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Capitolo 3. La schiavitù a Malta

5. La regolamentazione della schiavitù

Gli Archivi dei Cavalieri sono ricchissimi di informazioni circa la custodia e il buon

governo delli schiavi. Attraverso due relazioni, una redatta da una speciale commissione

incaricata di rivedere «le ordinazioni savissime fatte nei tempi passati, per impedire la fuga de' schiavi» nel 1749, e l’altra a firma dei commissari del Tesoro nel 1779, sono man mano risalita alle ordinanze originali e ho potuto ricostruire un quadro generale delle misure di sicurezza prese nel corso dei secoli.181

178 Cfr. A. Brogini, L’esclavage au quotidien, cit., p. 138; Id., Une activité sous contrôle, cit., p. 50. Al pari degli altri prigionieri subito identificati come «di buon riscatto», alcuni ebrei non giunsero mai a Malta, come i 14 presi nel 1557 su una nave moresca nei pressi di Rodi che, «con parecchie migliaia di scudi», subito si riscattarono; o come altri cinque, nel 1620, «quasi tutti mercanti ricchi, riuscirono non solo di buon riscatto, ma vi trovarono le nostre genti addosso, e nel Vascello quantità di danari, bottinando senza misura sopra coperta, e dentro la stiva». Cfr. G. Bosio, Istoria, cit., vol. III, p. 384; B. Dal Pozzo, Historia, cit., vol. I, p. 654.

179 Si veda ancora M. Fontenay, Il mercato maltese, cit., p. 398. 180 A. Brogini, L’esclavage au quotidien, cit., p. 139.

181 AOM 6571, ff. 74r-77r, 23 giugno 1749 e AOM 6571, ff. 88r- 106r, De’ Schiavi. Ordinazione del

L’attività corsara dell’Ordine, insieme allo sviluppo della corsa privata con base a Malta, portò naturalmente a un aumento spettacolare del numero di captivi e schiavi sul- l’isola – pure con gli aggiustamenti che abbiamo visto rispetto ad alcune cifre esagerate del passato – con buona prevalenza di quelli di origine musulmana. Il costante timore che questi schiavi riuscissero, presto o tardi, ad entrare in contatto con i barbareschi e a rovesciare il governo di Malta portò alla progressiva definizione di una precisa politica di gestione della schiavitù. Molte norme furono dettate appena dopo le tre rivolte servili (1531, 1596 e 1749) o in occasione di altri episodi di violenza o fughe.182

Il primo incidente di rilievo, che indusse l’Ordine a costruire la prima delle tre Pri-

gioni de’ Schiavi, si verificò nel 1531, appena pochi mesi dopo l’installazione dei Cava-

lieri a Malta. Gli schiavi dimoravano allora nel forte Sant’Angelo sulla penisola di Bir- gu, che era l’unica area costruita nel raggio di molte miglia. Secondo Bosio, il piano di fuga doveva svolgersi in due fasi: gli schiavi addetti al trasporto dell’acqua avrebbero dovuto rubare una barca al Gran Porto, approfittando del fatto che nessun vascello ar- mato vi si trovava in quel periodo e che, nel giorno prescelto per attuare il piano – il 26 luglio – gran parte dei cavalieri che normalmente risiedevano a Sant’Angelo si trovava nella Città Vecchia per celebrare la festività di Sant’Anna. Nel trambusto che sarebbe seguito alla scoperta della fuga, sedici tra gli schiavi «più robusti, e gagliardi», che tra- sportavano materiali pesanti dal borgo al castello, insieme a quelli che lavoravano nelle cucine avrebbero ucciso i pochi guardiani e aguzzini in servizio, liberato gli altri schiavi e scaricato l’artiglieria del forte sulle navi che nel frattempo dovevano essersi gettate al- l’inseguimento dei fuggitivi. Questi, sicuri del vantaggio acquisito, sarebbero presto giunti in Barberia e sarebbero tornati col rinforzo dei corsari di Gerba. Il piano fu però scoperto poco dopo l’attuazione della prima fase: la barca fu subito catturata alla bocca del porto; i due rais giudicati i responsabili del piano furono impiccati e i loro corpi esposti su una lingua di terra che da allora prese il nome di “Punta delle Forche”.183

182 Ciò non significa, comunque,che i Cavalieri fossero arrivati a Malta completamente impreparati. Secondo Wettinger, l’Ordine portò con sé tutta una serie di regole relative alla vita degli schiavi, che costituiva un capitolo a parte della legislazione vigente già a Rodi: gli schiavi erano confinati all’in - terno dell’area cittadina, dovevano pernottare nelle case dei padroni e portare l’anello alla caviglia, e non potevano affittare negozi o stanze per dormire né per svolgere attività proprie. G. Wettinger,

Slavery, cit. p. 63.

