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Le crisi reputazionali sui social network site: rischi e conseguenze

CAPITOLO III La Digital Reputation

5. Le crisi reputazionali sui social network site: rischi e conseguenze

I social media possono essere utilizzati dalle aziende a scopi promozionali, per interagire con la clientela e per ricercare e assumere professionisti. Ma, scrive Minghetti (2015), l’utilizzo di queste piattaforme può comportare dei rischi che si traducono in azioni che possono danneggiare reputazione e brand aziendale oppure sfociare in cause tra dipendenti e dirigenti di un’organizzazione: ad esempio, se si considera la natura sintetica della comunicazione su Twitter e il fatto che molto spesso i tweet vengono scritti per coinvolgere una vasta audience, sarà possibile scatenare facilmente una crisi reputazionale a causa di una reazione negativa tra gli utenti che può essere velocemente amplificata e divenire incontrollabile con i retweet di altri utenti, alimentando un gran numero di commenti dannosi per l’azienda. Anche su Facebook queste crisi sono possibili in quanto è una piattaforma dove non è raro imbattersi in situazioni imbarazzanti o in post nei quali vengono aggredite verbalmente le persone. Può capitare infatti che dei dipendenti che avevano dichiarato di essere in malattia vengano scoperti invece a divertirsi grazie a una foto postata maldestramente sul profilo social o, ancora, che qualche commento sprezzante sui dirigenti dell’organizzazione per la quale lavorano

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finisca per essere visto da uno di loro e quindi essere fonte di sanzione e persino di licenziamento.

Sul web tutto viene registrato e, una volta scoppiata una crisi reputazionale, è molto complicato farla passare, soprattutto da quando i social network site si sono ritagliati uno spazio da protagonista nella scena mediatica.

Un esempio di crisi reputazionale che riguarda le aziende è quello del caso Barilla. Guido Barilla, CEO della prestigiosa azienda italiana operante nel settore alimentare si rese protagonista, in un’intervista radiofonica48, di un’incauta dichiarazione in cui sostanzialmente dichiarava che la sua azienda non avrebbe mai fatto campagne pubblicitarie con degli omosessuali perché sarebbe stato contrario alla loro idea di famiglia tradizionale e che, se questi non fossero stati d’accordo, avrebbero tranquillamente potuto comperare pasta di altre marche.

Questa infelice battuta, in un momento storico in cui, in Italia, si dibatteva in maniera molto accesa sul tema del riconoscimento e dell’estensione di alcuni diritti civili per gli omosessuali ha scatenato un mare di polemiche, ovviamente amplificate dagli utenti dei social network site. Sebbene Guido Barilla si sia affrettato a chiedere scusa a mezzo Twitter, e poi su altri canali mediatici, per aver urtato la sensibilità dell’opinione pubblica ribadendo il rispetto per tutti gli individui senza distinzioni, l’hashtag #BoicottaBarilla divenne immediatamente di tendenza e scatenò reazioni di vario genere: la maggior parte degli utenti, sia omosessuali che etero, inveì indignata contro il manager e, di conseguenza, contro il brand minacciando di non comprare più la loro pasta. Altri invece, sfruttarono l’accaduto ironizzando sull’Epic Fail49 mentre, i competitor, presero la palla al balzo per ribadire che il loro marchio non discrimina nessuno e costruirono attorno al tema alcuni post per sfruttarne l’eco mediatica del momento.

Di sicuro, questo clamore intorno alle dichiarazioni di Barilla, rappresenta un chiaro esempio di ciò che può accadere nel momento in cui un rappresentante di un’organizzazione, commette un errore di comunicazione nell’era della disintermediazione. La reputazione del brand Barilla ha certamente risentito nell’immediato di questa vicenda e, probabilmente, avrà fatto perdere per un periodo di tempo all’organizzazione un po' di attrattività nei confronti di potenziali candidati. Per contro, semmai ce ne fosse stato bisogno, ha ribadito il potere mediatico che la comunicazione sui siti di social network ha acquisito nella società contemporanea, evidenziando la necessità di formare professionisti capaci di comprendere i pro e i contro

48 Intervista rilasciata al programma radiofonico “La Zanzara” su Radio24.

49 Espressione anglosassone che viene solitamente associata a un fallimento, in questo caso

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della comunicazione a mezzo social, in modo da evitare di cadere nelle “trappole” del web.

