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Capitolo 3. La schiavitù a Malta

3. Corsa pubblica e corsa privata

Accanto alle operazioni di «polizia del mare» e alla partecipazione della squadra maltese all’alleanza delle armate cristiane nel quadro delle grandi imprese, l’Ordine conduceva dunque un’attività corsara pubblica e ufficiale; in più, suoi membri esercita- vano l’attività anche individualmente e con finanziamenti privati. Prima del 1530, a Malta già esisteva sicuramente una limitata attività di corsa laica e indipendente, ma fu l’arrivo dei Cavalieri – che già la praticavano dalla loro base di Rodi – a darle rapido e pressoché continuo sviluppo, attirando non solo un gran numero di stranieri, ma anche favorendo il risveglio della vocazione marittima degli stessi maltesi. In quanto capo del governo dell’isola di Malta, era il gran maestro a concedere le licenze di corsa ai privati, laici e religiosi.

L’originalità del contesto maltese risiede dunque, in primo luogo, nella coesistenza delle due dimensioni – pubblica e privata – di un’attività corsara esercitata direttamente, oltre che amministrata, da uno Stato sovrano e dai suoi rappresentanti, per di più appar- tenenti a un Ordine religioso. La corsa maltese diventerà ben presto un impegno “a tem- po pieno” che coinvolgerà tutta la comunità portuaria. Il suo carattere perpetuo, lo sti- molo ideologico della crociata contro l’infedele e il suo dominio sull’economia e la so- cietà, mentre differenziano la realtà maltese da quella degli altri centri corsari europei, la rendono piuttosto simile a quella sviluppatasi nelle Reggenze barbaresche.48

47 M. Fontenay, L’Empire Ottoman et le risque corsaire, cit., pp. 185-208. Non mancano comunque spedizioni a scopo puramente predatorio anche nel XVI secolo: nel 1590, per esempio, le squadre congiunte di Malta e Toscana partivano «tirando alla volta di Levante per attender su le Crociere d’Alessandria la Caravana, che suol passare in Costantinopoli». B. Dal Pozzo, Historia, cit., vol. I, p. 321. Su questa stessa rotta si catturavano anche i pellegrini diretti alla Mecca.

48 Ben diversa, per esempio, la situazione della Livorno dei Cavalieri di Santo Stefano: strutturato in forma analoga a quello dei Cavalieri di Rodi e Malta, l’Ordine stefaniano nasceva, nelle idee del granduca Cosimo I, allo scopo di dotare la Toscana medicea di un valido strumento militare maritti- mo. Quella stefaniana può ben essere considerata un’attività di corsa pubblica, ma i Cavalieri toscani non esercitavano, al contrario dei maltesi, un potere diretto sul loro territorio d’azione, rimanendo agli ordini del granduca; inoltre, l’insieme delle attività portuarie non fu mai interamente consacrato all’attività di corsa.

In epoca moderna, praticamente tutti i governi italiani ed europei rilasciavano paten- ti di corsa, secondo una logica prettamente economica che rispondeva tanto agli interes- si pubblici quanto a quelli privati. Nel XVI secolo, la corsa ancora «si inscriveva nella guerra delle squadre»: emergeva – come abbiamo detto all’inizio di questo capitolo – nel momento in cui grandi conflitti attraversavano un periodo di tregua. Associandosi ai privati, gli Stati evitavano di mettere a rischio le proprie imbarcazioni e prendevano eventualmente tempo per ricostituire o rinforzare le flotte; alleggerendo momentanea- mente il loro coinvolgimento economico nella guerra, erano disposti a lasciare ai privati la maggior parte dei proventi derivanti dall’attività di corsa (dai quali, comunque, rica- vavano una percentuale). Per i corsari e gli armatori privati il vantaggio era quello di re- cuperare, almeno in parte, le perdite subite nei periodi in cui la guerra marittima ostaco- lava le normali attività di pesca, piccolo cabotaggio e commercio.49

La corsa, dunque, era necessariamente legata a una città portuaria; era sì, come sot- tolinea Michel Fontenay, una pratica bellica, separata dalla normale navigazione e dal traffico commerciale, ma era allo stesso tempo capace di animare la vita di un porto, e pertanto non sempre distinguibile dall’insieme dell’economia portuaria. Tuttavia, vista la sua dipendenza dalle congiunture della grande guerra, era anche un fenomeno tempo- raneo che non necessariamente si traduceva in uno sviluppo duraturo di quelle città e di quei porti. Per trasformarsi in veri e propri centri corsari, era necessario che quegli scali fossero, contemporaneamente, degli importanti centri commerciali: e questo processo era giunto a perfetto compimento nella Algeri del 1580, la cui «prodigiosa fortuna» è simbolo della fortuna stessa della corsa barbaresca.50