Dopo questo episodio, la più ovvia delle precauzioni fu quella di vietare agli schiavi il trasporto di acqua e qualsiasi altro materiale a meno che non fossero accompagnati da un guardiano; questi avrebbe dovuto pagare una multa per ogni schiavo che fosse even- tualmente riuscito a fuggire. Dal forte Sant’Angelo gli schiavi furono dapprima trasferiti nelle “fosse” di Birgu, sulle quali venne poi costruita la prigione.184 Appena questa fu ultimata, nel 1539, il Capitolo Generale decretò che tutti gli schiavi del porto, sia pub- blici che privati, dovevano ritirarsi a dormire al suo interno. L’obbligo venne esteso qualche anno dopo agli schiavi di terra dell’Ordine e poi agli schiavi privati dei religiosi nel 1577.185 La Gran Prigione delli Schiavi di Valletta fu costruita tra il 1568 e il 1571 (cioè tra la data del trasferimento della Religione nella nuova città e la data del comple- tamento della sua costruzione). Le due prigioni acquistarono ben presto la propria speci- ficità: quella di Valletta, più grande e meglio sorvegliata, fu destinata agli schiavi delle galere, ai forzati e ai musulmani in generale, mentre sembra che a Birgu rimasero quasi solo schiavi ebrei.186

L’avvenimento che possiamo definire come la seconda rivolta degli schiavi era sco- nosciuto fino a pochi anni fa. L’unica traccia che ne rimane negli Archivi dell’Ordine ri- guarda la commissione istituita per prendere provvedimenti contro i colpevoli, ma la ri- costruzione della vicenda è merito della ricerca condotta da Anne Brogini presso gli Ar- chivi del Tribunale dell’Inquisizione di Mdina. Nel 1596, alcuni schiavi di Valletta e di Birgu, rifiutandosi di dormire nella prigione, erano evasi e avevano vagabondato per di- versi giorni nelle campagne riuscendo a coinvolgere alcuni schiavi privati – ma anche, sembra, alcuni manomessi – incontrati sul loro cammino; la cosa più grave fu che riu- scirono a rubare le chiavi e ad aprire le porte della città di Valletta.187

184 G. Wettinger, Slavery, cit. p. 101 e p. 130.

185 AOM 287, f. 43v, Capitolo Generale del 1539. Per quanto riguarda l’estensione dell’obbligo agli schiavi di terra, le date non sono molto chiare. Io ne ho trovato traccia in AOM 290, ff. 38r-40v, Capitolo Generale del 1574. Wettinger sostiene invece che il decreto risalga al 1568. La disposizione relativa agli schiavi degli ecclesiastici fu caldeggiata anche dalla Santa Sede, che supportava gli sforzi del gran maestro di mantenere la sicurezza nell’isola anche se questo significava infrangere i consueti privilegi del clero. Cfr. G. Wettinger, Slavery, cit., p. 64.

186 Queste informazioni sono riferite da Anne Brogini e risultano dallo spoglio di alcuni documenti del tribunale dell’Inquisizione, nei quali la prigione di Birgu è chiamata «Prigione delli Ebrei». Cfr. A. Brogini, L’esclavage au quotidien, cit., p. 141. Nel documento che, diversi anni dopo, decreta la costruzione della terza prigione di Senglea, è scritto che la prigione di Valletta fu edificata nel 1571. La data probabilmente corrisponde alla fine dei lavori. AOM 109, f. 214r, 3 luglio 1629.

187 L a Commissione contro schiavi scandalosi fu istituita il 13 giugno 1597: AOM 100, f. 7r. La ricostruzione dell’episodio è stata possibile grazie alla dettagliata testimonianza lasciata dall’aguzzi- no Joanne Caroliti. Cfr, A. Brogini, Malte, cit., Cap. XII, § 85.

