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La Corte Europea dei diritti dell’uomo

7. La violenza: definizioni sul tema

8.2 La Corte Europea dei diritti dell’uomo

La Corte EDU si esprime sul tema della violenza domestica, attraverso delle note sentenze, tra le quali spiccano sul tema che a noi interessa i casi Talpis e Opuz.

Il caso emblematico che rappresenta un precedente in ordine alla condanna di uno Stato sul tema della violenza domestica lo ritroviamo nella vicenda Opuz contro Turchia del 2007.149

La sig.ra Nahide Opuz, cittadina turca, si rivolge alla Corte EDU, lamentando una negligenza delle autorità statali per non averle accordato un’adeguata protezione, in seguito alla

denuncia di reiterati episodi di violenza perpetrati da parte del marito a danno di lei e della madre, provocando la morte di quest’ultima150, invocando la violazione degli articoli 2, 3 e 14,

148La CEDU accorda alle persone giuridiche forme di risarcimento

per danni non patrimoniali (derivanti da eccessiva durata del

processo) conseguenti a turbamenti di carattere psicologico subiti dai loro rappresentanti o appartenenti. Così VENTUROLI M.,La tutela della vittima nelle fonti Europee, op.cit. p. 86 ss.

149 Corte EDU, sez. III, sent. 9 giugno 2009, Opuz c. Turchia. 150 Le violenze che la ricorrente è costretta a subire dal marito, si registrano fin dai primi anni di matrimonio, dal quale sono stati concepiti tre figli. A partire dal 1995, in seguito alle innumerevoli minacce di morte, maltrattamenti e lesioni perpetrate a danno della ricorrente e di sua madre, vengono sporte le prime denunce. Le violenze commesse provocano lesioni sufficienti a rendere

disoccupata la lavoratrice e la madre per diversi giorni oltreché a mettere in pericolo le vite delle vittime, tanto che il pubblico ministero presenta denunce contro il marito e suo padre per minacce di morte e danni fisici reali. Simili episodi si susseguono per innumerevoli anni, caratterizzati da una continua altalenanza tra denunce, che portano anche all’applicazione della custodia cautelare, e ritiro delle stesse, ad

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opera delle vittime. L’autore delle violenze, in seguito al pentimento, chiede di essere rimesso in libertà in attesa del processo, facoltà accordata anche in considerazione del fatto che la vittima riacquista completa salute e al successivo ritiro delle denunce. I fatti

maggiormente significativi si presentano nel febbraio del 1998, quando il marito si scaglia con un coltello sulla moglie, la sorella e la madre della stessa rendendole inadatte al lavoro rispettivamente per sette, tre e cinque giorni. La moglie decide così di interrompere la vita coniugale, andando ad abitare con la madre. A distanza di poco tempo si verifica un nuovo episodio che fa temere per la vita delle vittime: l’autore infatti tenta di investire con l’auto le due donne, la madre riprende conoscenza in ospedale e pur dichiarando che l’episodio è stato accidentale e non volontario, il marito viene rimandato in custodia cautelare, avviando un procedimento penale nei suoi confronti, per averle minacciate di morte e inflitto gravi lesioni personali, con la conseguente formulazione di un tentato omicidio ad opera della corte d’assise, la quale, nonostante la gravità delle lesioni, condanna l’imputato a tre mesi di reclusione, convertita in una multa, poiché le lesioni della donna non vengono ritenute tali da temere per la vita.

La ricorrente intentò inoltre un procedimento di divorzio e nell’aprile del 1998 la stessa e sua madre chiedono misure protettive in seguito alle minacce di morte subite. L’imputato dichiara che la sua unica intenzione è quella di riunire la famiglia e vuole che la moglie torni da lui, desiderio che a detta dello stesso, non viene soddisfatto per le continue intromissioni della suocera. Si assiste così all’ennesimo ritiro delle denunce e alla ripresa della convivenza tra i coniugi. È il 2001, quando la ricorrente confida alla madre i timori in merito alla violenza subita dal marito, temendo di essere uccisa. La madre la rassicura dicendole di tornare nella casa coniugale con i bambini, ed è proprio in quello stesso giorno che in seguito ad un litigio, viene colpita dal marito con sette coltellate in diverse parti del corpo e lasciata giacere a terra sanguinante. Il marito confessa pentendosi e adducendo le sue ragioni in merito al fatto, ragioni volte a scaricare la colpa verso la moglie e la madre di lei che voleva allontanarli.

