un rapporto fin da subito problematico.
2. La Corte di giustizia e il sottile equilibrio fra fiducia
reciproca e protezione dei diritti dell’uomo
.A partire soprattutto dell’entrata in vigore del trattato di Lisbona, la Corte di giustizia si è adoperata in varie occasioni sulla decisione quadro sul mandato di arresto europeo, incentrando alcune delle sue sentenze sulla definizione della fiducia reciproca tra gli Stati membri poiché nessun atto europeo si è mai preoccupato di darne una nozione precisa. Nel corso di questa opera giurisprudenziale, la Corte ha sempre difeso a spada tratta il principio della mutua fiducia che molte volte è venuta a scontrarsi con la protezione dei diritti fondamentali. A riguardo, i casi più famosi ed esemplificativi troviamo il caso Radu e il caso Melloni.
Relativamente al primo13, la Corte di appello di Costanza in Romania
aveva rinviato il caso alla Corte di Lussemburgo chiedendo se la decisione quadro sul mandato di arresto europeo “debba essere interpretata nel senso che le autorità giudiziarie di esecuzione possono rifiutare l’esecuzione di un mandato d’arresto europeo emesso ai fini dell’esercizio di un’azione penale a motivo del fatto che le autorità giudiziarie emittenti non hanno sentito la persona ricercata prima dell’emissione di tale mandato d’arresto”14. La risposta della
Corte è stata negativa poiché, partendo dal presupposto che la decisione quadro del 2002 mira ad accelerare la cooperazione giudiziaria e le procedure di consegna, l’autorità giudiziaria è tenuta ad eseguire il mandato di arresto in linea di principio, ad esclusione dei casi di motivi di rifiuto di consegna presenti all’art.3 e 4 della decisione quadro 2002/584/GAI. Tra gli argomenti a sostegno di
13 Corte giust. (Grande Sezione), 29 gennaio 2013, Radu, C-396/11.
14 Corte giust. (Grande Sezione), 29 gennaio 2013, Radu, cit., punto 31. Nei confronti del signor Radu erano stati emessi quattro MAE, ai fini dell’esercizio dell’azione penale, da altrettante autorità giudiziarie tedesche.
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questa sentenza15 introdotti dalla Corte, troviamo il fatto che il
mandato di arresto europeo che sia stato emesso per l’esercizio di un’azione penale, senza che l’interessato sia stato prima sentito dalle autorità giudiziarie emittenti, non è ricompreso tra i motivi di rifiuto elencati dall’atto europeo. La Corte di Lussemburgo, quindi, non è andata oltre il limite dei motivi di rifiuto presenti nella decisione quadro, discostandosi dalle conclusioni dell’avvocato generale Sharpton. In conclusione, la Corte ha ribadito la protezione dei diritti fondamentali all’interno di una chiara cornice di effettività del rafforzamento del sistema di cooperazione stabilito all’interno della decisione quadro sul mandato di arresto europeo16. Si evidenzia,
quindi, come la Corte sia determinata a considerare la fiducia reciproca come la guida principale dell’intera cooperazione giudiziaria in materia criminale.
Relativamente al secondo caso17, la Corte costituzionale spagnola che
aveva sollevato presso la Corte di giustizia delle questioni pregiudiziali attinenti ai rapporti fra mandato di arresto europeo e decisioni di condanna in absentia ai sensi dell’art.4.1 BIS18. Questo caso è stato il
primo nel quale una Corte costituzionale nazionale ha sottoposto alla Corte di giustizia dell'UE una questione concernente direttamente la potestà degli Stati membri di far valere controlimiti, in materia di tutela dei diritti fondamentali, rispetto agli obblighi di adeguamento dell'ordinamento nazionale al diritto UE19. La risposta dei giudici di
15 Corte giust. (Grande Sezione), 29 gennaio 2013, Radu, cit., punti 38-41.
16 V. Mitsilegas, The Symbiotic Relationship Between Mutual Trust and Fundamental Rights in Europe’s Area of Criminal Justice, cit., Law, 2015, vol. 6, issue 4, p. 457 ss.. 17 Corte giust. (Grande Sezione), 26 febbraio 2013, Melloni, C-399/11