Michel Fontenay suggerisce la necessità di definire – prendendo in prestito una pa- rola della lingua franca mediterranea – una nuova forma di violenza sul mare che, pro- prio a partire dal 1580, diventerà «l’attività favorita di certi “États-corsaires”»: il corso, una sorta di brigantaggio marittimo al confine tra la corsa e la pirateria, si distingue dal- la guerra di corsa, innanzitutto, per il suo carattere perpetuo. Non è un «rimedio con- giunturale», ma un’attività che genera impiego di manodopera qualificata, tanto nel por- to che nelle industrie ad esso legate; genera profitto da reinvestire in quella stessa attivi- 49 Cfr. M. Lenci, Corsari, cit., pp. 83-84; M. Fontenay, La place de la course, cit., p. 1323; Id.,

L’Empire Ottoman, cit., p. 187.

50 Sulla pirateria legata alle città e sulla «prodigiosa fortuna di Algeri» si veda F. Braudel, Civiltà e

tà; trasforma il porto, e la sua città, in un mercato dove smerciare le prede, anche uma- ne, in cui assoldare avventurieri e procurarsi schiavi da remo. Malta già risponde perfet- tamente a questa descrizione, ma c’è di più: la seconda caratteristica tipica del corso mediterraneo è la “copertura” ideologica.51

Parlare di “copertura” non significa dire che l’ideale di crociata contro l’infedele non fosse, come sostanzialmente era, il quarto voto dei Cavalieri gerosolimitani dopo quelli di povertà, obbedienza e castità. Da sempre a contatto diretto con il mondo mu- sulmano, il loro ruolo di soldati della fede era riconosciuto in tutta Europa fin dai tempi di Rodi. Ma è innegabile che, nel contesto del corso mediterraneo, il pretesto ideologico doveva servire a legittimare la motivazione economica. Le istruzioni magistrali fornite ai religiosi dell’Ordine insieme alle lettere patenti mostrano come il mero criterio del profitto non fosse affatto relegato in secondo piano rispetto al più nobile criterio ideolo- gico: non c’era nulla di ambiguo, infatti, nel dare autorizzazione a corseggiare a danno

d’infedeli, conformemente all’istituto dell’Ordine, al fine di ottenere qualche buon effet- to al profitto della nostra Sacra Religione, laddove per profitto si intende, in senso tut-

t’altro che figurato, qualche rica presa, qualche guadagno.52

Che il corso maltese – così come quello stefaniano – abbia conosciuto rapida cresci- ta a partire dall’ultimo ventennio del Cinquecento, in corrispondenza dell’ascesa di Al- geri e della straordinaria esplosione dei porti magrebini, è una delle giustificazioni usate dalla storiografia – almeno fino alla metà del Novecento – per legittimare in ambito cri- stiano il ricorso a una pratica che si considerava appannaggio esclusivo dei barbareschi: brutale e violenta se esercitata a partire dalla sponda opposta del Mediterraneo, la guerra di corsa cristiana assumeva invece i caratteri epici di una lotta eroica contro l’infedele.

Come dire, di necessità virtù: l’opinione diffusa secondo la quale la corsa cristiana sarebbe da intendersi esclusivamente come una contro-corsa difensiva, come una neces- saria risposta alle scorrerie dei barbareschi, cominciò a cambiare solo grazie alle rifles- 51 La riflessione sulla nozione stessa di «corsa» e la proposta di Michel Fontenay di distinguere, per l’epoca moderna, tre forme di «violenza marittima» (guerra di corsa, corso e pirateria) oltre alla guerra delle squadre navali sono contenute nel rapporto presentato dallo storico francese insieme ad Alberto Tenenti in occasione del Colloquio Internazionale di Storia marittima tenutosi a San Franci- sco nel 1975. Il rapporto è stato pubblicato in M. Fontenay-A. Tenenti, Course et piraterie méditer-

ranéennes de la fin du Moyen Age au début du XIXe siècle, in Course et Piraterie, 2 voll., Paris 1987,

pp. 87-134, ma abbiamo qui fatto riferimento alla sintesi contenuta in M. Fontenay, La place de la

course, cit., pp. 1321-1325.

sioni presentate da Fernand Braudel nella sua opera più importante. Allora, quella visio- ne unilaterale ha lasciato spazio a un’immagine più equilibrata del fenomeno e alla con- sapevolezza che la pratica corsara non fu un elemento esclusivo della realtà maghrebina, né un’attività intrapresa dai cristiani a scopo unicamente difensivo e militare.

