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Capitolo 1. Stato dell’arte, metodologia e obiettivi della ricerca

4. Metodologia, obiettivi e struttura del presente studio

Come accennato nell’introduzione, il punto di partenza di questa ricerca si individua in un nucleo documentale originale che ho rinvenuto presso l’Archivio Colonna nel cor- so delle ricerche per la mia tesi specialistica.

Nella sezione Scritture e conti particolari dell’Archivio Colonna si trova la serie delle Scritture dell’armata navale, costituita da otto pezzi, datati tra il 1564 e il 1582, relativi all’attività nautica di Marcantonio Colonna (1535-1584). Il nobile romano, a capo della casata dagli anni Sessanta del XVI secolo, era stato nominato capitano della 76 Id., Un rescate de 600 musulmanes cautivos en Malta (1788-89), in «Hespéris Tamuda», XXV,

1987, pp. 33-90.

77 Id., Cartas árabes de Mawlāy Muḥammad b.cAbd allāh, relativas a la embajada de IbncUṯmān de 1780, in «Hespéris Tamuda», II, n. 1-2, 1961, pp. 327-33 riguarda la prima missione che al-Miknāsī

intraprese in Spagna per portare a compimento le trattative di pace e anche per distribuire denaro agli schiavi dell’arsenale di Cartagena; riuscì pure a farne liberare un centinaio che si imbarcarono immediatamente alla volta del Marocco. Sempre su questa missione di al-Miknāsī e sul suo viaggio da Madrid a Cartagena: Id., El paso de un embajador marroquí por tierras de Murcia en 1780, in «Murgetana», 44, 1976, pp. 95-115. A Malta, prima dell’arrivo di al-Miknāsī, si trovava già un ambasciatore marocchino, che non ebbe alcun ruolo nel riscatto del primo gruppo di schiavi: Id., El

Marroquí Muḥammad b.cAbd al-Hādī al-Ḥāfī y sus misiones en Malta, 1781-1789, in «Al-Qantara.

Revista de estudios arabes », V, 1984, pp. 203-233. Sul passaggio a Napoli dopo la missione a Malta si veda F. Correale, Le relazioni “garbate” fra il Sultano del Marocco e il Regno di Napoli.

Diplomazia, religione e rappresentazione nella missione marocchina del 1782, in S. Cabibbo, M.

Lupi (a cura di), Relazioni religiose nel Mediterraneo. Schiavi, redentori, mediatori (secc. XVI-XIX), Roma, Viella, 2012, pp. 178-200. Quanto ad altri contributi recenti: N. Matar, Europe through

Eighteenth-Century Moroccan Eyes, in «Alif. Journal of Comparative Poetics», 26, 2006, pp. 200-

219. Dello stesso autore si veda poi la parziale traduzione del secondo resoconto di viaggio di al- Miknāsī, che comprende anche la missione maltese: Id., An Arab Ambassador in the Mediterranean

World. The travels of Muḥammad Ibn ʼUthmān al-Miknāsī, Routledge, New York 2015. Si vedano

ancora: N. Mouline al-Andalusi, Un ambassadeur rédemptoriste au service du sultanat sharīfien:

Ibn Uthmān Al-Miknāsī en Espagne, à Malte et à Naples, in François Moureau (dir.), Captifs en Méditerranée, cit., pp. 47-58. M. Ezzahidi, Le rachat des captifs musulmans à Malte en 1782, d’après le récit de voyage d’Ibn Uthmān al-Meknassī, in «Cahiers de la Méditerranée», 87, 2013, pp.