18 Introdotto con la decisione quadro 2009/299/GAI.
19 Infatti, la terza delle questioni pregiudiziali sollevate dalla Corte costituzionale spagnola chiedeva se l’art.53 della Carta dei diritti fondamentali (“Nessuna
disposizione della presente Carta deve essere interpretata come limitativa o lesiva dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali riconosciuti dalle costituzioni degli Stati membri ”)consente allo Stato membro di rifiutare l'esecuzione di un mandato
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Lussemburgo era stata tranchant: nella misura in cui il diritto UE rispetta i diritti fondamentali tutelati dalla Carta dei diritti fondamentali dell'UE, lo Stato membro non può rifiutare di adempiere gli obblighi che ne derivano, nemmeno nell'ipotesi in cui tali obblighi risultino in contrasto con i diritti fondamentali garantiti dal proprio ordinamento costituzionale20. Questa pronuncia provocò
non poche critiche da parte della dottrina che mosse l’accusa che essa rigettava il dialogo fra le Corti e disgregava il concetto di “intercostituzionalismo”. Ma, se la Corte di Lussemburgo avesse rilasciato una sentenza in senso opposto, avrebbe messo in discussione «l’uniformità dello standard di tutela dei diritti fondamentali da essa definito, una lesione dei principi di fiducia e riconoscimento reciproci che essa mira a rafforzare e, pertanto, un pregiudizio per l’effettività della suddetta decisione quadro»21.
Così facendo, la Corte ha affermato un’altra volta il ruolo fondamentale della reciproca fiducia che consente la creazione e il mantenimento di uno spazio senza frontiere interne. Tale principio impone a ciascun Stato, «segnatamente per quanto riguarda lo spazio di libertà, di sicurezza e di giustizia, di ritenere, tranne in circostanze eccezionali, che tutti gli altri Stati membri rispettano il diritto dell’Unione e, più in particolare, i diritti fondamentali riconosciuti da quest’ultimo»22. E ancora, nell’applicazione del diritto dell’Unione, gli
Stati membri devono impegnarsi «a presumere il rispetto dei diritti fondamentali da parte degli altri Stati membri, sicché risulta ad essi preclusa non soltanto la possibilità di esigere da un altro Stato
di arresto europeo nei confronti di un condannato contumace nel caso in cui lo Stato richiedente non garantisca in ogni caso la riapertura del processo.
20 F. Viganò, Obblighi di adeguamento al diritto europeo e ‘controlimiti’: la Corte
costituzionale spagnola si adegua, Bon Gré Mal Gré, alla sentenza dei giudici di Lussemburgo nel caso Melloni, in Diritto penale contemporaneo, 9 marzo 2014.
21 Corte giust. (Grande Sezione), 26 febbraio 2013, Melloni, cit., punto 63. 22 Parere 2/13 della Corte, cit., punto 191.
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membro un livello di tutela nazionale dei diritti fondamentali più elevato di quello garantito dal diritto dell’Unione, ma anche, salvo
casi eccezionali, quella di verificare se tale altro Stato membro abbia
effettivamente rispettato, in un caso concreto, i diritti fondamentali garantiti dall’Unione»23. Quindi, nei “casi eccezionali” in cui uno Stato
membro può procedere alla verifica del rispetto dei diritti fondamentali garantiti dall’Unione da parte di un altro Stato membro, si designa uno strumento di grande importanza in capo alla Corte da utilizzare con grande cautela, ma al quale poter ricorrere. Un esempio di questo saranno proprio i casi riuniti Aranyosi e Caldararu.
Prima di trattare questo caso, punto di svolta nella vicenda relativa ai rapporti fra il mandato di arresto europeo e la protezione dei diritti dell’uomo, ritengo opportuno fare un breve accenno ad un caso poco anteriore, del 2015, risolto anche esso dalla Corte di giustizia, che ha rappresentato un passaggio inevitabile all’interno di questo percorso giurisprudenziale dove, sostanzialmente, la Corte ha allargato la propria sensibilità al tema della protezione dei diritti dell’uomo: il caso Lanigan24.
In questo caso l’High Court irlandese, nel procedimento di esecuzione di un mandato di arresto europeo emesso dalla Magistrates’ Court in Dungannon, Regno Unito, aveva fatto rinvio alla Corte di giustizia sollevando due questioni pregiudiziali finalizzate a individuare gli effetti del mancato rispetto dei termini per decidere in ordine alla esecuzione del mandato di arresto europeo. In questa sede non è opportuno scendere nel merito specifico delle due questioni, quello che dobbiamo considerare è il messaggio finale che la Corte vuole trasmettere. Infatti, la Corte ha affermato che un aspetto rilevante da