La madre, attraverso il suo legale, chiede che vengano disposte delle misure di protezione e che le denunce fin qui rilasciate erano state ritirate a causa delle continue pressioni e minacce del marito, adducendo inoltre che le intenzioni del marito erano volte ad uccidere sua figlia. Nel 2002 si verifica l’evento fatale, con l’uccisione della madre della ricorrente.

Il reo sostiene di aver ucciso la madre della ricorrente perché aveva indotto sua moglie a condurre una vita immorale, come la sua, e aveva incoraggiato sua moglie a lasciarlo, portando i loro figli con sè. Dichiara di aver perso la pazienza e di averle sparato per mantenere integro il suo onore e i suoi bambini.

In una sentenza definitiva datata 26 marzo 2008, la Corte di Assise di Diyarbakır condanna l’imputato all’ergastolo per omicidio e possesso illegale di un'arma da fuoco. Tuttavia, tenendo conto del fatto che l'imputato aveva commesso il reato a causa della provocazione da parte del defunto e della sua buona condotta durante il processo, il tribunale attenua la sentenza originale, cambiandola in quindici anni e dieci mesi di reclusione e una multa di 180 lire turche. La Corte ordina n

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quest’ultimo in combinato disposto con i primi due, della CEDU.

Per quanto riguarda la violenza all'interno della famiglia, il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa ha raccomandato agli Stati membri di classificare tali forme di violenza, come reato e prevedere misure di protezione tali da consentire al potere giudiziario di adottare precauzioni provvisorie, volte a tutelare le vittime, a vietare al perpetratore di contattare, comunicare o avvicinarsi alla vittima, di risiedere o entrare in aree definite, di sanzionare tutte le violazioni delle misure imposte all'autore e di stabilire un protocollo obbligatorio per un coretto svolgimento delle funzioni degli organi di polizia e dei servizi medici e sociali. Alla Corte preme sottolineare che la questione della violenza domestica, la quale può assumere varie forme che vanno dalla violenza fisica a quella psicologica o dall'abuso verbale, è un problema generale che riguarda tutti gli Stati membri e che non sempre emerge poiché spesso si svolge all'interno di relazioni personali o circuiti chiusi, precisando che anche gli uomini e i bambini possono essere vittime di violenza domestica sia direttamente che indirettamente. La Corte, inoltre sottolinea come sembra esserci un consenso generale tra gli Stati sul mancato proseguimento del procedimento penale contro gli autori di violenze domestiche, quando la vittima ritira le sue denunce. Tuttavia, sembra essere presente un riconoscimento

seguito il suo rilascio per evitare di superare il limite consentito di detenzione preventiva

A maggio 2008 il rappresentante della richiedente informa la Corte che il marito della stessa è stato rilasciato dal carcere e che ha di nuovo iniziato a minacciarla, chiedendo pertanto alla Corte di chiedere al governo di fornire una protezione sufficiente, per proteggere la vita della ricorrente. Tali misure vengono prese dalle autorità e in particolare, la fotografia e le impronte digitali del marito del ricorrente vengono distribuite nelle stazioni di polizia della regione in modo che potessero arrestarlo se fosse apparso vicino al luogo di residenza della richiedente.

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del dovere da parte delle autorità di trovare un equilibrio sui diritti della vittima enunciati agli articoli 2, 3 e 8 della CEDU. Le autorità sono infatti chiamate a delineare una linea di condotta al fine di decidere se perseguire l’accusa, basandosi su fattori quali la gravità del reato, se le ferite della vittima sono fisiche o psicologiche, se l'imputato ha usato un'arma, se l'imputato abbia pianificato l'attacco, l'effetto (anche psicologico) su qualsiasi bambino che vive nel contesto domestico, le possibilità che il convenuto offenda di nuovo, la continua minaccia per la salute e la sicurezza della vittima o di chiunque altro sia o potrebbe essere coinvolto, lo stato attuale del rapporto vittima- aggressore, la storia della relazione, in particolare se nel passato vi fosse stata un'altra violenza e la storia criminale dell'imputato. Da questa pratica si può dedurre che più grave è il reato o maggiore è il rischio di ulteriori reati, più è probabile che l'azione penale continui nell'interesse pubblico, anche se le vittime ritirano le loro querele.

