Illustrati i temi che precedono con l’indicazione degli indirizzi interpretativi cui la Corte si è ispirata,è adesso necessario,prima di iniziare la trattazione del merito processuale,affrontare un’ulteriore tematica.
In questo processo,così come avviene del resto per la stragrande maggioranza dei procedimenti in cui la cognizione giudiziale ha ad oggetto asserite manifestazioni di criminalità organizzata di tipo mafioso,assume un rilievo non marginale,nell’ambito del programma probatorio,l’apporto derivante dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia.
L’utilizzo di tale fonte di prova richiede,per via del precetto normativo dettato dall’art. 192,comma terzo,C.P.P. , l’attivazione di meccanismi di controllo volti a verificare il grado di credibilità e attendibilità di ciascuno dei chiamanti in reità e dunque il peso specifico da riconoscere al contenuto delle loro versioni.
E’ quindi doveroso dar conto dei criteri che la Corte ha inteso seguire riguardo l’individuazione di tali meccanismi e,più in generale,delle scelte ermeneutiche che hanno guidato la decisione.
Sebbene la materia della valutazione dell’apporto dei collaboratori sia tra quelle che più hanno attirato l’attenzione degli operatori e sebbene essa richieda risposte dinamiche,che cioè siano in grado di cogliere la costante evoluzione del fenomeno,è tuttavia dato constatare,in conseguenza di alcuni interventi regolatori del giudice di legittimità,anche a Sezioni Unite,il sempre maggiore consolidamento di taluni rilevanti principi interpretativi.
Gli stessi appaiono preziosi non solo per via dell’autorevolezza della fonte che li ha elaborati ma anche e soprattutto perchè offrono ai giudici di merito la possibilità di gestire correttamente un mezzo di prova che,pur praticamente irrinunciabile nei processi aventi ad oggetto manifestazioni della criminalità organizzata di tipo mafioso,richiede tuttavia,per la complessità della sua struttura e delle sue implicazioni,un notevole sforzo di analisi.
Il primo di questi principi,che questa Corte ha inteso far proprio convinta com’è della sua congruenza ai principi generali del nostro diritto processuale penale,si trae dalla pronuncia n.1653 del 22.2.1993 delle Sezioni Unite della Suprema Corte nell’ambito del processo Marino ed altri.
E’ utile riportare integralmente la massima che ne è stata tratta.
“ In tema di prova,ai fini di una corretta valutazione della chiamata in correità,a
sciogliere il problema della credibilità del dichiarante in relazione,tra l’altro,alla sua personalità,alle sue condizioni socio-economiche e familiari,ai rapporti con i chiamati in correità ed alla genesi prossima e remota della sua risoluzione alla confessione ed all’accusa dei coautori e complici;in secondo luogo deve verificare l’intrinseca consistenza e le caratteristiche delle dichiarazioni del chiamante alla luce di criteri quali,tra gli altri,quelli della precisione,della coerenza,della costanza,della spontaneità;infine egli deve esaminare i riscontri cosiddetti esterni.L’esame del giudice deve essere compiuto seguendo l’indicato ordine logico perchè non si può procedere ad una valutazione unitaria della chiamata in correità e degli altri elementi di prova che ne confermano l’attendibilità se prima non si chiariscono gli eventuali dubbi che si addensino sulla chiamata in sè,indipendentemente dagli elementi di verifica esterni ad essa “.
Dunque,la valutazione dell’apporto processuale di un chiamante in correità richiede anzitutto un’indagine sulla sua personalità e sul contenuto intrinseco delle sue dichiarazioni. Solo in tal modo infatti si può approdare ad un giudizio sicuro circa il grado di attendibilità da riconoscergli.
E’ ben possibile tuttavia che,conclusa tale operazione,resti preclusa la formulazione di un giudizio omogeneo. E’ in altri termini possibile che la verifica porti a concludere per un’attendibilità parziale del chiamante,limitata cioè ad alcune soltanto delle dichiarazioni e dunque non confermata o addirittura esclusa per le rimanenti.