Dopo questo episodio, un buon numero di precauzioni fu preso nel corso della sedu- ta del Consiglio del 9 agosto 1602: visto «quanti inconvenienti mali e pericoli sono suc- cessi e giornalmente succedono dalla libertà che hanno li schiavi infedeli per non osser- vare li bandi, e buoni ordini insin oggi fatti sopra li pericoli della loro fuga», si ordinava che nessuno schiavo musulmano o ebreo, pubblico o privato, e nemmeno quello «ta-

gliato», potesse uscire dalle porte di Valletta, Birgu e Senglea senza che fosse accompa-

gnato da un guardiano. Tutti gli infedeli dovevano portare un ferro alla caviglia che pe- sasse non meno di mezza libbra. Per permettere agli schiavi di guadagnare qualcosa, era loro concesso di vendere alcune merci, ma solo in determinati luoghi delle città e purché non fossero di gran valore, né generi alimentari o bevande. Sulle barche in tragitto da Valletta alle altre città non poteva imbarcarsi più di un infedele, o al massimo due se si trattava di lavoratori.188 Si ricordava anche un’Ordinanza emessa dal gran maestro Ver- dalle nel 1593: dopo aver constatato che ancora molti schiavi dormivano fuori, il pernot- tamento nella prigione era stato reso obbligatorio per tutti gli schiavi sopra i 14 anni, compresi quelli «tagliati», e per tutti i non cristiani anche liberi.189

Quanto agli schiavi delle galere, era generalmente previsto che dormissero a bordo; ma nel Capitolo Generale del 1631 si stabilì che dovevano anch’essi ritirarsi in prigione, sotto responsabilità degli aguzzini che dovevano provvedere a mandarceli entro 24 ore dall’arrivo della squadra in porto; solo trenta schiavi potevano rimanere a bordo.190 Quando la squadra si trovava in porto, una galera doveva essere sempre tenuta armata e pronta a inseguire eventuali fuggitivi; con lo stesso scopo, nel 1653 – mentre nella pri-

188 AOM 100, f. 241r-v. Si vietava inoltre a chiunque di affittare case, botteghe o magazzini agli schiavi, maschi o femmine. Tuttavia, affinché le schiave femmine che non abitavano nelle case dei loro padroni avessero di che sostentarsi, furono messi a loro disposizione due magazzini pubblici, uno a Valletta e uno a Birgu, «purché non si trovino in detti magazzini più di due o tre infedeli insieme». AOM, 6571, ff. 90v-91v. I «tagliati» vivevano in una sorta di limbo tra la schiavitù e la libertà: con questo termine si designavano infatti quegli schiavi per i quali, tramite un atto notarile, si erano definite le precise modalità di riscatto (prezzo, individuazione dell’intermediario e sua commissione, luogo e modalità di raccolta del denaro e data finale del versamento da corrispondere al proprietario). Il «taglio» poteva durare da qualche mese a diversi anni. Cfr. A. Brogini, Une

activité sous contrôle, cit., nota 40. La questione del taglio sarà ripresa più avanti.

189 L’Ordinanza di Verdalle fu di nuovo ricordata nel 1604, poi ancora nel 1640, 1643, 1645. L’insisten- za sulla necessità di eseguire le ordinanze già emanate nasceva soprattutto dal forte aumento del numero degli schiavi a servizio di privati, sia religiosi – compreso il gran maestro – che secolari: nel 1603 si constatava però che «tutti li maggiori disordini e pericoli nascono e possono derivare dalli schiavi che sono delli particolari religiosi di nostro abito». L’Ordinanza risale al 12 luglio del 1603 ed è ancora ricordata nel 1779 nella relazione De’ Schiavi. Ordinazione del Comun Tesoro sulla

vigilanza e il governo delle Prigioni degli Schiavi, AOM 6571, f. 94r.

gione si riduceva il numero di guardiani da 17 a 5 visto che la maggior parte degli schia- vi era fuori sulle galere per la guerra di Candia – si ordinava di lasciare in porto, giorno e notte e anche in inverno, un caicco, che fu poi sostituito da un brigantino con decreto del 1664.191

Negli anni successivi si verificarono diversi tentativi di fuga. Alcuni fallirono, ma quelli riusciti mostrano chiaramente la facilità con cui gli schiavi riuscivano a eludere la sorveglianza, tanto nel porto quanto nelle prigioni.192 A dispetto delle ordinanze, gli schiavi potevano abitualmente dormire fuori dalle prigioni corrompendo gli aguzzini. La compresenza di varie figure addette alla vigilanza generava confusione anziché im- plementare la sicurezza. Gli aguzzini delle galere si limitavano a condurre gli schiavi in prigione e a fare l’appello, dopodiché si concedevano volentieri una bevuta e qualche chiacchiera, rassicurando il guardiano della porta che il conteggio era stato fatto e che tutti erano dentro. Le porte della prigione, però, rimanevano ancora aperte per qualche ora, per permettere l’uscita degli schiavi privati dei laici ai quali era ancora permesso di dormire fuori: non doveva essere difficile, per qualche schiavo delle galere, riuscire a mescolarsi a quelli che si affrettavano verso le porte prima della chiusura notturna; ma molti altri riuscivano a uscire semplicemente adducendo la scusa di dover comprare del pane o dell’olio in più per il pasto serale.193