23 Parere 2/13 della Corte, cit., punto 192.
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non trascurare è la responsabilità dell’autorità giudiziaria di esecuzione quanto al rispetto dei diritti fondamentali della persona colpita dal mandato che si trovi in stato di detenzione. L’art. 12 decisione quadro mandato di arresto europeo25, oggetto di una delle
questioni sollevate, va interpretato alla luce dell’art. 6 della Carta che tutela il diritto alla libertà e alla sicurezza di ogni persona; il giudice competente dell’esecuzione deve, infatti, verificare che il mantenimento in stato di detenzione non comporti una compressione del diritto alla libertà personale dell'interessato. A riguardo è richiamato il comma 1 dell’art. 52 Carta e dunque pure il principio di proporzionalità nella limitazione dei diritti fondamentali26. In
conclusione, la Corte ha rilevato che l’autorità giudiziaria nell’esecuzione potrà decidere di mantenere la persona in custodia, in conformità dell’art. 6 Carta, soltanto a condizione che il procedimento di esecuzione del mandato di arresto europeo «sia stato condotto con sufficiente diligenza e, pertanto, che la durata della custodia non risulti eccessiva»27. La sentenza ha subite molte critiche dalla dottrina
ma, nonostante queste, ha inaugurato un percorso giurisprudenziale importante che ha trovato seguito pure nei casi riuniti Aranyosi e Caldararu. Questa direzione della Corte è andata verso l’affermazione del carattere prioritario dell’effettività del procedimento di esecuzione del mandato di arresto europeo in bilanciamento con la durata non eccessiva della custodia nelle more della decisione sulla
25 Art.12 DQ 2002/584/GAI: “quando una persona viene arrestata sulla base di un mandato d'arresto europeo, l'autorità giudiziaria dell'esecuzione decide se la persona debba o meno rimanere in stato di custodia conformemente al diritto interno dello Stato membro dell'esecuzione. In qualsiasi momento è possibile la rimessa in libertà provvisoria, conformemente al diritto interno dello Stato membro di esecuzione, a condizione che l'autorità competente di tale Stato membro adotti le misure ritenute necessarie ad evitare che il ricercato si dia alla fuga.”
26Corte giust. (Grande Sezione), 16 luglio 2015, Lanigan, cit., punti 54-56 27Corte giust. (Grande Sezione), 16 luglio 2015, Lanigan, cit., punto 58.
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consegna, una volta scaduti i termini fissati dall’art. 17 decisione quadro sul mandato di arresto europeo.
3. Il punto di svolta: i casi riuniti Aranyosi e Caldararu.
È del 2015 la sentenza della Grande Sezione della Corte di Giustizia dell’Unione Europea che, offrendo la soluzione ai due casi di riuniti Aranyosi e Caldararu, rappresenta un “caso pilota” del percorso giurisprudenziale fino a quel momento intrapreso dalla stessa Corte di giustizia.
I casi sono stati riuniti dalla Corte di giustizia poiché entrambi si basano sul rapporto fra la decisione sulla consegna del ricercato allo Stato membro che ha emesso il mandato di arresto e le condizioni carcerarie presenti nei due Stati emittente, rispettivamente l’Ungheria nel primo caso e la Romania nel secondo. Nel primo caso28,
nei confronti del signor Aranyosi, un cittadino ungherese, erano stati emessi due differenti mandati di arresto in riferimento a due distinti episodi di furto con effrazione, per l’esercizio dell’azione penale. Nel secondo caso29, invece, il mandato di arresto era stato emesso verso il
signor Caldararu, cittadino rumeno, per l’esecuzione di una sentenza di condanna divenuta definitiva per guida senza patente. Entrambi casi erano stati rinviati dalla Corte anseatica di Brema alla Corte di giustizia in merito all’interpretazione di alcune disposizioni della decisione quadro sul mandato di arresto europeo.
28 Corte giust. C-404/15 29 Corte giust. C-659/15 PPU
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Veniamo ora ad un breve riassunto delle due vicende.