221-228. R. Boudchar, España vista por un embajador marroquí del siglo XVIII: IbncUṯmān al- Maknāsī, «Norba. Revista de Historia», nn. 29-30, 2016-2017, pp. 45-56.

marina pontificia nel 1570 e aveva guidato le dodici galere papali nelle spedizioni lan- ciate dalla Lega santa contro gli Ottomani in Levante, culminate con la battaglia di Le- panto nel 1571.78

All’interno di un volume contenente minute di lettere, relazioni, istruzioni e inventa- ri, si trovano le liste dei prigionieri musulmani e dei cristiani (alcuni dei quali rinnegati) presi durante la battaglia di Lepanto e condotti in Italia sulle galere del papa. Da questa documentazione avevo ricavato, e presentato nella mia tesi specialistica, una sintesi sta- tistica su numeri e provenienze dei musulmani che risultavano, in numero di 399, censiti come “schiavi”.79 Impressionata da alcune interessanti letture sugli schiavi battezzati in Italia, sulla loro difficile integrazione nella nuova società e sui processi a carico di colo- ro che venivano accusati di «continuare a far vita da mori», ho inizialmente voluto pren- dere in esame tutta la gamma di possibili destini di questi individui, compresa, appunto, l’ipotesi di una loro permanenza nel nostro paese.80

78 L’archivio della famiglia Colonna, dichiarato di notevole interesse storico il 2 marzo 1965, è stato trasferito dal palazzo Colonna in Piazza Santi Apostoli a Roma presso la biblioteca del monastero di Santa Scolastica a Subiaco, a titolo di deposito gratuito, in seguito a una convenzione sottoscritta il 13 dicembre 1995 tra la famiglia Colonna, la direzione della biblioteca del monastero benedettino e la Soprintendenza Archivistica per il Lazio. Il trasferimento è stato completato nell’aprile del 1996. Il fondo è costituito da 4.184 pergamene (1150-1855), oltre 86.600 lettere e 7.864 pezzi tra volumi, registri, buste e filze. I manoscritti sono per lo più relativi all’amministrazione dei feudi dei Colonna nei Castelli Romani, nel Basso Lazio e in altre regioni italiane, oltre alle serie di corrispondenze degli esponenti della famiglia con politici, letterati e diplomatici tra il 1200 e il 1800.

79 Il volume è indicato dalla segnatura II CF 3, Scritture dell’Armata Navale in tempo del Don Marc.

A[ntoni]o Colonna il Trionfante. Tomo 3° 1564-1575. Vi sono contenuti anche numerosi documenti

non datati, tra cui le nostre liste che si trovano ai ff. 44r-70v. Il censimento del bottino umano imbarcato su ogni galera pontificia fu effettuato a seguito della divisione delle prede tra i vari alleati (metà del totale al re di Spagna, due sesti ai veneziani e un sesto al pontefice). Sull’argomento della spartizione, ho confrontato i risultati della mia valutazione con diverse fonti, piuttosto discordanti sul numero dei prigionieri. Si vedano A. Guglielmotti, Marcantonio Colonna alla battaglia di Lepanto, Le Monnier, Firenze, 1862, pp. 254-256; G. Diedo, La battaglia di Lepanto e la dipersione della

invincibile armata di Filippo II, Milano 1863, pp. 42-43; G. B. Carinci (a cura di), Lettere di Onorato Caetani, capitan generale delle fanterie pontificie nella battaglia di Lepanto, Roma 1870,

pp. 59-60. Si vedano anche gli studi di R. Canosa, Lepanto. Storia della “Lega Santa” contro i

Turchi, Sapere, Roma 2000, p.182; N. Capponi, Lepanto 1571. La Lega santa contro l’Impero ottomano, Il Saggiatore, Milano 2008, pp. 242. Le carte dell’Archivio Colonna non sono datate, ma

alcuni fattori concorrono a dimostrare che si tratta proprio dei prigionieri presi a Lepanto: innanzitut- to i nomi delle galere, che corrispondono a quelli delle undici superstiti della battaglia (la dodicesima galera Fiorenza era stata perduta nello scontro), come appare dal confronto con altri documenti dello stesso archivio e con altre fonti e studi (a quelle già citate in questa nota si aggiungano: G. P. Contarini, Historia delle cose successe dal principio della guerra mossa da Selim ottomano a'

Venetiani, fino al dì della gran Giornata Vittoriosa contra Turchi, Rampazzetto, Venezia 1572, pp.