Operando in entrambi i contesti, pubblico e privato, della corsa maltese, sembra na- turale che gli appartenenti all’Ordine rappresentassero la componente maggiore dei cor- sari di base nell’isola. Tuttavia, la proporzione va rivista alla luce di alcune osservazio- ni: Anne Brogini suggerisce a questo proposito un interessante confronto tra i dati relati- vi alle patenti rilasciate dal gran maestro e quelli relativi alle partenze effettivamente re- gistrate in porto. Più del 56% delle patenti rilasciate tra il 1575 e il 1635 risulta conces- so a membri dell’Ordine; in realtà, però, la percentuale dei cavalieri che lasciarono Mal- ta a bordo di un’imbarcazione propria si attesta intorno al 36%. Questa differenza si spiega col fatto che i religiosi avevano sicuramente maggiori possibilità di ottenere una patente rispetto ai laici, maltesi o stranieri che fossero; i cavalieri, pertanto, si limitava- no molto spesso a effettuare – totalmente o in parte – l’armamento di una nave e a chie- dere la licenza a loro nome, per poi affidare l’imbarcazione a un corsaro laico.53

Questa tendenza subì un’inversione solo durante gli anni centrali della guerra di Candia (1655-1665). Mentre la squadra delle galere, pronta ogni estate a soccorrere i veneziani, approfittava degli altri periodi dell’anno per condurre le proprie scorrerie in Mediterraneo, gli appartenenti all’Ordine cominciarono a rappresentare anche la percen- tuale più alta delle partenze in corsa privata, insieme a un certo numero di laici, perlopiù stranieri, che tornarono poi a essere la componente preponderante dopo il 1669.54

La corsa privata venne regolamentata a partire dal 1605 con l’istituzione, per volere del gran maestro Alof de Wignancourt (1601-1622), del Tribunale degli Armamenti. Chiamato in origine Magistrato o Congregazione, esso si pronunciava su una vasta quantità di materie, tra cui l’elezione del capitano dell’armata, la convenienza di intra- prendere spedizioni o mantenere una tregua e il dirimere eventuali controversie fra gli armatori.55

53 A. Brogini, Malte, cit., Cap. VI, §§ 9-10, 145.

54 Soprattutto nel periodo 1655-1669 furono i membri dell’Ordine a dominare l’attività, con 57 parten- ze su 112. Finita la guerra di Candia, i laici tornarono di nuovo a essere più numerosi. Ivi, Cap. X, §§ 45-46. Il grafico è il risultato del confronto tra i dati sintetizzati da Anne Brogini e da M. Fontenay,

Corsaires de la foi, cit., pp. 373-375.

Esercitando il controllo diretto su ogni bastimento in transito a Malta, l’Ordine si as- sicurava delle entrate regolari sia alla partenza che al ritorno delle imbarcazioni: la pa- tente «ad piraticam exercendam» – valida per un solo viaggio, che dava facoltà di sal- pare battendo bandiera dell’Ordine verso il Levante o la Barberia per fare la guerra con- tro i «nemici della nostra Santa Religione» – aveva un prezzo variabile a seconda delle dimensioni della nave; al rientro in porto, al Tesoro spettava un decimo del bottino per i cosiddetti “diritti di Ammiragliato”. Vi erano poi numerose commissioni da corrispon- dere al personale della Quarantena, ai magistrati degli Armamenti, ai notai e persino alle sorelle di Sant’Orsola perché «pregano continuamente per la vittoria contro l’infedele». Alla fine, i capitani di corso ricevevano la cosiddetta gioia (circa il 10%), l’equipaggio un terzo e gli altri interessati due terzi del bottino che, però, era già stato ridotto di quasi la metà.56

La supervisione del Tribunale, tuttavia, non si rivelò sempre efficace: solo due anni dopo la sua fondazione, l’Ordine doveva prendere atto dell’esistenza di una corsa anco- ra illegale e clandestina, perpetrata non solo dai corsari laici, ma anche da alcuni Cava- lieri che partivano senza licenza né vessillo della Religione.57

