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Capitolo 2. Il riscatto degli schiavi e dei captivi musulmani: teoria e pratica

1. Le procedure per la liberazione dei prigionieri nei trattati di fiqh: problem

Addentrarsi nell’immenso corpus del diritto musulmano è un percorso oneroso per un non specialista, tanto più se la ricerca è volta a esaminare un aspetto tanto specifico

della dottrina. L’analisi del vasto insieme di fonti che costituisce la giurisprudenza mu- sulmana pone un certo numero di problemi metodologici. La prima criticità, come già anticipato, sta proprio nel reperire e isolare le disposizioni relative alla cattività e alla li- berazione dei musulmani a partire da due macro-tematiche – la prigionia di guerra e la schiavitù – che trovano abbondante spazio nella trattatistica giuridica.

Già nel testo sacro si trovano numerose indicazioni – a volte in contraddizione l’una con l’altra – sul trattamento da riservare ai prigionieri e sulla loro eventuale riduzione in schiavitù. Il tema della prigionia di guerra si inserisce nel discorso sul jihād e sulla spar- tizione del bottino: le maggiori raccolte di ḥadīṯ e i trattati di giurisprudenza contengono una sezione ad esso dedicata, indicata generalmente con il titolo di Kitāb al-jihād, ma anche con altri nomi (nel Ṣaḥīḥ di Muslim, per esempio, Kitāb al-jihād wa al-siyar).1 Ulteriori indicazioni sulla questione del bottino – e quindi anche dei prigionieri, che sono considerati parte di esso – si trovano in altri capitoli a parte (Kitāb al-fay’ wa al-ġa-

nīma),2 mentre il tema delle relazioni con le altre comunità è affrontato anche nelle se- zioni che trattano della cessazione delle ostilità contro i non musulmani (Kitāb al-jizya

wa al-muwādaca in Buḫārī).3

1 Al singolare, il termine sīra si identifica con il genere letterario della biografia; venne per la prima volta impiegato in questo senso nel secondo secolo dell’egira, in riferimento alla vita e alla condotta del profeta (sīra rasūl Allāh o sīra nabawiyya) che fino ad allora era stata trasmessa sotto il nome di

maġāzī . Il plurale siyar, che appare in alcune raccolte di ḥadīṯ e nella trattatistica giuridica, viene

spesso tradotto come “spedizioni militari”, ma esso si riferisce più propriamente alle “norme che regolano la condotta dello stato islamico e i suoi rapporti con i non musulmani”. I primi giuristi trattavano la materia all’interno del più generale discorso sul jihād o sugli altri temi ad esso connessi, come le già citate maġāzī (nel senso di “campagne militari”), o il bottino (ġanīma). I giuristi ḥanafiti furono i primi a normalizzare l’uso del termine nel senso che abbiamo poc’anzi menzionato. All’in- terno delle sezioni sul siyar si possono trovare indicazioni sul trattamento dei prigionieri ed eventual- mente sul loro riscatto. M Khadduri, The Islamic Law of Nations. Shaybānī’s Siyar, The John Hopkins Press, Baltimore 1996, pp 38-40. W. Raven, s.v. Sīra, in Encyclopædia of Islam, vol. IX, Brill, Leiden 1997, pp. 660-663.

2 Ġanīma è il bottino nel senso più stretto del termine, cioè quello conquistato a seguito di una

battaglia. Il termine fay’ è talvolta tradotto come “erario pubblico” (per esempio, nella traduzione del

Muḫtaṣar di Ḫalīl Ibn Isḥāq a cura di Ignazio Guidi), ma esso indica in realtà l’insieme dei beni

prelevati agli infedeli senza combattimento. Si veda la nota 45 per maggiori chiarimenti.