37-40 e A. Barbero, Lepanto. La battaglia dei tre imperi, Laterza, Roma-Bari 2010, pp. 624-634). Ne abbiamo poi ulteriore conferma da alcune intestazioni delle liste, quali ad esempio: «Nota di tutti

li schiavi fatti con la Galera Toscana il Dì della Gloriosa Vittoria».

80 Oltre alla già menzionata monografia di Salvatore Bono, uno sguardo approfondito sulla singolare realtà degli schiavi già convertiti o intenzionati a chiedere il battesimo a Napoli è quello di G.

Così, nel tentativo piuttosto ambizioso di ricostruire qualche storia individuale, ho dapprima consultato i fondi relativi alle Soldatesche e galere (visto che gli schiavi erano destinati in buona parte al remo) e quelli dei tribunali criminali di Roma e Civitavecchia presso l’Archivio di Stato di Roma. I dati, numerosi dalla metà del Seicento in poi, ri- sultano invece abbastanza scarsi per il XVI secolo, complice anche una pessima conser- vazione dei documenti che in molti casi li rende illeggibili. Un simile problema si è ve- rificato presso l’Archivio Storico del Vicariato, dove mi ero recata per consultare i regi- stri di battesimo della Casa dei Catecumeni e Neofiti di Roma alla ricerca di qualcuno di quei 399 nomi, trovandomi invece a dover rilevare che i registri relativi al Cinquecento – già esaminati da Rudt de Collemberg e dal direttore dell’Archivio, Domenico Roccio- lo – erano andati perduti in un incendio.81

Un altro tentativo di dare a quelle liste un valore che andasse oltre i risultati statistici già ottenuti è stato stato quello di verificare se, tra i nomi a mia disposizione, fossero presenti anche quelli dei quaranta «prigionieri illustri» di Lepanto. Tuttavia, grazie alla dettagliata ricostruzione di tutta la vicenda ad opera di Michele Rosi, ho dovuto ben pre- sto constatare che era impossibile poter ritrovare quei nomi – che sono riportati in un Boccadamo, Napoli e l'Islam: storie di musulmani, schiavi e rinnegati in età moderna, D’Auria Editore, Napoli 2010. Interessanti riflessioni sul valore emancipatorio del battesimo e sull’ambiguità della posizione dello Stato Pontificio sono sviluppate a partire dal discorso sul ruolo della città eterna come tappa decisiva dei percorsi di conversione in M. Caffiero, Battesimi, libertà e frontiere.

Conversioni di musulmani ed ebrei a Roma in età moderna, in «Quaderni Storici», XLII, n. 3, 2007,

pp. 819-39. Su Roma si vedano poi gli studi di carattere statistico menzionati nella prossima nota. O. Gobbi, “Quando il Turco si fece cristiano”: conversioni di schiavi e relativo cerimoniale, in S. Anselmi (a cura di), Pirati e corsari in Adriatico, Silvana, Milano 1998, pp. 145-157 affronta il tema dell’alterità e della contaminazione. Alcuni casi straordinari di conversione e integrazione sono quelli dei «santi africani», cfr. G. Fiume, Antonio Etiope e Benedetto il Moro: il Santo scavuzzo e il

Nigro eremita, in D. Ciccarelli, S. Sarzana (a cura di), Francescanesimo e cultura a Noto, Biblioteca

Francescana di Studi Medievali, Palermo 2003, pp. 67-100; Id., Schiavitù mediterranee. Corsari,

rinnegati e santi di età moderna, Mondadori, Milano 2009, pp. 121-198; e quello del «convertito

illustre» Ḥasan Ibn Muḥmmad al-Wazzān, uomo erudito e autore di diversi manoscritti, uno dei quali, La descrittione dell'Africa, avrebbe conosciuto un duraturo successo, malgrado il mistero che per molti secoli aleggiò sulla figura dell'autore. Battezzato in San Pietro da papa Leone X che gli diede il suo stesso nome, la sua vicenda è oggi nota grazie al romanzo di A. Maalouf, Leone l’Afri-

cano, Bompiani, Milano 2002, [ed. or. Léon l’Africain, Lattès, Paris 1986] e al più recente saggio di

N. Zemon-Davis, La doppia vita di Leone l’Africano, Laterza, Roma-Bari 2008. [ed. or. Trickster

Travels. A sixteenth-Century Muslim Between Worlds, Hill And Wang, New York 2006].