La norma che prevedeva che non si arrecasse danno a «vascello, mercantie, beni, e persone de’ Christiani, né d’altri ancor che Infedeli, i quali mostrassero salvocondotto del G. Maestro, o d’altro Principe Christiano» era frequentemente trasgredita. Abbiamo già avuto occasione di dire che l’Ordine stesso, nell’ambito della corsa pubblica con le sue galere, non mancava di effettuare prese illecite. Queste potevano, a volte, essere det- tate dalla necessità, come accadde tra il 1590 e il 1592, quando la grave carestia che col- pì tutta Italia, interrompendo il consueto rifornimento che Malta riceveva dalla Sicilia, indusse il gran maestro a ordinare che si scorresse in cerca qualsiasi vascello carico di frumento, anche cristiano. I corsari maltesi attaccarono numerose imbarcazioni al largo della costa meridionale della Sicilia tra l’estate del 1591 e l’inverno del 1592; ma anche

56 M. Fontenay, La place de la course, cit., p. 1339.

57 Non ebbe alcun effetto l’affissione, nel giugno del 1607 in tutte le strade delle quattro città portuarie, di un bando con cui si comminava la pena della prigione e la perdita dell’abito a chiunque fosse stato sorpreso a navigare senza patente. Qualche mese dopo il Consiglio si diceva desolato del fatto che la creazione del Tribunale non avesse in alcun modo posto fine alla corsa clandestina. Nel 1625, le galere dell’Ordine catturavano una nave tripolina: il suo rais navigava con una patente maltese scaduta da quattordici anni. A. Brogini, Malte, cit., Cap. VI, § 35.

più tardi, nei primi anni del XVII secolo, questa «corsa di sopravvivenza» proseguì in modo abbastanza continuativo.58

Ma simili occorrenze nulla avevano a che vedere con la sistematicità con cui si de- predavano i vascelli veneziani e greci, al punto che già nel 1590 la Serenissima aveva proibito a qualsiasi imbarcazione battente bandiera maltese di sostare a Candia per ap- provvigionarsi di acqua dolce. Il proseguire di questa “abitudine” dei corsari maltesi du- rante tutto il XVII secolo fu causa di un conflitto perenne tra Malta e Venezia, che trovò il suo culmine, nel 1641, nella confisca delle commende che l’Ordine possedeva sul suolo della Repubblica.59 Con la guerra di Candia, il Levante era tornato a essere la meta privilegiata anche per i corsari privati, che si spingevano in particolar modo verso Creta e i suoi dintorni. Se la trasgressione delle semplici norme della corsa non creava alcun imbarazzo all’Ordine stesso, non stupisce il fatto che i corsari privati fossero a loro vol- ta ben lontani dal seguire alla lettera le regole dettate dallo Statuto degli Armamenti. Nel 1679, il gran maestro Nicolas Cotoner (1663-1680) si vide costretto a integrare lo Statuto con nuove norme, dopo aver preso provvedimenti contro alcuni capitani di corso che «persistevano ne’ mari del Levante con incuria», razziando imbarcazioni greche e trascurando di far ritorno a Malta per spartire le prede con chi aveva partecipato all’ar- mamento.60

La prima manifestazione di malcontento da parte dei greci nei confronti della corsa maltese sembra risalire al 1637, quando un mercante greco residente a Malta fece appel- lo all’Inquisizione per ottenere la restituzione delle merci che gli erano state sottratte. Nonostante l’intervento dell’Inquisitore, l’Ordine si rifiutò di scendere a patti e la vitti- ma non fu mai rimborsata. Da allora, però, gli Inquisitori iniziarono a interferire sempre

58 Ivi, Cap. VI, §§ 125-126. Naturalmente, «non pochi fastidij s’hebbero poi ad acquietar i richiami fatti da i luoghi, per dove havevano il carico»: B. Dal Pozzo, Historia, cit., vol. I, p. 327.

59 Si veda la nota 31 per il contenzioso del 1641. Già alla fine del XVI secolo, Venezia aveva reagito ripagando i maltesi con la stessa moneta: nel 1588 le galere di Malta, cariche di merci prese a dei vascelli turchi, furono a loro volta saccheggiate dalle galere veneziane. Due anni dopo, a un briganti- no armato da due cavalieri in sosta a Candia furono confiscate tutte le merci a bordo. A. Brogini,

Malte, cit., Cap. VI, §§ 132-133.

