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THE WRESTLER: SCOMPOSIZIONE IN SEQUENZE

II.2.2. IL CORPO COME TERRITORIO DI CONFLITTO

La ricchezza simbolica della pellicola di Aronosfsky non si riduce tuttavia alla coppia tematica “identità e politica”, ma, ancorché apparentemente disadorna sul piano formale, sollecita molteplici interpretazioni critiche. Accanto a questa duplice chiave di lettura, difatti, sono state individuate e formulate almeno altre quattro linee interpretative: autoriale, attoriale, performativa e cristologica. La lettura autoriale del film ravvisa in The Westler, dopo tre pellicole sature di effettismo e sensazionalismo, l’esito cinematografico più riuscito di Darren Aronosfsky: l’approdo a un’impronta stilistica spogliata dal formalismo compiaciuto dei film precedenti e finalmente a misura d’uomo. Così Jonny Costantino:

Nei tre lungometraggi precedenti Darren Aronofsky aveva dato così prova del suo talento visionario da farcelo venire a nausea. È come se - da Pi greco (1998) a The Fountain (2006) passando per Requiem for a Dream (2000) - questo cineasta (prematuramente di culto) avesse esaurito l’ipotesi di cinema che pareva aver sposato, un cinema ad effetto a base di delirio organizzato e sensazionalismo cervellotico, ridondanze post- produttive e accumulo di soluzioni formali che a volte funzionano, altre tradiscono l’ansia di sbalordire, altre ancora risultano stucchevoli, se non causano l’impasse dell’intero dispositivo (è il caso dell’ambizioso fantasy misticheggiante del 2006, fallito anche al botteghino).

d’un linguaggio che svuota il personaggio per eccesso di manipolazione (ovvero lo mutila della terza dimensione, la profondità), per crearsi le condizioni affinché il linguaggio prendesse forma intorno all’elemento umano”149

.

Questa nuova misura linguistica dai tratti essenzialmente umani si collega - per via stilistica -150 alla lettura attoriale, che vede nella prova mimetica di Mickey Rourke una vera e propria rivincita cinematografica dopo un lungo periodo di declino e oblio,151 acquisendo per giunta ulteriori connotazioni di stampo antispettacolare e antidiscriminatorio. In un articolo pubblicato su «Cineforum» e intitolato Mickey Rourke, la bestia è fuori, Pier Maria Bocchi, con un’esposizione tanto accalorata quanto sopra le righe, scrive: Mickey Rourke è il più grande attore

149 Jonny Costantino, Passione d’un corpo glorioso, cit., pp. 16-17. 150

“Tanto di cappello ad Aronofsky, quindi, per aver conferito - attraverso uno stile di ripresa mosso e sporco, attraverso un occhio che opera a distanza ravvicinata, avido di epifanie corporali - la giusta caratura carnale a questa iperbole tragica”, ivi, p. 17.

151 “Ma l’identificazione personaggio-corpo rimanda immediatamente a un’altra identificazione,

sottolineata da molti commentatori e che costituisce in effetti uno dei principali motivi d’interesse del film, e uno dei principali motivi di partecipazione empatica dello spettatore: quella tra Randy Robinson e il suo interprete Mickey Rourke. Entrambi i personaggi hanno avuto una ventina d’anni fa un momento di massimo splendore, il primo battendo il wrestler “Ayatollah”, il secondo imponendosi come sex-symbol planetario con Nove settimane e mezzo; entrambi hanno poi attraversato un periodo di declino e di oblio, relegati nelle zone più marginali del mondo del combattimento e del cinema; entrambi hanno il viso e il corpo sfigurati dalle prove cui sono stati sottoposti (Rourke, allontanatosi dal cinema si è dedicato per anni, nell’incomprensione generale, al pugilato professionistico e a svariati altri eccessi); entrambi ora sono di fronte alla propria seconda occasione: per Rourke di rientrare come stella di prima grandezza nel firmamento del cinema (The

Wrestler si è aggiudicato il Leone d’Oro alla Mostra del Cinema di Venezia, ma Rourke si è dovuto

accontentare della vittoria morale sia a Venezia, beffato da Silvio Orlando, che agli Oscar, battuto da un Sean Penn insolitamente misurato nell’interpretazione di Milk); per Randy sdoppiata in un’inconciliabile alternativa: riconsacrare vent’anni dopo il proprio mito sconfiggendo di nuovo lo storico avversario, sfidando la morte per infarto, oppure, sfidando la vita, rifondare la propria esistenza sul rapporto con gli altri (cominciando anche dal bancone di un supermercato), sull’amore per una donna, sull’affetto per una figlia cui l’affetto è sempre stato negato”, Mauro Caron, The