81 W. H. Rudt de Collemberg, Le baptême des musulmans esclaves à Rome aux XVIIe et XVIIIe siècles, in «Mélanges de lʼÉcole Française de Rome. Italie et Méditerranée», 101-I, 1989, pp. 9-181. D. Rocciolo, Catecumeni e Neofiti a Roma tra ʼ500 e ʼ800: provenienza, condizione sociale e «padrini

illustri», in E. Sonnino (a cura di), Popolazione e società a Roma dal medioevo allʼetà contempora- nea, Il Calamo, Roma 1998, pp. 711-724; Id., Documenti sui catecumeni e neofiti a Roma nel Seicento e Settecento, in «Ricerche per la storia religiosa di Roma», n.10, Dallʼinfamia dellʼerrore al grembo di Santa Chiesa. Conversioni e strategie della conversione a Roma nell’età moderna, Ed. di

verbale di consegna conservato in Archivio Vaticano – nelle liste dell’Archivio Colon- na: all’indomani della vittoria di Lepanto, gli alleati cristiani non erano stati in grado di mettersi d’accordo sulla spartizione di questi prigionieri «di maggior conto», per cui essi non vennero portati a Roma direttamente sulle galere pontificie, ma consegnati al papa solo nel marzo 1572 da Don Rodrigo de Benavides in nome del capitano generale della Lega Don Giovanni d’Austria.82

Quelli presenti nelle nostre liste si aggiungono quindi alle altre migliaia di nomi (in- sieme alle provenienze e a pochi altri dati) di schiavi e schiave che probabilmente rima- sero in Europa, ma di cui purtroppo si sono perse le tracce. Vista la mancanza di relazio- ni significative con altre fonti archivistiche e l’impossibilità di ricostruire una o più sto- rie individuali, questo primo nucleo documentale si presta alla sola valutazione statisti- ca,83 ma costituisce comunque un valido campione di analisi del fenomeno della schiavi- tù mediterranea. Dagli studi effettuati su questi documenti, e maggiormente dalla vicen- da dei prigionieri illustri, ho però individuato un primo aspetto meritevole di approfon- dimento: la possibilità, almeno per alcuni prigionieri di guerra, di evitare la schiavitù in virtù della loro origine sociale e di recuperare la libertà grazie a una procedura – quella dello scambio – che certamente doveva coinvolgere in modo diretto i governi musulma- ni.

Nell’insieme dei fogli che costituiscono il terzo volume delle Scritture dell’armata

navale, devono essere passate per lungo tempo inosservate, agli occhi dei non speciali-

sti, undici lettere in arabo inviate ad alcuni schiavi dai loro familiari o amici, alcune del- le quali datate tra il 1617 e il 1618 e indirizzate a Malta.84 La traduzione ha rivelato che

82 M. Rosi, Alcuni documenti, cit.; Id., Nuovi documenti, cit. Il verbale di consegna dei prigionieri è trascritto in A. Theiner, Annales Ecclesiastici, tomo I, Roma 1856, pp. 462-464.

83 Diversa è l’impostazione del lavoro, incentrato sulle stesse liste dell’Archivio Colonna, di S. Hanss,

Gefangen und versklavt: Muslimische Sklaven aus der Seeschlacht von Lepanto in Rom, in S. Hanss

- J. Schiel (eds.), Mediterranean Slavery Revisited (500–1800), cit., pp. 337-379. L’autore mette in discussione la valutazione «passiva», cioè puramente numerica, di questo tipo di documenti, riflet- tendo sulla misura in cui lo status di schiavo dipendesse anche dalle dichiarazioni fornite dagli stessi interessati al momento della cattura e registrate dai copisti nelle “liste di schiavi”. Dichiarando di provenire da una regione piuttosto che da un’altra – se, per esempio, erano in corso trattative di scambio con un determinato paese, non è escluso che alcuni individui potessero mentire sulle loro origini – i prigionieri già definivano, almeno in parte, il proprio futuro, poiché si inserivano in un sistema di categorizzazione, di divisione in sottogruppi e in piccole comunità, che avrebbe poi influenzato la loro vita in cattività. È chiaro che anche le valutazioni di tipo meramente statistico devono tener conto degli errori e delle approssimazioni dei copisti, spesso dotati di scarsa conoscen - za del mondo extra-europeo. Su questo si veda anche S. Bono, Schiavi, cit., pp. 69-70.