Gli schiavi che lavoravano nei cantieri del porto avevano ancora maggiori possibili- tà di trovare l’occasione giusta per la fuga: alcuni di essi dormivano nella casa del co- 191 «Si tenghi un caicco armato per evitare la fuga de’ schiavi», decreto del Consiglio di Stato, 10 ottobre 1653, AOM 259, f. 82r. Ulteriori dettagli per il mantenimento del caicco «e provisioni che deve tener sempre pronte» furono date l’anno dopo, AOM 259, f. 103r, decreto del Consiglio di Stato, 20 novembre 1564. Sulla sostituzione con il brigantino AOM 260, f. 188v, decreto del Consiglio di Stato, 10 maggio 1664.

192 Definiamo “tentativi falliti” quelli in cui gli schiavi furono inseguiti e ricatturati, ma in effetti anche in questi casi erano comunque riusciti ad aggirare le misure di sicurezza e a impadronirsi di una barca. Tale è il caso degli otto schiavi della Santa Maria nel 1630, di altri sette nello stesso anno, degli schiavi delle galere San Antonio e San Paolo nel 1634. Una fuga riuscì nel 1663, altre due fallirono nel 1673 (in questa erano coinvolti circa 100 schiavi) e nel 1684. Cfr. G. Wettinger, Slavery, cit., pp. 136-139.

193 Il 30 marzo del 1656, quattro schiavi delle galere riuscirono così a uscire dalla porta principale, sotto gli occhi del guardiano, senza destare alcun sospetto. Si unirono ad altri tre appartenenti a privati e si nascosero per qualche ora nei cantieri delle fortificazioni di Floriana. Nella notte, raggiunsero e sorpresero nel sonno l’equipaggio di una piccola imbarcazione napoletana ormeggiata nel porto da qualche giorno; misero i napoletani al remo e si diressero verso il porto di Susa. Ivi, pp. 141-142. Fu immediatamente dopo questo episodio che si ordinò agli aguzzini delle galere di verificare, anche dopo l’appello, che ogni schiavo dormisse nella rispettiva prigione. Trovandosi lo schiavo fuori, l'aguzzino doveva pagare venti scudi di multa. Decreto del Consiglio di Stato, 11 aprile 1656, rinnovato nel 1779, AOM 6571, f. 92r.

mandante dell’arsenale, ed era sufficiente che attendessero che il padrone si fosse ad- dormentato per uscire liberamente. Nel 1713, quattro schiavi del porto, insieme a un al- tro che aveva ottenuto il permesso di dormire nella prigione di Birgu anziché in quella di Senglea ed era riuscito ad assentarsi da entrambe, rubarono i remi dalla stessa casa del comandante e fuggirono a bordo di una speronara. Sembra che fosse pratica piutto- sto frequente quella di autorizzare il pernottamento in una prigione diversa da quella normalmente assegnata: due dei quattro schiavi che riuscirono a scappare nel 1653, per esempio, avevano chiesto dormire nella Gran Prigione anziché in quella di Birgu perché lì potevano farsi scrivere delle lettere in tempo per mandarle ai propri cari con il vascel- lo di dispaccio che sarebbe partito il giorno dopo. Un altro aveva ottenuto l’autorizza- zione semplicemente chiedendo di partecipare a un banchetto organizzato dagli schiavi del forno di Valletta.194

Varie altre misure di sicurezza furono prese tra il XVII e il XVIII secolo. Esse furo- no tutte ricordate – e integrate con nuovi articoli e, soprattutto, con nuove sanzioni – nel 1749, dopo la terza rivolta degli schiavi. Ricordata dalla storiografia come «la Grande Cospirazione», essa non andò oltre la fase della pianificazione perché alcuni congiurati, sotto tortura, rivelarono il piano prima che potesse essere portato a compimento.

Istigatore della ribellione era «Mustafà Bassà», ex-governatore di Rodi, giunto a Malta circa un anno prima grazie all’ammutinamento dei 51 schiavi cristiani della sua galera, che erano per la maggior parte maltesi.195 In virtù della sua posizione – che, se- condo Michele Acciard, era esclusivo merito dei servigi resi alla Porta dai suoi antenati – a Malta fu molto ben trattato, sia durante la quarantena che dopo, quando fu accompa- gnato «in Calesse nella Fortezza di S. Elmo, e lasciato nel Palazzo Governatoriale, ma- gnificamente guarnito, con quella gente, che scelta avea egli medesimo al Lazzaretto per suo servizio». Tra i vari altri privilegi, fu concesso a un suo collaboratore un salvacon- dotto di lunga durata per recarsi a Istanbul a perorare la causa di liberazione del başa; ma il riscatto fu in effetti pagato, il 5 maggio 1749, dal Regio Erario francese dopo per- sonale intercessione del re. Muṣṭafā, però, «abusando dell’Ospitalità, e privo di senno, e 194 G. Wettinger, Slavery, cit., pp. 142-143.