Nel caso del signor Aranyosi, il cittadino ungherese è nato il 14 luglio 1996 a Szikszò (Ungheria), al momento dell’arresto era residente a Bremerhaven (Germania) con sua madre, la compagna e il suo bambino di otto mesi. Egli era stato arrestato a Brema, in Germania, ma aveva negato gli addebiti e rifiutato di essere consegnato. Successivamente, per insussistenza di un pericolo manifesto che si sottraesse la consegna, era stato rilasciato e nello stesso tempo la procura generale di Brema, ritenendo non conformi agli standard minimi europei le condizioni di detenzione e alcuni penitenziari ungheresi, si era rivolta al tribunale distrettuale ungherese che aveva emesso il mandato di arresto per sapere in quale istituto sarebbe stato detenuto e il signor Aranyosi. Il procuratore del tribunale ungherese sentito non aveva dato una risposta esauriente: da un lato, aveva fatto notare che nel caso in considerazione la custodia cautelare e la pena detentiva richiesta non erano due misure indispensabili dal momento che nell’ordinamento ungherese esistevano altre misure coercitive meno gravose della privazione della libertà, come ad esempio misure sanzionatorie; dall’altro lato, aveva suggerito che l’accertamento del reato e la scelta delle possibili sanzioni da applicare stavano nella sfera di competenza delle autorità giudiziarie ungherese che avrebbero prescritto garanzie pari a quelle previste dall’ordinamento europeo e fondate sugli stessi valori. Ciononostante, il pubblico ministero di Brema aveva acconsentito alla richiesta di consegna precisando che, nonostante la generalità del tribunale ungherese sulla struttura penitenziaria dove l’imputato sarebbe stato incarcerato in caso di consegna all’Ungheria, non vi era alcun indizio Che facesse pensare che l’imputato, dopo essere stato consegnato, potesse essere «vittima di tortura o di altri trattamenti
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crudeli, inumani o degradanti»30. La situazione però non era così
pacifica perché il legale del sig. Aranyosi aveva chiesto il rigetto della domanda del pubblico ministero di Brema adducendo come motivazione che il pubblico ministero del distretto del tribunale ungherese di Miskolc non aveva indicato in quale istituto penitenziario l’imputato verrebbe incarcerato. Sarebbe dunque impossibile verificare le condizioni di detenzione. Allo stesso tempo la Corte di appello anseatica di Brema sosteneva che la consegna avrebbe dovuto essere dichiarata illegittima nel caso in cui vi fosse un ostacolo ai sensi dell’articolo 73IRG31. Partendo da questo articolo e
dalle informazioni avute, per la corte invece sono presenti indizi probatori che il signor Aranyosi poteste essere sottoposto a condizioni detentive contraria ai diritti fondamentali e ai principi generali sanciti dall’articolo 6 del t.u.e. nel caso in cui fosse consegnato alle autorità ungheresi. A sostegno della propria tesi veniva citata dalla Corte di appello di Brema una sentenza della corte di Strasburgo32 che aveva
condannato nel 2015 l’Ungheria per le pessime condizioni dei detenuti nelle carceri e dello Stato e per un generale sovraffollamento che rischiava di portare a trattamenti inumani o degradanti dei detenuti. Da questo susseguirsi di eventi si è arrivati a un punto di stallo che la Corte di appello di Brema ha risolto con un rinvio alla Corte di giustizia sottoponendole due questioni pregiudiziali:
1. Se l’articolo 1, paragrafo 3, della decisione quadro debba essere interpretato nel senso che una domanda di consegna ai
30 Corte giust. (Grande Sezione), 5 aprile 2016, Aranyosi e Caldararu, cit., punto 38. 31 Una legge tedesca sull’assistenza giudiziaria internazionale in materia penale (Gesetz über die internationale Rechtshilfe in Strafsachen), del 23 dicembre 1982, come modificata dalla legge sul mandato d’arresto europeo (Europäisches Haftbefehlsgesetz), del 20 luglio 2006 (BGBl. 2006 I, pag. 1721; in prosieguo: l’«IRG»), che fa riferimento al rispetto dei principi contenuti nell’articolo 6 del t.u.e. in occasione della prestazione dell’assistenza giudiziaria.
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fini dell’esercizio di un’azione penale è illegittima se sussistono gravi indizi che le condizioni di detenzione nello Stato membro emittente violino i diritti fondamentali dell’interessato e i principi giuridici generali sanciti dall’articolo 6 TUE, o se detto articolo debba essere interpretato nel senso che, in questi casi, lo Stato di esecuzione può o deve subordinare la sua decisione sulla ricevibilità della domanda di consegna a garanzie sul rispetto delle condizioni di detenzione. Se lo Stato di esecuzione possa o debba formulare al riguardo concreti requisiti minimi per quanto riguarda le condizioni di detenzione da garantire.