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contemporaneo. Lo è diventato quando è morto e poi è risorto. È morto abbastanza presto, è risorto dopo una decina d’anni. È morto perché non aveva capito e non avevano capito che era un mostro. Poi l’ha capito e l’hanno capito anche tutti quelli che pensavano fosse un sex symbol. (…) Mickey Rourke oggi è l’animale più straordinariamente vivo e irresistibile del cinema, vivo e irresistibile proprio in quanto fenomeno da baraccone. “(…) Mickey Rourke è il simbolo di tutte le minoranze trattenute a forza, è il nero è il queer è il povero è l’operaio”152.

Da sex symbol a simbolo di tutte le minoranze: Bocchi torna, in virtù dell’immedesimazione tra attore e personaggio, alle connotazioni politiche incastonate nel film, ma da un’altra prospettiva e ricavandone significati sostanzialmente opposti.

Sulla lettura attoriale si innesta poi, per diramazione estetica, quella performativa, che ravvisa nella figura ormai simbiotica di Mickey

Rourke/Randy “The Ram” Robinson un esempio supremo di body art.153

Non troppo diversamente da quanto sosteneva Alberto Pezzotta a proposito di Michael Fassbender/Bobby Sands in Hunger, Toni D’Angela, ancora una volta sulle pagine di «Cineforum», osserva:

“Duchamp diceva che c’è opera d’arte laddove si dà un

152 Pier Maria Bocchi, Mickey Rourke, la bestia è fuori, «Cineforum», n.483, Aprile 2009, pp. 19-20. 153 Anche Mauro Caron rileva alcuni aspetti che accomunano il wrestling alla body art: “la prevalenza

del corpo, l’identificazione del performer con la propria fisicità, la teatralizzazione della

coefficiente personale: ebbene questo è Mickey Rourke, campione e capolavoro di body art, installazione vivente all’interno di una pièce di Ionesco planetarizzata negli inferi aperti, come un abisso, proprio nella ferita del corpo di Rourke, vera sceneggiatura e scenario del racconto (…)”154

.

Per quanto parziale, secondaria e immaginifica, la lettura performativa conduce a un altro aspetto la cui importanza, sia per il film di McQueen che per la pellicola di Aronofsky, è difficilmente trascurabile: la salienza del corpo e la sua essenzialità nella esistenza/resistenza di entrambi i protagonisti. Ambedue, difatti, fondano la propria lotta e la propria ragione d’essere nell’espressione corporea, nella facoltà di manifestare e affermare, attraverso il corpo, la loro forza, la loro immagine pubblica e la loro integrità morale.155 Tuttavia, a differenza del Bobby Sands di Hunger, “The Ram” non riesce ad addomesticare il corpo alla missione a cui si è votato, a piegarlo totalmente alle proprie esigenze, ma deve misurarsi coi limiti e le fragilità che la sua condizione fisica gli impone e, infine, lottare contro un avversario che risiede al suo interno, il cuore malandato. Il combattimento più difficile che Randy è costretto ad affrontare non è

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Toni D’angela, Flesh, «Cineforum», n.483, Aprile 2009, p. 22.

155 Non sfugga la netta suddivisione tra lottatori “buoni” e “cattivi” che struttura immancabilmente

l’universo del wrestling. Giusto a titolo di esempio, giova ricordare che “Hacksaw” Jim Duggan, uno dei wrestler più carismatici nel periodo d’oro degli anni ’80, ha interpretato sul ring il personaggio del patriota americano che lottava contro i “cattivi”, talvolta anche stranieri, dagli atteggiamenti antiamericani.

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quello contro i più giovani o più spregiudicati rivali, ma quello contro un muscolo cardiaco che si rifiuta di assecondare le sollecitazioni estreme a cui il pervicace wrestler lo sottopone. Il nemico più pericoloso, imprevedibile e invincibile non si trova nel quadrato del ring, ma è dentro di lui, nella sua cassa toracica.