3 Per quanto riguarda le raccolte di ḥadīṯ, sei libri sono generalmente considerati più affidabili e importanti. Per questa ricerca ne abbiamo consultati cinque, di cui riportiamo in questa nota i dati di edizione completi, e che saranno poi citati nelle prossime pagine solo con i nome dell’autore e il riferimento al volume e alla tradizione: Buḫārī, Ṣaḥīḥ, (trad. M. Muḥsin Ḫān), 8 voll., Dārussalām, Riyad 1997; Muslim b. Ḥajjāj, Ṣaḥīḥ, (trad. N. Al-Ḫaṭṭāb), 7 voll., Dārussalām, Riyad 2007; Abū Dāwud, Sunan, (trad. Y. Qadhi), 5 voll., Dārussalām, Riyad 2008; At-Tirmiḏī, Ğāmic, (trad. Abū

Ḫalīl), 6 voll., Dārussalām, Riyad 2007; An-Nasā’ī, Sunan, (trad. N. Al-Ḫaṭṭāb), 6 voll., Dārussalām, Riyad 2007. Per il prossimi riferimenti agli ḥadīṯ, indicheremo in numeri romani il volume dell’edi- zione consultata; il primo numero arabo si riferisce al libro, i numeri successivi, in corsivo, ai capito- li che trattano un determinato argomento.

Il tema generale della schiavitù è invece affrontato, nei manuali di giurisprudenza, nel contesto delle mucāmalāt e in particolare nelle sezioni riguardanti la capacità giuridi-

ca delle persone e il diritto di proprietà. Quanto ai modi e alle cause di estinzione della schiavitù, essi sono così numerosi (oltre ad essere considerati una delle massime opere di carità) da meritare una trattazione particolare sia nelle raccolte di ḥadīṯ – in alcune delle quali si trovano sezioni particolari intitolate Kitāb al-citq (“Libro della manomis-

sione”) – sia nei manuali di fiqh: questi ultimi trattano la questione nelle sezioni dedica- te allecibādāt perché, come vedremo, la manomissione dello schiavo può essere un’oc-

casione per il credente di espiare i propri peccati, e in quanto atto personale esso rivela il carattere diretto del rapporto tra il fedele e Dio.4

Dal momento che la schiavitù è considerata una delle conseguenze possibili della prigionia di guerra, le due figure dello schiavo e del prigioniero possono talvolta sovrap- porsi: ed è proprio nel quadro delle norme relative all’emancipazione che risulta poco agevole la distinzione tra lo schiavo inteso come colui che è nato in quella condizione – e vi sono, naturalmente, differenze tra lo schiavo musulmano e quello infedele – e lo schiavo che è divenuto tale a seguito della prigionia. Solo un’analisi della terminologia utilizzata può in qualche modo, ma pur sempre con approssimata certezza, aiutare a comprendere la differenza.

Se è vero che – grazie alla puntuale suddivisione delle fonti della legge in Libri, che di fatto rappresentano delle macro-tematiche – possiamo abbastanza facilmente indivi- duare le sezioni in cui si parla di schiavitù e prigionia di guerra, ci troviamo poi in una

impasse nel momento in cui cerchiamo notizie specifiche sulla cattività di musulmani.

A paragone delle numerose disposizioni circa la liberazione dello schiavo o del pri- gioniero infedele, infatti, lo spazio dedicato alla cattività e alla liberazione del musulma- no caduto in mano del nemico è del tutto assente nel testo coranico, e decisamente mo- desto nelle altre fonti della legge. Il motivo sarebbe da rintracciare proprio nella dipen- denza diretta del diritto musulmano dal testo sacro, che prende in considerazione esclu- sivamente la possibilità della vittoria dell’islam e appare dunque come «un primordiale richiamo più alla cattività da infliggere che da subire».5 I Kitāb al-jihād si sviluppano

4 Cfr. R. Guemara, La libération et le rachat des captifs, cit., p. 342. 5 G. Cipollone, Cristianità-islam, cit., pp. 254-255.

