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La critica all’empirismo

La parte centrale del Saggio sul diritto naturale si occupa della critica alle concezioni empiristiche e formali che comprendono in senso lato la tradizione giusnaturalistica: se nel caso del formalismo è lo stesso Hegel che cita Kant e Fichte quali suoi rappresentanti, a proposito dell’empirismo, in assenza di riferimenti espliciti dell’autore, è possibile in modo univoco individuarne come protagonista tutta la scuola del diritto naturale antecedente, che include non solo teorici tedeschi come Pufendorf e Wolff, ma anche gli interlocutori francesi e inglesi, come Rousseau, Hobbes e Locke, solo per citare i nomi più celebri87. Come è stato anticipato, la ricostruzione presentata da Hegel unisce in un unico impianto polemico due ordini di discorso differenti, quello teorico e quello pratico, in quanto la critica prende le mosse da un’inadeguata impostazione metodologica, causa pertanto del carattere non scientifico delle teorie discusse, la cui conseguenza ha in realtà una valenza decisiva sul piano politico-sociale, allorché è foriera di una concezione della libertà e dello stato che finisce per essere repressiva e dispotica. L’intreccio di questi due aspetti contraddistingue l’intero saggio, sia nella sua parte offensiva, sia in quella propositiva, in quanto la stessa impostazione hegeliana sarà il risultato di un differente modo di intendere il ruolo della ragione. Tuttavia le obiezioni

86 VD, p. 541; tr. it., p. 74. A tal proposito vedi A. Calcagni, op. cit.., p. 200 e R. Finelli, Mito e critica delle

forme, cit., p. 245; per quanto riguarda le interpretazioni di Meinecke e Heller, secondo le quali Hegel era un sostenitore dello stato di potenza, vedi D. Losurdo, Hegel e la Germania, cit., pp. 596-597.

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mosse all’empirismo e al formalismo nascono all’interno delle specifiche posizioni di ciascuna delle due correnti, tanto che non solo Hegel le distingue fermamente, ma le colloca su un ipotetica linea comune di sviluppo – secondo la quale il formalismo subentra all’empirismo sia sul piano cronologico che su quello filosofico – giungendo in questo modo a delineare una storia del pensiero giuridico moderno88.

L’errore dell’empirismo si rivela dunque nel modo di intendere quella che Hegel definisce la totalità dell’organico, ovvero la sfera etico-sociale, in quanto opera individuando delle caratteristiche e innalzandole a principi ai quali ricondurre l’intera molteplicità. Il modo di procedere è dunque relativamente chiaro: esso fissa e astrae singoli aspetti, individua uno di questi elementi come essenza o fine di un determinato rapporto e in questo modo gli attribuisce il valore di legge, come risulta chiaro nell’esempio, fornito dallo stesso Hegel, secondo il quale l’essenza del rapporto matrimoniale si definisce a partire dalla procreazione dei figli o dalla comunione dei beni e così via89. In tal modo il procedimento risulta circolare, poiché prima viene scomposta e separata la molteplicità al fine di circoscrivere singole qualità e determinazioni, in seguito si ricostruisce l’unità determinando una di queste ultime come necessaria e fondativa dell’intero. L’errore è duplice perché innanzitutto l’empirismo separa la complessità del mondo etico, concependolo come somma di singoli componenti e in secondo luogo poiché, individuando i differenti principi, opera una scelta del tutto casuale e arbitraria nella classificazione. In luogo allora di quella che Hegel definisce la totalità organica e vivente, tale corrente giunge a elaborare solo un’“unità formale”, che si fonda sul rapporto gerarchico di aspetti diversi, e quindi su un dominio esterno dell’uno sull’altro, cosicché alcuni si rivelano essenziali mentre altri vengono degradati ad accidentali. L’empirismo dunque, proprio perché procede separando, non riesce a tenere insieme la molteplicità e quindi ad accedere all’Assoluto. L’esito è allora per Hegel chiaro in quanto egli scrive che “la materia dell’unità formale, di cui si parla, non è la totalità degli opposti, ma soltanto l’uno degli opposti, cioè una determinatezza, così anche la necessità è soltanto una necessità analitica- formale”; in questo modo “tale scienza empirica si trova nella molteplicità di tali principi, leggi, fini, doveri, diritti, di cui nessuno è assoluto” mentre le determinazioni restano