Diversamente da Hunger, in cui il corpo era un’entità strumentale che non dettava alcuna regola inderogabile e obbediva docilmente alla volontà di Bobby, in The Wrestler esso si ribella improvvisamente e ineludibilmente, ponendo delle condizioni di sopravvivenza a Randy e imponendogli delle regole di condotta particolarmente restrittive. Da questo punto di vista, se quello di Bobby nel carcere “The Maze” era un regime privativo imposto dall’autorità britannica a cui egli si opponeva privandosi del cibo, quello di Randy nel personaggio “The Ram” è un regime a libertà condizionata imposto dal proprio corpo, a cui egli si rivolta librandosi dalle corde del ring. La morte è il destino di entrambi, naturalmente, ma nel caso di Bobby è l’ideale a guidarlo alla propria fine, mentre in quello di Randy è il cuore a smettere di battere, il corpo a rifiutarsi di essere guidato dalla sua volontà. In The Wrestler, in definitiva, la dimensione corporea non è più un’entità strumentale messa al servizio dell’idea, non è più un veicolo di conflitto come era in Hunger, ma, ribellandosi agli svariati eccessi di Randy, diviene un vero e proprio territorio di conflitto: il luogo in cui si consuma la battaglia decisiva tra la volontà e la carnalità. Non più parola

che diventa carne, ma carne che parla. Malgrado le apparenze, il trattamento del corpo elaborato da Aronofsky in The Wrestler si rivela dunque più incisivo e radicale di quello riservato allo stesso nucleo tematico da McQueen in Hunger. La pellicola di Aronosfsky preserva l’indipendenza semantica e l’autonomia espressiva della corporeità senza sottometterla a una logica comunicativa funzionale e dimostrativa.

Questo trattamento antididascalico della dimensione corporea ha una ricaduta tutt’altro che irrilevante anche sul piano simbolico connesso alla componente politica: contrariamente a quanto avviene nella pellicola di McQueen, in cui un aneddoto retrospettivo s’incarica di fondare storicamente e spiegare moralmente la condotta presente di Bobby, in The Wrestler non si verifica niente di tutto ciò, il comportamento autodistruttivo di Randy restando sostanzialmente immotivato e ingiustificato. Nessun evento traumatico infantile o adolescenziale è evocato a giustificare l’insopprimibile esigenza di calcare il ring e tornare a combattere nonostante le allarmanti controindicazioni del medico.

Allo psicologismo giustificativo di Hunger, insomma, il film di Aronofsky preferisce l’opacità fenomenologica: le ragioni profonde del comportamento di Randy sono lasciate in sospeso, non esplicitate, e questa opacità del personaggio suscita un interrogativo nello spettatore, che è lasciato libero di colmare soggettivamente la lacuna psicologica. Detto più chiaramente: perché Randy agisce e continua ad agire in questo

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modo, a dispetto delle proprie condizioni di salute e dei consigli medici? Si tratta di un quesito che chiama in causa lo spettatore tanto sotto il profilo affettivo e personale quanto sotto quello intellettivo e razionale. Alla luce dell’impostazione ermeneutica che ispira la presente analisi, è possibile formulare due risposte ipotetiche. La prima riguarda la perseveranza mostrata da Randy nel tornare sul ring malgrado tutto: è la sua identità ancora più traballante della salute a spingerlo ancora una volta sul ring.

“Senza l’approvazione e l’adorazione della folla Randy “The Ram” scivola nel buco nero di Robin Ramzinski, un nome istituzionale e impersonale che per lui non significa niente - o meglio significa l’annientamento”156

.

La seconda ipotesi concerne invece ciò che precede il film stesso, ossia la saldatura psicologica tra il protagonista e il suo ring name avvenuta nel passato: una fusione tra identità reale e identità spettacolare che ha cancellato la prima a tutto vantaggio della seconda. Frutto dell’America steroidea e aggressiva degli anni ’80, Randy ha interiorizzato così profondamente e integralmente quel modello di condotta da renderlo inscindibile dalla propria identità. Fino al punto di sacrificare la propria vita in un combattimento che, immolando il proprio corpo sull’altare dello

156 Non è fortuito che a designarlo col nome proprio anziché col ring name siano il medico in ospedale,

la farmacista che gli consegna i medicinali e, infine, il cartellino identificativo datogli dal direttore del personale nel bagno del supermercato. E non affatto casuale che, ogni volta, egli protesti puntualmente, reclamando di essere chiamato Randy, unica denominazione che egli sente legittima e non degradante.

spettacolo, glorifica il suicidio per un malinteso senso dell’amor proprio.

II.2.3. IL PERCORSO SACRIFICALE

Sulla lettura cristologico-sacrificale, l’ultima tra quelle individuate generalmente e l’ultima di cui si tratterà in questa analisi, convergono sostanzialmente le osservazioni di tutti i commentatori, sebbene da angolazioni diverse. A partire da Mauro Caron, che la collega alla versione spettacolarizzata e mercificata della Passione a cui essa si rifarebbe esplicitamente:

“La dimensione cristologica della figura di Randy, “ariete sacrificale”, capro espiatorio, corpo-simulacro offerto al martirio per la sublimazione degli istinti umani di violenza e sopraffazione, viene richiamata esplicitamente nel film, ma con riferimento a “La passione di Cristo” di Gibson, cioè a una versione già spettacolarizzata e mercificata del racconto evangelico”157.