195 Tra gli schiavi cristiani autori dell’ammutinamento si distinse un certo Antonio Montalto, maltese, che già nel 1747 aveva tentato di prendere possesso della galera, ma era stato scoperto: «dovea il Bassà da questo fatto documentarsi alla miglior custodia del proprio legno, e più di tutto, […] doveva mutare stile nel trattargli [gli schiavi] per non ridurli a nuove risoluzioni, ma la barbarie non gli ha mai data Idea d’alcuna riforma». M. Acciard, Mustafà Bassà, cit., pp. 54-55.

di gratitudine», era ormai determinato ad attuare il piano che stava architettando da lun- go tempo. Rimandò più volte la partenza in attesa del 29 giugno, data prescelta per la sollevazione.196

Come per la rivolta del 1531, si scelse un giorno festivo nella speranza che la guar- dia degli schiavi delle tre città fosse un po’ allentata: per la celebrazione dei santi Pietro e Paolo, infatti, un fiume di gente da tutti i villaggi dell’isola si riversava nell’antica ca- pitale Mdina, distante 12 chilometri dal Gran Porto.197 Praticamente tutti gli schiavi del- l’isola erano venuti a conoscenza del piano grazie al passaparola avviato dai cinque pa- passi delle prigioni e da Imselleti, valletto personale del gran maestro, che a loro volta lo avevano saputo dal qāḍī degli schiavi, dal segretario e dal papasso personali di Muṣṭafā. E tutti avevano un ruolo specifico nell’attuazione della congiura. La prima fase doveva svolgersi nel palazzo magistrale: alle due in punto, mentre il gran maestro de Fonseca riposava dopo pranzo, Imselleti lo avrebbe ucciso decapitandolo con un coltello avvelenato, aiutato dal moro convertito Giovanni Battista. Gettando poi un vaso nel cor- tile ed esponendo la testa del gran maestro sul balcone, i due avrebbero dato il segnale agli schiavi della cucina e agli stallieri – circa un centinaio in tutto – di massacrare tutti i cristiani del palazzo. Nel frattempo, gli schiavi privati dei cavalieri avrebbero dovuto uccidere i propri padroni e raggiungere gli altri presso l’armeria.198 Ne avrebbero forzato le porte, con l’aiuto del fabbro del palazzo anch’egli schiavo, e allora si sarebbero divisi in tre squadre armate: due dovevano andare all’assalto della Gran Prigione, liberando prima gli schiavi del forno; da lì avrebbero poi dato il segnale agli schiavi delle prigioni di Birgu e Senglea di insorgere contro i guardiani per poi passare all’occupazione del forte Sant’Angelo, che era poco sorvegliato ma aveva le più grandi scorte di artiglieria pesante. Il terzo gruppo doveva occuparsi di uccidere, senza fare distinzione di età e ses- so, tutti i maltesi residenti a Valletta. L’obiettivo finale era quello di assaltare il forte 196 Ivi, pp. 59-67.

197 G. Wettinger, Slavery, cit., pp. 146-147.

198 Dalle confessioni ottenute dopo la scoperta della cospirazione si seppe che l’arsenico, che Muṣṭafā si era fatto mandare in quantità dal Levante, doveva avere un ruolo fondamentale nel progetto: oltre ad essere utilizzato sul coltello di Imselleti e dagli schiavi privati per uccidere i loro padroni, doveva essere distribuito agli schiavi delle galere prima della partenza della squadra. Una volta in navigazio- ne, questi avrebbero mischiato il veleno al vino che normalmente era distribuito ogni mattina alla ciurma, avrebbero preso il sopravvento sui cristiani e fatto rotta verso Malta. Lì, sarebbero intervenu- ti in soccorso dei compagni se avessero ricevuto un segnale, altrimenti avrebbero potuto tranquilla- mente proseguire verso la Barberia. Quando il piano fu scoperto e i capitani di galera immediata- mente avvisati, il veleno fu probabilmente gettato in mare perché non se ne trovò traccia. Ivi, pp. 148-149.

Sant’Elmo e trasferire il başa nel palazzo magistrale. L’occupazione dell’isola doveva concludersi con l’arrivo di un contingente di navi musulmane che, navigando al largo di Malta, avrebbero ricevuto il segnale della presa di Sant’Elmo.199