Nel caso di specie, la Corte EDU dimostra nel suo rapporto, come si registri una forte arretratezza nel modo di considerare la donna, nonostante vi sia stato un implemento degli ordini di protezione e delle ingiunzioni emesse dai tribunali di famiglia. Tali richieste vengono trattate dalle autorità locali come fossero azioni di divorzio, mentre il fine sarebbe quello di agire con urgenza a favore delle donne che cercano di proteggere la propria vita. Invero, oltre alla mancanza di tempestività nel garantire protezione, presso le stazioni di polizia, si respira una sorta di tolleranza verso la violenza domestica, tanto da incoraggiare le vittime a non sporgere denuncia, ritrattare o tornare presso l’abitazione coniugale. La Corte rileva come in Turchia si sia sviluppata una cultura della violenza, tollerata in molti settori della vita, che finisce per essere accettata, trasformandosi in una sorta di consuetudine nella società e avallata da una negligenza nell’intervenire ad opera delle forze dell’ordine poiché

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considerata una questione privata la cui risoluzione è di spettanza del nucleo familiare stesso, con la conseguenza che le autorità non rispondono prontamente o rigorosamente alle denunce di stupro, violenza sessuale o altra violenza all'interno della famiglia. La polizia è riluttante a prevenire e indagare sulla violenza familiare, compresa la morte violenta delle donne. I pubblici ministeri si rifiutano di aprire indagini su casi di violenza domestica o di ordinare misure di protezione per le donne a rischio nella propria famiglia o comunità. La polizia e le Corti non garantiscono che gli uomini, che ricevono ordini dal tribunale, inclusi gli ordini di protezione, li rispettino. Essi accordano loro indebita clemenza nella condanna, sulla base di provocazioni subite da parte della loro vittima e su un fragile substrato probatorio, corredate inoltre da sentenze emesse a discrezione dei giudici che si basano principalmente sul dato di una grave provocazione posta in essere dalla vittima nei confronti del proprio carnefice.

Nel caso di specie, nonostante gli eventi contestati si siano verificati in lassi temporali distanti tra di loro, le violenze commesse a danno della ricorrente e di sua madre, devono essere valutate nel loro complesso, considerando gli eventi non sporadici e individuali ma connessi e ravvicinati tra loro, facendovi rientrare anche l’intensa angoscia e sofferenza provocata alle vittime.

La Corte, nel caso in esame veniva chiamata ad accertare se le autorità nazionali avessero mostrato la diligenza richiesta per prevenire la violenza e se avessero adempiuto al loro obbligo positivo di adottare misure operative preventive per proteggere il diritto alla vita della richiedente e di sua madre, nonostante il ritiro delle denunce da parte delle stesse. In questo contesto, doveva stabilire se le autorità sapevano o avrebbero dovuto sapere, dell'esistenza di un rischio reale e immediato per la vita della madre della ricorrente, identificato dagli atti criminali di una terza parte, l’imputato, e se, laddove avessero preso idonei

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provvedimenti, fossero state in grado di evitare tale rischio; presupposto questo dal quale nasce il dovere delle autorità di agire.

In quanto alle violazioni degli articoli della Convenzione, prospettate dalla ricorrente, la Corte ritiene vi sia stata una violazione dell’art. 2 sul diritto alla vita151, poiché le autorità non

hanno adottato tutti gli strumenti necessari per proteggere le vittime e scongiurare l’aggressione al bene giudico in questione. Inoltre, tenuto conto della natura del diritto tutelato dall'art. 2, diritto fondamentale nel sistema della Convenzione, per aversi violazione è sufficiente che un richiedente dimostri che le autorità non hanno fatto tutto ciò che era in loro potere per evitare un rischio reale e immediato per la vita.