In effetti il riferimento esplicito al film del 2004 di Mel Gibson - pellicola estremamente controversa e aspramente criticata per il compiacimento della violenza rappresentata, nonché per l’efferato “dolorismo” - costituisce il primo e inequivocabile segnale delle valenze cristologiche

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attribuite da The Wrestler alla figura di Randy, segnale che si manifesta dopo circa 20’ dall’inizio della pellicola.158

Alla capigliatura simile a quella del Cristo di Gibson sottolineata da

Cassidy, si aggiungeranno, nel combattimento immediatamente

precedente al collasso di Randy, altri contrassegni iconografici fortemente connotati in chiave passionale, come la perforazione sanguinante sulla fronte che rievoca le ferite della corona di spine, gli spilli sparati con la pistola che rinviano ai chiodi della Crocifissione, il taglio del filo spinato sulla parte sinistra del torace che ricorda la trafittura del costato di Cristo con la lancia e, infine, lo scaleo metallico che riproduce assai liberamente la scala utilizzata per la deposizione di Gesù dalla croce. Strumenti della Passione tradizionali e chiaramente riconoscibili ai quali si sommano altri due tratti cristologici strettamente connessi alla figura di Randy: il tatuaggio al centro della sua schiena che raffigura il volto di Gesù con la corona di spine e il ciondolo dell’ariete - ormai capro espiatorio e “ariete sacrificale” secondo le parole di Cassidy -159

che egli indossa poco prima della rivincita con l’Ayatollah.

Riconducendo la consistente componente cristologica alla lettura attoriale, Toni D’Angela ravvisa nel corpo di Mickey Rourke un supporto materiale

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Nella sequenza intitolata Le giornate di Randy tra lavoro, incontri di wrestling e locali notturni, Cassidy pronuncia questo discorso, già riportato nella descrizione dell’apposita scena: “È La

passione di Cristo, avete i capelli uguali, non l’hai mai visto? Dai, lo devi vedere, è impressionante,

gli tirano di tutto: frecce, sassi, lance! Lo maciullano per tutto il film, cazzo! E lui accetta tutto”.

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Nella sequenza citata nella nota precedente, al termine del discorso sul film di Gibson, Cassidy esclama sarcasticamente a Randy: “L’ariete sacrificale, The Ram!”.

incaricato di concretizzare carnalmente il progetto filmico di Aronofsky:

“(…) Mickey Rourke è il supporto materiale di tutte le fatiche del mondo, un golgota di carne, calvario di pene e sudario impregnato di strazio, corpo crollante, cadente, cascante, che coagula, a grumo sgocciolante, il progetto del regista, è il Verbo, sgrammaticato e scomposto, che si fa carne, incarnazione dell’idea, che altrimenti sarebbe rimasta allo stato fantasmagorico, nel cielo platonico, beata, immobile, impotente e inespressiva160”.

Secondo questa linea interpretativa, in cui la “politica dell’attore” surclassa la più blasonata “politica dell’autore”, il corpo di Rourke costituirebbe la forma concreta in cui l’idea del regista-demiurgo andrebbe a depositarsi. Anzi, la funzione demiurgica convenzionalmente attribuita al regista sarebbe addirittura assorbita e assolta dall’attore stesso, vera e propria “incarnazione dell’idea”. Il dolore e la fatica di Randy rifletterebbero eminentemente il “calvario di pene” sopportato dal corpo di Rourke, autentico “golgota di carne”, per inverare cinematograficamente il Verbo di Aronofsky. Si tratta fin troppo chiaramente di una lettura massimalista e vagamente capziosa, che

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malgrado tutto possiede il merito di evidenziare vivacemente il portato cristologico della pellicola, scongiurando in modo provvidenziale e perentorio le ipotetiche accuse di violenza gratuita e morbosità sadomasochistica.

Il connubio tematico tra “attorialità” e “spettacolo sacrificale” torna nella pregevole e già menzionata recensione di Jonny Costantino, che, pur non assegnando interamente i meriti di The Wrestler a Mickey Rourke e alla sua performance, ne sottolinea l’importanza fino a renderlo titolare del film quanto - se non più di - Aronofsky stesso, che, d‘altro canto, ha offerto all’attore “uno sguardo all’altezza della sua storia”:

“Nel merito va detto che, più che un film di Darren Aronofsky, The Wrestler è un film di Mickey Rourke, nel senso della vicinanza della trama ai tre soggetti scritti dall’attore (sotto pseudonimo: “Sir” Eddie Cook) per tre film da lui interpretati. […] La differenza è che solo adesso, finalmente, Rourke ha trovato uno sguardo all’altezza della sua storia”161

.