Questa Corte ha ritenuto,anche in questo caso sulla scorta di un indirizzo interpretativo emerso in sede di legittimità ( cfr. Cass. Sez. 1^,12.5.1992 n.1429,Genovese ed altri),di escludere che l’evenienza descritta comporti il rigetto dell’intero contributo offerto dal collaboratore.
Per dirla con le parole della Suprema Corte “ L’attendibilità di un chiamante in reità,ancorchè denegata per una parte delle sue dichiarazioni,non coinvolge necessariamente le altre parti,essendo compito del giudice verificare e motivare in ordine alla diversità delle valutazioni eseguite a proposito delle plurime parti di dichiarazioni rese da uno stesso soggetto “.
Chiarito anche questo aspetto,rimane da affrontare la questione inerente i riscontri esterni che,come si è visto,danno luogo al secondo momento di controllo sulla fondatezza e la conseguente possibilità di utilizzazione processuale della chiamata in reità o in correità.
La Corte ha seguito in proposito uno dei principi maggiormente consolidati in giurisprudenza il quale,partendo dal presupposto dell’impossibilità di arrivare ad una tipizzazione soddisfacente della categoria in esame,consente sostanzialmente al giudice un’ampia libertà di manovra ancorchè ancorata alle regole della ragionevolezza e del rispetto dei canoni fondamentali del processo di rito.
Anche in questo caso,la chiarezza della massima della Suprema Corte ( cfr.
Cass. Sez. 1^,6.6.1992 n.6784,Bruno ed altri ),che sarà qui di seguito citata letteralmente,esonera l’estensore da qualsiasi altro commento.
“ In tema di valutazione delle dichiarazioni di cui all’art. 192,comma terzo,C.P.P., i riscontri esterni,non predeterminati nella specie e nella qualità,possono essere,in via generale,di qualsiasi tipo e natura,tratti sia da dati obiettivi quali fatti e documenti,sia da dichiarazioni di altri soggetti,purchè siano idonei a convalidare aliunde l’attendibilità dell’accusa,tenuto anche presente che oggetto della valutazione di attendibilità da riscontrare è la complessiva dichiarazione concernente un determinato episodio criminoso nelle sue componenti soggettive ed oggettive e non ciascuno dei particolari riferiti dal dichiarante “.
Sempre in tema di riscontri,la Corte si è posta un ulteriore problema e cioè quello attinente la necessità che gli stessi abbiano natura individualizzante.
Si è ritenuto sul punto,coerentemente come sempre ai dettami della giurisprudenza di legittimità,che “ quando le dichiarazioni accusatorie rese dal soggetto compreso tra quelli indicati nei commi terzo e quarto dell’art. 192 C.P.P.
risultino positivamente riscontrate con riguardo al fatto nella sua obiettività,ciò,rafforzando l’attendibilità intrinseca del dichiarante,non può non proiettarsi in senso favorevole sull’ulteriore riscontro da effettuare in ordine al contenuto individualizzante di dette dichiarazioni,nel senso di un meno rigoroso impegno dimostrativo “ ( Cass. Sez. 1^,16.6.1992 n.6992;Altadonna ed altri).
Il principio appena formulato non ha ovviamente esonerato questo giudice dall’obbligo di una rigorosa verifica delle chiamate in reità anche sotto l’aspetto più direttamente attinente le responsabilità individuali degli imputati.
Ha tuttavia importato che,una volta conclusa positivamente l’attività di controllo sulla ricostruzione del fatto criminoso descritto dai collaboratori,la Corte considerasse attendibile anche l’indicazione dei soggetti responsabili sempre che essa fosse ulteriormente assistita da elementi aggiuntivi di portata individuale o,quantomeno,fosse conforme ai canoni del buon senso e della logica e non fosse smentita da dati tali da escludere la sua verosimiglianza.
TRATTAZIONE DELLE COSIDDETTE CAUSALI ALTERNATIVE