a pena poscia li avrei tenuti” Inferno, canto XXVI, 121-123). In essa d’Annunzio citò la lettera inviata a Mussolini, citato come “un compagno di fede e di violenza”, ribadendo la volontà di arrivare a Fiume. Significativa è quella che sembra un’allusione al fatto che le precarie condizioni di salute non influiscano sul suo compito “letterario”: “Sì è vero, ho la febbre alta. [...] Ma certo in me arde un dèmone, il mio dèmone. E dal male non menomato mi sento ma aumentato”. Allo stesso modo si potrebbe interpretare il richiamo al suo prestigio personale nel garantire il superamento del posto di blocco: “Ecco il mio gagliardetto blu [...] Oggi è più magnetico delle due bandiere. [...] So che la barra di Cantrida guardano i moschetti e le mitragliatrici delle tre Potenze, ma anche dell’Italia spuria. Spezzeremo la barra. Io sarò innanzi: primo”. Cit. in G. d’Annunzio (a cura di R. De Felice), La penultima ventura, cit., pp. 121-122.

465 Adolfo Giuliotti, che era tra gli arditi della VIII divisione d’Assalto che si unirono alla colonna, nelle sue memorie

ricordò: “A chi ci fermava, durante il viaggio, rispondevamo trattarsi di squadre ginnastiche inviate alle gare”. Giuliotti,

Disobbedisco. Vicende dell’impresa fiumana 12 settembre 1919-31 dicembre 1920, La Spezia, Tipografia moderna,

1933, p. 16; Sui Dragoni di Flores e gli Arditi di Repetto, v. Susmel, La marcia di Ronchi, pp. 398-400; cfr. Le fiamme nere, in La marcia di Ronchi XII settembre MCMXIX, «La Fionda», settembre 1920, n. 2, pp. 81-91. Sui fanti della Sesia, Susmel, La marcia di Ronchi, cit., pp. 432-433.

466 Oltre alle automobili di Sovera, Host Venturi e delle ordinanze di Pittalunga, verso Mattuglie d’Annunzio fu

raggiunto dal ten. col. Carlo Ferrero, che s’intrattenne con d’Annunzio e ripartì subito per Castelnuovo. Ibid., p. 398.

467 Per un computo preciso degli effettivi e della loro affluenza nei giorni successivi, ricavato da un rapporto della VIII

armata del 28 settembre, v. Longo, op. cit., I, p. 255.

468 Cit. in Le Fiamme nere, in La marcia di Ronchi..., «La Fionda», settembre 1920, n. 2, p. 86. Abbiamo già visto come

il suo collega Di Robilant, contemporaneamente, scrivesse a Roma per assicurarsi che non fosse un’iniziativa governativa. Il presidente del Consiglio, ripensando alle vicende precedenti la marcia, avrebbe osservato: “Che d’Annunzio con ufficiali di servizio attivo abbia potuto giungere da Roma a Ronchi, traversando zone militari in cui erano ufficiali che l’avevano conosciuto durante la guerra e sapevano bene chi egli fosse e dovevano qualche cosa sospettare, dimostra che nulla era meno improvvisato di quella improvvisazione”. Nitti, op. cit., p. 346.

cuore drammatico di ogni successiva narrazione469. Lo stesso Pittalunga, pochi anni dopo, rievocò il surreale dialogo seguito al suo ordine di non avanzare oltre.

E il Poeta: “Ho capito. Ella, Generale, farebbe anche tirare sui miei soldati, che sono fratelli dei suoi... Ebbene, prima che sugli altri, faccia far fuoco su di me. [...]

Ero diventato calmissimo: “Non sarò io, figlio e nipote di garibaldini, che spargerà sangue fraterno. Ma lei, da buon soldato, ubbidisca” gli dissi “No, andrò a Fiume ad ogni costo” E ai suoi ordinò “Avanti!”470

Memorie prossime e remote si erano combinate provocando una pericolosa crisi gerarchica tra un ufficiale in congedo e la più alta autorità militare nella regione. Consapevole di ciò, Reina cercò di superare l’impasse ordinando alle truppe di presentare le armi a Pittalunga, “comandante di Fiume italiana”471. L’episodio, sfruttato fino alla consunzione dalla letteratura successiva, dimostra quanto

il successo dell’operazione sia dipeso dall’impatto scenico della polvere, della folla, delle autoblindo e dalla presenza di una celebrità internazionale. Pittalunga non poté far altro che chiedere di precedere il convoglio in città, per scongiurare scontri con le truppe alleate. “Erano tutti d’accordo” fu udito commentare davanti al suo staff: “non potevo far nulla, son più di diecimila”472. La sua “resa” permise di proseguire verso il posto di blocco di Cantrida, oltre il quale la marcia si sarebbe mutata in parata nel territorio cittadino.

La sbarra fu sfondata da uno scatto dell’autoblinda occupata dal tenente Ranci, il quale - secondo la leggenda - rispose alle intimazioni dei carabinieri di guardia con quel “Me ne frego!” destinato a passare alla storia473. Lo stesso d’Annunzio, qualche mese dopo, avrebbe rievocato “lo schianto della barra” come il “colpo di gong” (simile al “Che l’inse?” di Balilla) che sancì definitivamente

469 L’episodio è citato in pressoché tutte le narrazione dell’impresa. Uno dei primi resoconti è quello dell’inviato del

“Corriere della Sera”, Gino Berri, L’impresa di Fiume (Storia di una passione inesausta), Firenze, Bemporad, 1920, pp. 24-26.

470 V. E. Pittalunga, In Italia, in Francia, a Fiume (1915-1919), Milano, Unitas, 1926, pp. 255-256.

471 Lo annotò Sibilia, seduto nel suo abitacolo a pochi metri di distanza: “E i granatieri obbediscono, come sempre, ma

il generale Pittalunga non risponde perché - altrimenti - avrebbe, in qualche modo, sanzionato la ribellione di questo