88 Ivi, p. 76 e ss. L’autore sottolinea come Hegel proceda parallelamente attraverso una giustificazione

filosofica e storica, secondo le quali la condanna nei confronti dell’empirismo sarebbe molto più netta rispetto alla critica del formalismo, in quanto l’empirismo si collocherebbe secondo Hegel fuori della scientificità. Di parere contrario è invece Taminiaux, il quale ritiene che il giudizio di Hegel sia più duro nei confronti del formalismo, mentre le parole più morbide verso l’empirismo dipenderebbero da una maggiore vicinanza che lo stesso Hegel avrebbe riconosciuto fra il suo pensiero e quello di Hobbes, vedi J. Taminiaux, Naissance de la philosophie hégélienne de l’état, Payoy, Paris, 1984, pp. 84-107.

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“prive di connessione e di una necessità originaria semplice”90. Se l’unità dei molteplici viene ridotta ad uno di essi, ciò significa che mentre il contenuto è casuale e contingente, la forma invece di assolvere un compito universalizzante, resta impigliata nell’opposizione. L’empirismo rivela così il suo statuto, in quanto non va al di là di un mero “sforzo scientifico” e si impegna in una “faticosa ricerca” che però non riesce a individuare una “connessione necessaria”. Il carattere di “apparenza della necessità” proprio dell’empirismo nasce in assenza di un’adeguata sintesi delle determinatezze, le quali vengono promosse a fondamento dell’intero o retrocesse ad una posizione subordinata a seconda dei casi; in tal modo dunque esso opera una Verkehrtheit, uno stravolgimento dell’Assoluto senza discostarsi più di tanto dalla visione del senso comune91.

Gli aspetti decisivi dell’empirismo sono dunque, da un lato, la differenza che non riesce a farsi unità, per cui la “totalità scientifica si presenta…come una totalità del molteplice”, e, dall’altro, la casualità che domina il suo modo di procedere, il quale pertanto risulta privo del carattere della necessità, che è invece essenziale nell’ambito della scienza, in quanto “la scienza empirica può elevare come vuole le sue esperienze all’universalità e può, con le sue determinatezze pensate, spingere ben oltre la conseguenza, finché un’altra materia empirica, che contraddice la prima, ma che ugualmente ha il suo diritto ad essere pensata ed espressa come principio, non permette più quella conseguenza della determinatezza precedente, ma costringe ad abbandonarla”92. Inoltre l’impostazione empirista implica un rapporto di dominio, secondo il quale viene individuato un elemento che assurge a principio e a legge e che pone qualunque altro aspetto in posizione di subordinazione: se questo comporta, secondo Hegel, un approccio incongruente nella misura in cui un empirismo rigoroso dovrebbe ammettere un’analoga necessità e rilevanza per ciascuna determinazione, la mancanza più grave dipende dal fatto che viene operata tale selezione senza d’altronde seguire alcun criterio definito.

Come abbiamo già sottolineato, la trattazione hegeliana include sotto l’etichetta empirista concezioni filosofiche molto eterogenee, senza nessuna preoccupazione di distinguere l’una dall’altra e di entrare nel merito delle loro posizioni, al fine di soppesare in maniera diversa il giudizio a seconda del contesto teorico di ogni autore. Tale scelta, oltre a testimoniare l’intento esclusivamente critico che muove il filosofo di Stoccarda, dipende inoltre dal fatto che è sufficiente per Hegel individuare gli elementi condivisi che costituiscono il vero punto nevralgico delle teorie del diritto naturale: sulla base di una lettura che potremmo definire minimalista, in quanto tralascia alcune rilevanti differenze

90Ivi, pp. 441-442; tr. it., pp. 28-29. 91 Ibidem.