60 Richiamati in porto, quattro capitani si rifiutarono di sottostare alle limitazioni imposte dalla Congre- gazione e rinunciarono a riprendere il mare, mentre il capitano Auger si rese contumace e fu privato dell’abito. Cfr. B. Dal Pozzo, Historia, cit., vol. II, pp. 460-461 e O. Caruana, Diritto municipale di

più risolutamente nelle cause presentate dai greci, convinti che le misure di volta in vol- ta prese dai gran maestri non fossero sufficienti a impedire i saccheggi arbitrari.61

Nel 1702 l’Inquisitore in persona pretendeva che le navi maltesi fossero richiamate dal Levante e obiettava anche sulla modalità con cui le cause venivano gestite nel nuovo tribunale fondato nel 1697 dal gran maestro Perellos (1697-1720): la corte che presiede- va il Tribunale degli Armamenti faceva capo al gran maestro in qualità di capo di un or- dine religioso e, pertanto, gli appellanti avevano la possibilità di ricorrere presso la San- ta Sede; il nuovo Consolato del Mare era invece istituito dal gran maestro in qualità di capo del governo di Malta, per cui le cause di appello erano prerogativa esclusiva di quella corte.62

Se le lamentele dei greci avevano indubbiamente un certo fondamento, ormai persi- no i vascelli musulmani non costituivano più una preda legittima, perché viaggiavano con un passaporto francese, ottenuto dai consoli in Levante, o perché i greci si offrivano come prestanome per i mercanti turchi. Da Malta spesso si rispondeva alle lagnanze del- la Francia con la giustificazione che, anche se muniti di patente francese, i vascelli bat- tevano bandiera turca: ci si rendeva conto dell’errore solo dopo averli abbordati e, in al- cuni casi, danneggiati. Da parte sua, la Francia protestava vigorosamente proprio sulla questione delle bandiere: sembra infatti che fosse espediente comune per i corsari malte- si quello di navigare con una bandiera bianca, in modo da potersi avvicinare all’obbietti- vo senza che questi si desse alla fuga vedendo il vessillo dell’Ordine. Quanto ai greci, il nuovo gran maestro Manoel de Vilhena (1722-1736) tentò di far leva sulla generale av- versione del cattolicesimo per gli scismi orientali: ma la proposta – presa in prestito dal- l’ordinamento toscano – di considerare un vascello “immune” dal saccheggio solo se il

61 Un caso isolato nel 1627 e altri negli anni successivi al 1637 sono citati da M. Greene, Catholic

Pirates and Greek Merchants. A Maritime History of the Mediterranean, Princeton University Press,

Princeton 2010. Le innumerevoli lettere di protesta inviate dagli arcivescovi delle isole di Nasso e Paros indussero finalmente il gran maestro a vietare le scorrerie in quelle isole. A. Brogini, Malte, cit., Cap. IX, § 44.

62 Le navi corsare poste sotto la giurisdizione del Consolato del Mare issavano la bandiera del gran maestro, mentre quelle che facevano capo al Tribunale degli Armamenti battevano bandiera della Religione. In un primo momento, ai corsari del gran maestro era concesso di esercitare solo nelle acque maghrebine, ma dal 1720 le licenze furono estese anche al Levante. Cfr. S. Bono, Malta e

Venezia fra corsari e schiavi (secc. XVI-XVIII), «Mediterranea. Ricerche Storiche», 7, 2006, pp.

213-222. Il merito di gettare un raggio di luce sull’attività corsara maltese nel Settecento, colmando il vuoto lasciato da altre opere che si concentrano quasi esclusivamente sul XVII secolo, ivi compre- sa la cronaca di Dal Pozzo che si arresta al 1688, va al lavoro di R. E. Cavaliero, The Decline of the

capitano e almeno metà dell’equipaggio fossero risultati cattolici romani non incontrò i favori del papa.63

Evidentemente, «being a pirate community and having international obligations

were likely to prove incompatible». Il sostegno della curia romana alle querele dei greci

stava irrimediabilmente fiaccando il corso maltese: un ultimo tentativo di aggirare il problema fu quello di porre tutti i corsari che desiderassero partire da Malta sotto la giu- risdizione del solo Consolato del Mare e farli quindi navigare con la bandiera magistrale anziché con quella della Religione, di modo che le eventuali cause si sarebbero dovute discutere presso la corte dell’isola senza possibilità di fare appello a Roma. Ma nel 1730 la Segnatura apostolica dichiarava formalmente di non riconoscere l’indipendenza del Consolato del Mare, e il gran maestro fu costretto a decretare che ogni vascello armato a