La motivazione alla base di tale asserzione deriva da un’evidente incapacità delle autorità turche di farsi carico del compito di protezione, che sarebbe loro spettato, verso i membri della società, a maggior ragione se trattasi di persone deboli, considerate vulnerabili per le loro caratteristiche intrinseche, rimanendo passive di fronte alle minacce di morte dell’autore delle violenze e cercando di convincere le vittime e riappacificarsi con l’aggressore. In un simile scenario appare evidente come non

151La Corte ribadisce che la prima frase dell'articolo 2 § 1 impone allo

Stato non solo di astenersi dall'assunzione volontaria e illegale della vita, ma anche di adottare le misure appropriate per salvaguardare la vita di coloro che rientrano nella sua giurisdizione (vedere LCB v. Regno Unito , 9 giugno 1998, § 36, Rapporti1998-III). Ciò implica un dovere primario dello Stato di garantire il diritto alla vita mediante l'istituzione di disposizioni penali efficaci per scoraggiare la commissione dei reati contro la persona sostenuta da un meccanismo di applicazione della legge per la prevenzione, la repressione e la punizione delle violazioni di tali disposizioni. Si estende anche in circostanze appropriate a un obbligo positivo per le autorità di adottare misure operative preventive per proteggere una persona la cui vita è a rischio da atti criminali di un altro individuo (vedi Osman c. Regno Unito , 28 ottobre 1998, § 115, Rapporti 1998-VIII, citati in Kontrová c. Slovacchia , n. 7510/04 , § 49, 31 maggio 2007).

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vi fosse il rispetto della parità dei sessi, ma di come l’ago della bilancia pendesse a favore dell’imputato, a dimostrazione del fatto che sebbene egli fosse stato condannato per omicidio, la punizione che gli veniva inflitta era considerevolmente inferiore alla pena normalmente prevista, risultato del fatto che, nelle sue difese presentate davanti alla Corte d'assise, l'imputato aveva affermato di aver ucciso sua madre per proteggere il suo onore. Si riscontra una prassi generale dei tribunali penali in Turchia di attenuare le sentenze in caso di "delitti d'onore", accordando un’indulgente punizione agli autori dei fatti incriminati.

Dall’analisi della Corte emerge che oltre all’ escalation di violenze subite dalle vittime, i crimini commessi dall’autore erano sufficientemente gravi da giustificare l’adozione di misure preventive. Da tali episodi di violenza poteva ben delinearsi una continua minaccia per la salute e per la sicurezza delle vittime, corredata da un concreto pericolo di reiterazione del reato. Circostanza, questa, che sarebbe bastata per prevedere l’uccisione della madre della ricorrente e che avrebbe potuto mitigare il danno, grazie a un tempestivo intervento delle forze dell’ordine, scongiurando probabilmente l’evento fatale.

La Corte constata come nonostante le innumerevoli denunce presentate nel corso degli anni dalla ricorrente e da sua madre, e la conseguente apertura dei procedimenti penali, essi venivano successivamente chiusi, in seguito al ritiro delle denunce. Le vittime avevano fatto tutto ciò che era in loro potere per mettere al corrente le autorità del grave pericolo in cui si trovavano le loro vite e spettava a quest’ultime portare avanti il procedimento benché fosse venuta meno la volontà delle vittime di proseguire, anche in conseguenza del loro stato di vulnerabilità. Infatti, l'argomentazione del governo turco secondo cui qualsiasi tentativo delle autorità di separare la ricorrente e suo marito avrebbe comportato una violazione del loro diritto alla vita familiare, e tenendo presente che secondo la legge turca non vi

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è alcun obbligo di perseguire l'accusa laddove la vittima ritiri la sua denuncia e non abbia subito lesioni che la rendano inadatta al lavoro per dieci o più giorni, non può essere accolta. Tuttavia, la Corte si rammarica di notare che le indagini penali nel presente caso erano strettamente dipendenti dall'esecuzione di denunce da parte della ricorrente e di sua madre, a causa delle disposizioni di diritto interno in vigore, che impedivano la prosecuzione delle indagini penali. Sostanzialmente il quadro legislativo allora in vigore, in particolare il requisito minimo di inabilità di dieci giorni per malattia, non aveva soddisfatto i requisiti inerenti agli obblighi positivi dello Stato di punire tutte le forme di violenza domestica e fornire sufficienti garanzie per le vittime.