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per concentrarsi esclusivamente su ciò che accomuna i numerosi pensatori, egli riconosce, quale elemento specifico della posizione empirista, la nascita dello stato sulla base di un contratto, grazie al quale si abbandona lo stato di natura, condizione d’origine dell’uomo, nella quale gli individui godono della libertà e agiscono uti singuli in una situazione di uguaglianza. Al di là della specifica fisionomia di tale stato e delle ragioni che spingono gli uomini ad uscirne, aspetti che costituiscono d’altronde alcuni dei principali motivi di distinzione nel dibattito giusnaturalista, comune è la connotazione dello stato (o della società civile, dal momento che fino alla formulazione più matura ad opera dello stesso Hegel i due termini vengono utilizzati grosso modo come sinonimi) come una realtà artificiale e artefatta, che rompe con la dimensione più brutalmente naturale per volere dell’uomo stesso, il quale segue in questo modo la legge naturale che prescrive agli uomini di costituirsi come comunità statale. Una volta eretto il potere sovrano, i cittadini sudditi gli conferiscono una parte o tutti i diritti naturali di cui godevano nello stato di natura, i quali per natura spettano loro, cosicché tale potere legiferi e governi senza però violare quei diritti naturali che rappresentano la condizione di legittimità del potere sovrano stesso. In questo modo il diritto si suddivide in due macroambiti, di cui uno, quello positivo, è posteriore e subordinato a quello naturale ed è pertanto valido e legittimo nella misura in cui non contraddice il secondo. Sebbene questo schema fin qui delineato in maniera molto generale e approssimativa contraddistingua non solo l’empirismo, ma anche la posizione formalista, nel corso della trattazione Hegel porrà l’accento su aspetti diversi a seconda dei casi: il tema dello stato di natura, in quanto oggetto di discussione in relazione all’empirismo, risulterà analizzato in modo privilegiato, laddove nell’ambito dell’analisi delle tesi kantiane e fichtiane l’accento verrà posto sulla concezione della libertà vigente all’interno della società politica.

Dal momento che l’analisi hegeliana critica quali tratti peculiari dell'empirismo la differenza e la scissione, in questo contesto la separazione da cui l’autore prende le distanze diventa quella tra stato di natura e stato civile: quell’intero che l’Assoluto concepisce come identità viene infatti rappresentato dal giusnaturalismo come suddiviso in “unità semplice” o “originaria” e in “unità formale”93. L’espressione “unità originaria” indica infatti lo stato di natura, tratteggiato come quantità di differenti qualità, tra le quali ne viene scelta una che acquisisce il carattere della necessità, in quanto esemplificativa della condizione originaria. L’esito cui giunge tale impostazione viene indicato da Hegel quale härteste Widerspruch poiché lo stato di natura è, da una parte, riconosciuto come una finzione, ovvero come un oggetto di pensiero irreale, raffigurato sulla base dei possibili e

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molteplici caratteri che si immagina possano appartenere all’uomo naturale, ma tuttavia è allo stesso tempo considerato indispensabile perché prescrive e determina la genesi dello stato, cosicché ciò che sembra contingente e ideale si rivela contemporaneamente come necessario94. Ancora una volta è all’opera lo stesso procedimento, in quanto in maniera arbitraria si presenta un ritratto dell’uomo sulla base dell’astrazione, in modo tale da sottrarre ciò che pertiene a cultura e costumi storicamente determinati fino a quando esso non resta spogliato e denudato di tutte le sue caratteristiche reali. Hegel riconosce tuttavia all’empirismo di giungere ad un “torbido presentimento” dell’assoluto nella tensione che esso manifesta nel cercare di pensare la totalità, nonostante non riesca a penetrare “l’unità negativa assoluta” e si limiti a negare e annullare quella stessa molteplicità di caratteristiche che aveva supposto nello stato di natura, descritto pertanto come un caos secondo il libero corso della fantasia95. Poiché questa moltiplicazione di caratteri che convivono nello stato di natura comporta la loro opposizione reciproca, tale stato non può essere pensato se non come una condizione di guerra. Implicito, ma altrettanto manifesto, risulta allora il pensatore che in modo più immediato si nasconde dietro a tali riflessioni hegeliane, il filosofo inglese Hobbes – con il quale non a caso l’intera riflessione hegeliana manterrà un rapporto che si potrebbe definire di distante affinità – a cui deve essere attribuito il topos del bellum omnium contra omnes, ovvero, secondo le sue stesse parole, l’idea secondo la quale “per tutto il tempo in cui gli uomini vivono senza un potere comune che li tenga soggiogati, si trovano in quella condizione chiamata guerra e questa guerra è tale che ogni uomo è contro ogni uomo”; senza tuttavia che ciò implichi lo scoppio del conflitto o l’atto della battaglia realmente combattuta, la natura della guerra deve essere intesa come la natura del clima tempestoso, in quanto, come quest’ultimo non si esaurisce nello scroscio di pioggia, così la situazione bellicosa deve essere interpretata quale “disposizione a combattere per cui per tutto il tempo non c’è assicurazione del contrario”96.