tutti allo stesso modo, elencando le caratteristiche di colui che combatte «sulla via di Dio», i suoi doveri sul campo di battaglia, la ricompensa che spetta al martire; seguono i capitoli sul trattamento dei prigionieri e sulla divisione del bottino, mentre nessuna di- sposizione è formulata sull’ipotesi di una possibile sconfitta.6

Pur ammettendo – come sostenuto da alcuni – che tutte le disposizioni già illustrate nel Corano mirassero al buon trattamento e alla liberazione sia dello schiavo per nascita che del prigioniero,7 dobbiamo innanzitutto notare che la redenzione è sempre valutata come un atto misericordioso (come un gesto di libera solidarietà del fedele oppure nel contesto dell’elemosina obbligatoria), o come possibilità di espiazione dei peccati, men- tre compare solo una volta nell’accezione di riscatto inteso come pagamento da esigere dal nemico in cambio della liberazione dei prigionieri non musulmani, né, più in genera- le, come un reciproco atto di compensazione.8 In nessun caso, poi, si trova nel Corano un preciso e chiaro riferimento alla redenzione dei musulmani, anche se alcune letture tendono a includere il musulmano prigioniero dell’infedele nel novero dei riqāb (lette- ralmente, “collo, nuca” e per estensione “schiavo”) e a considerarlo quindi beneficiario delle stesse opere caritatevoli di cui erano destinatari gli schiavi e i captivi infedeli.9

Alcune indicazioni circa il comportamento che il musulmano deve tenere quando si trova in un territorio non sottoposto all’autorità islamica furono elaborate nella seconda metà dell’VIII secolo dai giuristi di scuola ḥanafita, all’interno di quell’insieme di nor- me che porta il nome di siyar e che regolano i rapporti tra musulmani e non musulmani anche in tempo di pace o tregua delle ostilità. Uno dei più noti discepoli di Abū Ḥanīfa, 6 È curioso notare che nessun testo classico di giurisprudenza apre il capitolo dedicato al jihād con una definizione del termine, bensì, generalmente, con l’affermazione che esso è universalmente conside- rato da tutti i giuristi come un obbligo che ricade sulla comunità nel suo insieme (farḍ kifāya). W. B. Hallaq, Sharīca. Theory, Practice, Transformations, Cambridge University Press, New York 2009,

pp. 325, 334.

7 M. Hasnaoui, La schiavitù e lo stato socio-giuridico dello schiavo: una lettura musulmana, in S. Di Bella, D. Tomasello, L’Islam in Europa tra passato e futuro, numero monografico di «Incontri Mediterranei», VI, n. 2, 2002, pp. 53-67.

8 L’unica occorrenza in cui il testo coranico parla di riscatto (fidāʾ), nell’accezione da noi ricercata si trova nella Sura di Muḥammad (XLVII, 4): «E quando incontrate in battaglia quei che rifiutan la Fede, colpite le cervici, finché li avrete ridotti a vostra mercé, poi stringete bene i ceppi: dopo, o fate loro grazia oppure chiedete il prezzo del riscatto, finché la guerra non abbia deposto il suo carico d’armi». Per le citazioni del Corano abbiamo fatto riferimento alla traduzione italiana a cura di A. Bausani, Il Corano, 2 ed. BUR Pantheon, Milano 2001. Si veda anche C. Dufourcq, s. v. Fidāʾ, in

Encyclopædia of Islam, vol. XII (supplement), Brill, Leiden 2004, pp. 306-308.

9 E. Francesca, L’elemosina rituale secondo gli Ibaditi, in «Studi Maghrebini», n. 19, 1987. Vedremo più avanti nel dettaglio le occasioni in cui ricorre questo termine nel testo sacro e le sue possibili interpretazioni.

Muḥammad al- Šaybānī (m. 803 o 805) espone quattro regole volte ad assicurare la libe- razione del prigioniero credente che si trova in mano al nemico.10 Le vedremo più avanti in dettaglio.