84 Archivio Colonna (d’ora in poi AC), II CF 3, ff. 183-200. Vi sono anche delle lettere in turco e una in armeno. Devo ringraziare il Prof. David Armando, relatore della mia tesi specialistica, al quale

quasi tutti questi scritti ruotano attorno al tema del riscatto: in particolare, essi gettano luce su alcuni espedienti messi in atto dalle famiglie per rimediare una somma di denaro utile a pagare il prezzo della liberazione del proprio caro (spesso attraverso la vendita di beni immobili), e quasi tutti menzionano la presenza di un intermediario incaricato di portare a termine la faccenda.85

Pur essendo un campione molto esiguo, queste scritture sono testimonianza di un al- tro possibile percorso di redenzione degli schiavi musulmani, insieme a quello già indi- viduato dello scambio. Ma, soprattutto, esse sono state il reale punto di partenza del la- voro di ricerca archivistica e di selezione bibliografica che oggi viene presentato in que- sta tesi.

L’indicazione contenuta in alcune lettere è servita a definire la prima delle due linee guida che hanno orientato le mie ricerche successive. Si tratta di una direttrice di natura geografica (alcune lettere, come anticipato, sono indirizzate a Malta) che mi ha portato a esaminare in prima persona parte della documentazione conservata nell’Archivio dei Cavalieri di San Giovanni della Valletta. Documentazione, a dire il vero, già minuziosa- mente scandagliata da alcuni storici (in particolare, Wettinger e altri studiosi maltesi, ol- tre a Michel Fontenay e Anne Brogini), proprio in relazione alla presenza, immediata- mente percepibile sull’isola nel corso di tutta l’età moderna, di numeri impressionanti di schiavi musulmani, che ha fatto di Malta un luogo privilegiato per l’osservazione del fe- nomeno della schiavitù mediterranea e del commercio ad essa legato.

invece queste lettere non sono passate inosservate pur non essendo un arabista, per avermi indirizza- to verso questo fondo.

85 La famiglia di Jamāl al-Dīn Qardān, per esempio, viene contattata da un intermediario marocchino che le comunica che il prezzo di riscatto del proprio caro è stato fissato a quaranta scudi; avendo già dovuto vendere un immobile per pagare alcuni debiti, i figli di Jamāl al-Dīn hanno disponibilità di denaro e decidono di affidarsi al mediatore (AC, II CF 3, f. 186. Lettera dicAbd al-Jawād,cAbd al- Raḥmān ecĪsā a loro padre al-Hājj Jamāl al-Dīn Qardān al-’Ittikāwī, s.l., 9 Rabīcal-’Awwal 1617).

Anche un certocAlī al-’Ittihāwī intendeva pagare il proprio riscatto con il ricavato della vendita della

sua casa, ma l’amico Muḥammad scrive a Malta per avvertirlo che i compaesani a cui aveva affidato l’operazione «hanno preso la tua casa e i tuoi beni, ti hanno calunniato e ora ti lasciano nelle mani dei cristiani» (AC, II CF 3, f. 190, Lettera di Muḥammad Za’īfān all’amicocAlī al-’Ittihāwī Ibn Salāma IbncAbd al-Ḫalīl, schiavo in Malta, s.l., s.d.). Affidarsi a un mediatore poteva sicuramente

essere rischioso, come riferiva anche Muḥammad Rīs al suo amico ’Ibrāhīm che si era affidato a un intermediario cristiano: tale Jawān ’Ašrangī, mentre rassicurava lo schiavo dell’imminente liberazio- ne, in realtà non stava facendo nulla per raggiungere un compromesso per lui; anzi, continuava Muḥammad, egli era connivente con la famiglia che, per impadronirsi dei beni di ’Ibrāhīm, aveva incaricato qualcuno di dirgli che suo fratello era morto e che nessuno poteva fare nulla per lui (AC, II CF 3, f. 187. Lettera di Muhammad Rīs all’amico ’Ibrāhīm al-Masrī, prigioniero in Malta,