Ben più complessa è la situazione nella quale invece si può trovare un dipendente di un’azienda che commette un “passo falso” sui social network site. Un caso50 che ha fatto discutere l’opinione pubblica sul tema della libertà di espressione sui social media è quello di un dipendente di un’azienda ortofrutticola, licenziato in tronco senza preavviso e per giusta causa per aver postato su Facebook un commento poco lusinghiero nei confronti del suo datore di lavoro, “colpevole” di aver comunicato ai propri dipendenti la volontà di tenere aperta l’azienda anche di domenica. Il post considerato denigratorio era il seguente:

“È un’offesa ai lavoratori che lavorano la domenica! Tanto meritate solo disprezzo egregi padroni ci costringete a lavorare di domenica con dei discorsi che sanno di ricatto. Anzi li costringete!” (2016, http://www.soluzionilavoro.it/2016/05/24/licenziamento-del-lavoratore- che-su-facebook-manifesta-disprezzo-per-i-padroni/)

Il dipendente in questione, svolgeva un ruolo di elevata responsabilità presso l’azienda in quanto era assunto con la qualifica di vice-capo reparto e, pertanto, la sua dichiarazione è risultata essere meritevole di licenziamento. Il lavoratore licenziato presentò ricorso contro il provvedimento affinché potesse essere reintegrato nel suo posto di lavoro sostenendo che la sua critica era rivolta al modello organizzativo del mondo del lavoro in generale e non alla sua azienda, ma il giudice lo respinse confermando la legittimità del licenziamento. Alla base di questa decisione del giudice del Tribunale del lavoro di Parma, c’erano le seguenti motivazioni: il lavoratore era venuto meno al vincolo fiduciario nei confronti dell’azienda che gli aveva affidato mansioni di responsabilità, organizzative e di gestione del personale e pertanto il suo sfogo doveva essere giudicato con rigore. Inoltre, aveva manifestato “disprezzo per i padroni” e ciò faceva sì che il commento diventasse diffamatorio e non più soltanto un, seppur eccessivo, esercizio di critica.

Questo appena descritto non è l’unico caso di controversie legali nate per un uso superficiale dei social media ma è emblematico in quanto rispecchia i rischi che può comportare un utilizzo leggero delle piattaforme di social network. E, se il monitoraggio di questi canali mediatici da parte dei datori di lavoro è stato dichiarato legittimo da molte sentenze giuridiche, è pur vero che si manifesta un problema non di poco conto nel definire i limiti di queste attività. Diventa infatti complicato stabilire dove finisca la libertà

50 Fonte: http://www.soluzionilavoro.it/2016/05/24/licenziamento-del-lavoratore-che-su-facebook-

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di espressione e il diritto alla critica, senza sfociare in diffamazioni e ingiurie, soprattutto in un contesto difficilmente controllabile come quello dei social media.

Saper disinnescare una crisi reputazionale, in una società in cui la maggior parte degli utenti che utilizzano i social media sono always on grazie anche alla grande diffusione degli smartphone, non è semplice: vanno tenute sempre in considerazione le proprietà e le dinamiche dei “pubblici interconnessi” (boyd 2010) già citate nel primo paragrafo di questo capitolo e, scrive Welford (2014), il fatto che la voce di chiunque utilizza i canali social ha un peso e che, online, le cattive notizie viaggiano più rapidamente delle buone. Per rimediare a ciò, bisogna agire velocemente prendendo in mano la situazione, dando risposte oneste e convincenti ma accettando, allo stesso tempo, le critiche che possono pervenire, favorendo il dialogo su tutti i canali mediatici di cui si dispone. Agendo in tal modo, è possibile limitare le conseguenze negative di una eventuale crisi e si avranno gli strumenti per poter gestire al meglio future problematiche.

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CAPITOLO IV