Ma a differenza di D’Angela, che sussume il martirio cristologico sotto il segno della performance di Rourke, Costantino, più ragionevolmente, collega le due componenti alla dimensione spettacolare, che rappresenta

indubbiamente il nucleo tematico più ampio, caldo e palpitante del film:

“Lo spettacolo deve andare avanti. E continua anche quando iniziano le fitte al cuore, quando va via Pam, la spettatrice più importante (è una soggettiva zoomante tra il pubblico a rivelarglielo), perfino quando il rivale, preoccupato per lui, si predispone a ricevere la mossa che chiuda l’incontro all’istante. Non esiste: l’Ayatollah va schienato col colpo dell’Ariete, quello che il pubblico acclama: il Ram Jam”162

.

Ed è proprio nel momento culminante dell’ultimo incontro, quando The Ram sale in cima all’angolo del ring, che la dimensione cristologica si dispiega interamente,163 in una versione plateale e alterata della Passione che trasfigura la mossa finale di Randy in una spettacolare auto- crocifissione a uso e consumo di un pubblico avido di violenza sacrificale:

“Il suo corpo è ora la figura di una sintesi cristologica vertiginosa. In croce sul quadrato, con le membra tremanti e il volto contratto e digrignante come un Ecce homo di Antonello da

162

Ivi, p.18.

163“Del resto gli squilli del calvario non erano mancati: il volto di Gesù con corona di spine tatuato al

centro della schiena; il dettaglio dello squarcio sul costato durante e dopo il secondo combattimento; il paragone che viene spontaneo a Pam tra il corpo scalfito del lottatore e quello del redentore flagellato nella Passione di Gibson, film di cui gli parla e lo incoraggia a vedere, aggiungendo tra l’altro: «Avete gli stessi capelli!», prima di chiamarlo scherzosamente Ariete Sacrificale”, ibidem.

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Messina, il wrestler evoca l’icona di un Cristo al culmine della passione, appare come un muscoloso discendente dell’Adone di Galilea che s’auto-crocifigge per un pubblico di fedeli cresciuto a pane e Hulk Hogan”164

.

Se Costantino interpreta il finale di The Wrestler come una gloriosa resurrezione di Rourke165, ponendo l’accento sulla trionfante spettacolarità del volo terminale - “Quel che conta è la spettacolarità del tuffo nello sprezzo dello schianto” -,166

è nondimeno possibile stabilire un dialogo tra la dimensione spettacolare del sacrificio a furor di popolo e la componente politica messa in evidenza nei paragrafi precedenti. Il “pubblico di fedeli cresciuto a pane e Hulk Hogan” non è soltanto il pubblico cinematografico che ha conosciuto l’ascesa e il declino di Mickey Rourke, il divo degli anni ’80 per antonomasia, ma è anche l’intera comunità americana che ha assimilato e condiviso, analogamente a Randy, una forma mentis e una prassi basate su una supremazia affermata, giustappunto, a colpi d’ariete. A distanza di venti anni, superati i limiti di età e venute meno le forze per perseverare in una condotta simile, la tracotante cocciutaggine di Randy si rivela per quella che è: una patetica

164

Ibidem.

165“Al tempo stesso, nella medesima figura, con le luci alle spalle che aureolano la sagoma, Randy è il

figlio di Dio risorto nel proprio corpo di gloria, immortale ma ancora carnale, il Salvatore che allarga le braccia e mostra le non perdute stigmate. Un referente iconico per tutti da accostare alla silhouette di Rourke in excelsis: la «Resurrezione» di Grünewald nel Polittico di Isenheim (1512- 1516) a Colmar”, ibidem.

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messinscena in cui il malconcio lottatore non dispone più neanche della forza necessaria a sconfiggere un avversario condiscendente.

Per Randy esibirsi adesso in un ultimo Ram Jam significa sì accontentare una folla di esaltati eternamente bambini e schienare un rivale già docilmente sottomesso, ma equivale soprattutto a immolarsi sulla scena di uno spettacolo farsesco e caricaturale in cui, ironia della sorte, la messinscena della violenza gli costa nientemeno che la vita. Non una gloriosa metafora della vicenda attoriale di Rourke, dunque, ma la tragica