Contrariamente a quanto avvenuto per l’infruttuosa ricerca di connessioni delle liste dell’Archivio Colonna con altri documenti, il contenuto delle lettere si è rivelato esem- plare non isolato di una procedura di riscatto – cioè quella che prende avvio per iniziati- va personale dello schiavo e che, nelle fasi successive, coinvolge la famiglia e spesso anche l’insieme della sua comunità d’origine – largamente utilizzata in epoca moderna; nel contesto maltese, essa venne incentivata e favorita proprio dallo stesso Ordine e rag- giunse altissimi livelli di organizzazione soprattutto tra XVI e XVII secolo, al punto che alcuni ex-schiavi finirono per ricoprire stabilmente il ruolo di intermediari per il riscatto di altri compagni.

Ecco quindi, a partire dalle fonti primarie a mia disposizione e a seguito dei primi approfondimenti presso l’archivio maltese, delinearsi l’altra linea guida del mio lavoro e, di fatto, i suoi obiettivi. Scoprire quali fossero le principali modalità attraverso cui gli schiavi e i captivi musulmani potevano riacquistare la libertà partendo dall’esempio di due procedure opposte – una che certamente implica il coinvolgimento statale ma che è verosimilmente diretta alla liberazione dei soli prigionieri «di qualità» e l’altra che inve- ce può essere intrapresa, con una buona dose di rischio e incertezza, da qualunque schia- vo comune. Il passo successivo, dopo aver raccolto casi concreti e aver valutato anche le disposizioni giuridiche in merito, è cercare di comprendere se – pure in assenza di istitu- zioni specifiche per la redenzione paragonabili a quelle europee e pure nella reale diffi- coltà di rintracciare azioni sistematiche in favore dei captivi e schiavi musulmani – esi- stesse perlomeno un modello di comportamento e di intervento delle società islamiche nei riguardi dei loro correligionari caduti in mano cristiana.

Come si vedrà nel corso della trattazione, effettivamente questo modello di compor- tamento esiste, ed è stato esplicitato, in termini teorici, dalla giurisprudenza musulmana di scuola malikita intorno al XIV secolo. Questa parte del mio lavoro, cioè l’indagine delle fonti della legge musulmana, non è stata priva di difficoltà, dal momento che, a pa- ragone delle numerose disposizioni circa la liberazione dello schiavo o del prigioniero infedele, lo spazio che i giuristi dedicano alla cattività e alla liberazione del musulmano caduto in mano del nemico è decisamente più modesto: l’ipotesi della cattura e della schiavitù del fedele musulmano non è nemmeno presa in considerazione nel Corano; va-

gamente accennata da alcuni commentatori, dai compilatori delle tradizioni del profeta e dai giuristi nei primi secoli dell’islam e nell’Oriente musulmano, essa sarà finalmente esaminata in modo sistematico nel contesto della convivenza armata tra cristiani e mu- sulmani in al-Andalus.

Il secondo capitolo di questo studio si propone di ripercorrere la normativa riguar- dante i prigionieri di guerra musulmani: il capitolo si apre con una breve introduzione generale sulle fonti della legge; si affronterà anche qui il problema della terminologia in uso nelle fonti e si passeranno brevemente in rassegna anche alcune disposizioni circa il trattamento dei captivi infedeli, per cercare di capire se – come affermato da qualche studioso – alcune di queste norme possano, per estensione, considerarsi applicabili an- che ai musulmani caduti in mano del nemico.

Secondo i “passaggi” descritti nel Muḫtaṣar di Ḫalīl Ibn Isḥāq, l’obbligo di reden- zione dei correligionari ricade, in prima battuta, sul capo della comunità musulmana che