Le autorità locali non avrebbero poi preso in considerazione il comportamento reiteratamente violento e la fedina penale dell’imputato, oltre al fatto che una simile condotta avrebbe avuto delle ricadute sulla salute psico-fisica dei figli della coppia, ma sembrano, piuttosto, aver dato un peso esclusivo alla necessità di astenersi dall'interferire in una questione privata di famiglia, che risultava incompatibile con i loro obblighi positivi di garantire il godimento dei diritti del nucleo familiare. La Corte ribadisce che, in alcuni casi, l'interferenza delle autorità nazionali con la vita privata o familiare degli individui potrebbe essere necessaria per proteggere la salute e i diritti dei componenti o per impedire la commissione di atti criminali. La Corte ritiene quindi che, tenendo presente la gravità dei crimini commessi dall’imputato in passato, le autorità inquirenti avrebbero dovuto essere in grado di portare avanti il procedimento come una questione di interesse pubblico, indipendentemente dal ritiro delle denunce delle vittime. La Corte sottolinea che nei casi di violenza domestica i diritti dei perpetratori non possono sostituire i diritti umani delle vittime alla vita e all'integrità fisica e mentale. Per di più, gli organi giurisdizionali locali, avrebbero potuto ordinare l’emissione di

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una o più misure protettive, tra le quali figurano un'ingiunzione volta a vietare all’autore del reato di contattare, comunicare o di avvicinarsi fisicamente alla madre della richiedente, vietandogli di accedere a determinati luoghi. In tali circostanze, il requisito di tempestività e ragionevole spedizione è implicito nel contesto di un'indagine efficace ai sensi dell'articolo 2 della Convenzione, motivo per cui, la Corte conclude che non si può ritenere che le autorità nazionali abbiano dimostrato la dovuta diligenza, con il conseguente fallimento nel loro obbligo positivo di proteggere il diritto alla vita della madre del richiedente.

La ricorrente, inoltre, lamentando di essere stata oggetto di violenze, lesioni e minacce di morte e ribadendo la negligenza delle autorità, solleva la violazione dell’art. 3152, poiché le ferite e

l'angoscia che era stata costretta a subire a causa della violenza inflitta da suo marito rientravano nel novero della tortura, causando dolore e sofferenza. Era come se la violenza fosse stata inflitta sotto la supervisione dello Stato. L'insensibilità e la tolleranza mostrata da parte delle autorità di fronte alla violenza domestica l'avevano fatta sentire svilita, senza speranza e resa vulnerabile.

La Corte afferma che per aversi una violazione dell’art. 3, i maltrattamenti devono raggiungere un livello minimo di severità, la cui valutazione è relativa e dipende da tutte le circostanze del caso, come la natura e il contesto del trattamento, la sua durata, i suoi effetti fisici e mentali e, in alcuni casi, il sesso, l'età e lo stato di salute della vittima. A tal proposito, essendo la richiedente qualificabile come individuo vulnerabile e perciò solo avente diritto a ricevere la protezione dello Stato, la violenza subita dalla ricorrente, sotto forma di lesioni fisiche e pressione psicologica, appariva sufficientemente grave da costituire un

152 L’art. 3 della CEDU afferma che "Nessuno può essere sottoposto a tortura o a trattamenti o punizioni disumane o degradanti".

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maltrattamento ai sensi dell'art.3 della Convenzione, soprattutto a causa del mancato rispetto da parte delle autorità statali di misure di protezione sotto forma di deterrenza efficace contro gravi violazioni dell'integrità personale del richiedente da parte del marito. La Corte ha stabilito che il sistema di diritto penale, come operato nella presente causa, non aveva un effetto dissuasivo adeguato atto a garantire l'efficace prevenzione degli atti illeciti compiuti dall’imputato contro l'integrità personale della ricorrente e di sua madre e quindi ha finito per violare i loro diritti ai sensi degli articoli 2 e 3 della Convenzione.