2. Se gli articoli 5 e 6, paragrafo 1, della decisione quadro debbano essere interpretati nel senso che l’autorità giudiziaria emittente è anche autorizzata a fornire garanzie sul rispetto delle condizioni di detenzione, o se, a tal riguardo, rimanga fermo quanto previsto dal sistema interno di attribuzione delle competenze dello Stato membro emittente».33
Nel secondo caso preso in considerazione, il protagonista è il signor Caldararu, un cittadino rumeno nato nel 1985 a Brasov (Romania) e arrestato a Brema l’8 novembre 2015. Con sentenza del Tribunale di primo grado di Fagaras del 16 aprile 2015, il sig. Caldararu era stato condannato ad una pena detentiva complessiva di un anno e otto mesi per guida senza patente e, in data 29 ottobre 2015, la Tribunale di primo grado di Fagaras ha emesso un mandato d’arresto europeo nei confronti del sig. Caldararu. Fin da subito il signor Caldararu aveva dichiarato di non acconsentire alla procedura semplificata di consegna, mentre la Corte di appello anseatica di Brema, con
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decisione dell’11 novembre 2015, aveva accolto la richiesta, ritendendola prima facie legittima ma ravvisando la sussistenza di un rischio che l’interessato si sottraesse alla consegna alle autorità rumene34. Tuttavia, pochi giorni prima di procedere alla consegna del
signor Caldararu, la Corte di appello anseatica di Brema, dopo aver constatato la legittimità formale dell’euro-mandato, aveva replicato le osservazioni formulate nel caso Aranyosi in merito alle condizioni dei carcerati nelle strutture rumene. A sostegno della propria tesi, erano poste in evidenza delle sentenze di condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo35 verso la Romania con le quali si era ritenuto
provato che lo Stato rumeno aveva violato l’art. 3 c.e.d.u.,
«incarcerando i ricorrenti in celle troppo anguste, sovraffollate, sudice e prive di sufficiente riscaldamento e di acqua calda per la doccia»36.
Emergevano, dunque, indizi concreti che le condizioni detentive alle quali sarebbe stato sottoposto il sig. Caldararu in caso di consegna alle autorità rumene non soddisfacevano gli standard minimi previsti dal diritto internazionale37. Ecco che la Corte di appello anseatica di
Brema rinviò alla Corte di giustizia il caso Caldararu proponendo omologhe questioni pregiudiziali a quelle viste per il caso Aranyosi.
34 Corte giust. (Grande Sezione), 5 aprile 2016, Aranyosi e Căldăraru, cit., punti 51- 55.
35 Corte eur., 10 giugno 2014, Vociu c. Romania; e, in pari data, Bujorean c. Romania, Constantin Aurelian Burlacu c. Romania e Mihai Laurenţiu Marin c. Romania. Corte eur., 6 dicembre 2016, Kanalas c. Romania
36 Corte giust. (Grande Sezione), 5 aprile 2016, Aranyosi e Căldăraru, cit., punto 60 37 Tale valutazione farebbe particolarmente riferimento al notevole sovraffollamento carcerario riscontrato durante le visite effettuate tra il 5 e il 17 giugno 2014.
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3.1 Le conclusioni dell’avvocato generale
Riuniti i due casi, l’avvocato generale Yves Bot presentò le conclusioni ai due casi in maniera congiunta il 3 marzo 2016. Le conclusioni in senso stretto alle due questioni pregiudiziali furono anticipate da osservazioni preliminari in merito alle difficoltà sollevate dalla trasposizione dei principi enunciati nella sentenza N.S. e altri38, così
come previsto al titolo IV delle conclusioni, dal punto 39 al 65. Diversi Stati membri propongono di trasporre il principio enunciato dalla Corte nella sentenza N.S. e altri in base al quale gli Stati membri, compresi gli organi giurisdizionali nazionali, sono tenuti a non trasferire un richiedente asilo verso lo «Stato membro competente», ai sensi del regolamento n. 343/2003, quando non possono ignorare, tenuto conto degli strumenti di cui dispongono, che le carenze sistemiche nella procedura di asilo e nelle condizioni di accoglienza dei richiedenti asilo in tale Stato membro possono esporre il richiedente a trattamenti inumani o degradanti ai sensi dell’articolo 4 della Carta39. Quindi, lo Stato membro nel cui territorio si trova il
richiedente asilo, deve procedere esso stesso all’esame della domanda di asilo qualora lo Stato membro «competente», ai sensi del regolamento n. 343/2003, non offra garanzie sufficienti riguardo alle condizioni di detenzione. L’avvocato generale, tuttavia, è di altro avviso: secondo lui, per quanto possa essere allettante, soprattutto per la sua semplicità, tale giurisprudenza non mi sembra applicabile per analogia all’interpretazione delle disposizioni della decisione
38 C-411/10 e C-493/10, EU:C:2011:865
39 Conclusioni dell’avvocato generale Yves Bot, presentate il 3 marzo 2016, cit., punto 41
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quadro40. L’avvocato generale fa seguire una serie di ragioni a favore
della sua tesi:
a) In primo luogo, il principio enunciato dalla Corte nella sentenza N.S. e altri costituisce una trasposizione del principio essenziale che disciplina le norme relative all’allontanamento e all’espulsione nell’ambito del diritto di asilo. Tale principio, secondo cui nessuno può essere allontanato, espulso o