Gli storici musulmani non mancano poi di informarci circa il coinvolgimento diretto dei califfi abbasidi e dei loro rappresentanti in una serie di riscatti e scambi di prigionie- ri avvenuti nel Vicino Oriente, tra l’805 e il 946, nel contesto delle guerre arabo-bizanti- ne.11 La redenzione dei prigionieri sembra tuttavia ancora essere concepita e praticata, in queste circostanze, come una questione morale più che come un obbligo giuridico, per la cui realizzazione il califfo attinge alle finanze dello Stato «per pietà verso i musulma- ni» e per «obbedire a Dio l’Altissimo».12

Simili episodi di scambio e riscatto si verificarono, nello stesso periodo, anche nella Spagna musulmana: ed è proprio ai giuristi malikiti – influenzati dalla convivenza arma- ta con i cristiani in al-Andalus – che dobbiamo attribuire il merito di una sistemazione normativa più puntuale circa l’impegno dello Stato, e poi della comunità nel suo insie- me, nella liberazione dei musulmani. Tutti i passaggi della procedura sono chiaramente esposti, come vedremo, nel Muḫtaṣar del giurisperito egiziano Ḫalīl Ibn Isḥāq (m. 1365).13

Un ulteriore ed evidente problema metodologico è dato dalla natura stessa delle no- stre fonti e dall’esigenza di contestualizzare questa documentazione normativa – la cui applicazione, di per sé, non può essere certa – nel periodo di nostro interesse: dovremo tentare di capire se, e quando, le antiche disposizioni siano state adattate al nuovo conte- sto della schiavitù mediterranea, coscienti del fatto che un simile approccio potrebbe an- che essere falsato dalla costante e importante presenza di regole non scritte.

10 Come già anticipato, anche alcune raccolte di tradizioni contengono un Kitāb as-siyar, ma queste quattro regole sono trattate in modo puntuale da Šaybānī (749-803).

11 Mi riferisco alla serie di scambi avvenuta sulle rive del Lamas-ṣū, di cui si parlerà nelle prossime pagine. The History of al-Ṭabarī, (trad. F. Rosenthal, J. L. Kraemer, C. E. Bosworth), State Universi- ty of New York Press, Albany 1985-1989; al-Mascūdī, Le livre de l’avertissement et de la revision,

(trad. B. Carra de Vaux), Paris 1896.

12 Cfr. M. G. Stasolla, Gli episodi di riscatto dei prigionieri sul Lamas-ṣū, cit. p. 720. Si veda anche, per una lista sintetica di questi dodici scambi, C. Huart, s. v. Lamas-ṣū, in Encyclopædia of Islam, vol. V, Brill, Leiden 1986, p. 647.

13 Ibn Isḥāq, I l Muḫtaṣar o Sommario del diritto malechita, (trad. I. Guidi, D. Santillana), Hoepli, Milano 1919.

A questo proposito, però, bisogna dire che la tradizione giuridica islamica ha in par- te risposto ai nuovi problemi e alle nuove circostanze mettendo nero su bianco anche gli eventuali mutamenti delle consuetudini locali: le opere dettecamaliyyāt (che possiamo

tradurre come “prassi legale”), affermatesi soprattutto nei paesi di scuola malikita e ge- neralmente note sotto la definizione di “raccolte di fatāwā” (sing. fatwā, parere legale), possono considerarsi come il riassunto della pratica prevalente in un determinato conte- sto e periodo. Purtroppo, anche nel caso dellecamaliyyāt, la maggior parte dei quesiti a

cui rispondono le fatāwā che abbiamo consultato riguarda casi di prigionieri cristiani in territorio musulmano, mentre il tema della cattività musulmana non sembra aver solle- vato particolari controversie tra i dotti della legge.14

2. Il captivo nell’islam. La schiavitù come conseguenza della guerra e la