94 Ivi, p. 445; tr. it., p. 31.

95 Scrive Hegel: «questo torbido presentimento di una unità originaria e assoluta, che si manifesta nel caos

dello stato di natura e nell’astrazione di facoltà e inclinazioni, non porta fino all’unità negativa assoluta, ma perviene soltanto alla cancellazione di una grande quantità di particolarità e di opposizioni. Tuttavia rimane ancora nel caos una quantità indefinibile di determinatezze qualitative, le quali non hanno, per sé, nessun’altra necessità se non quella empirica, e non hanno, le une per le altre, nessuna interiore necessità» (Nr, p. 446; tr. it., p. 32). Tale passo viene interpretato da Taminiaux come un riconoscimento di Hegel all'empirismo, in quanto «il torbido presentimento dell’assoluto» comporta una minore distanza con l’assoluto stesso, in quanto esprime in fondo il nucleo di ciò che è veramente etico (J. Taminiaux, op. cit., pp. 99-100).

96 T. Hobbes, Leviathan, tr. it. Leviatano, a cura di R. Santi, Bompiani, Milano 2004, p. 207. Nonostante le

molteplici interpretazioni del pensiero hobbesiano che hanno portato a considerarlo sia il primo giusnaturalista, sia l'antesignano del positivismo sia espressione di una concezione dello stato totalitaria, non si può non convenire sul fatto che sia stato propugnatore di diritti inalienabili, quali il diritto all'autoconservazione, dal momento che lo stato nasce per garantire la sicurezza dei cittadini, anche qualora il sovrano decidesse la condanna a morte, l'individuo è detentore del diritto di sottrarvisi con tutti i mezzi che ha a disposizione.

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Nel mostrare i punti deboli dell’empirismo, l’indagine di Hegel prosegue nella stessa direzione: quando allora egli dichiara che “secondo la finzione dello stato di natura, esso sarà abbandonato a causa dei mali che porta in sé”, si riferisce alla descrizione hobbesiana secondo la quale la condizione di incertezza, insicurezza e precarietà che contraddistingue la vita naturale, dovuta principalmente alla scarsità di beni e al dominio delle passioni, conduce alla ricerca della pace che si raggiunge, secondo i dettami della legge naturale formulata dalla ragione, nello stato civile. Pur nella sua specificità, il pensiero hobbesiano inaugura la tradizione del giusnaturalismo in quanto espone una concezione razionalistica dell’origine dello stato e una visione individualistica della sua struttura, finalizzata, da una parte, a radicare il potere nel consenso dei soggetti su cui si esercita e, dall’altra, a garantire l’unità dello stato davanti alle numerose forze centrifughe che convivono al suo interno.

Nonostante allora Hegel condivida in una certa misura gli obiettivi hobbesiani e faccia propri alcuni suoi motivi, come sarà evidente nella costruzione dell’edificio statale quale potere esclusivo e sovrano, completamente differente è l’impostazione seguita. Egli continua allora denunciando che “sebbene questa unità – sia essa per sé o, in una relazione empirica, secondo la sua nascita – sia rappresentata come assoluta, ricevendo da Dio la sua origine immediata, e sebbene nel suo sussistere il punto centrale e l’essenza interiore siano rappresentati come divini, tuttavia questa rappresentazione resta di nuovo qualcosa di formale, qualcosa che ondeggia al di sopra della pluralità, senza peraltro penetrarla”. Il riferimento è in questo contesto al diritto di natura, ovvero a prescrizioni universali che rimandano ad un ordine razionale ed eterno; tali prescrizioni come afferma Hobbes, “possono essere chiamate leggi con tutto rigore in quanto sono promulgate da Dio” e sono valide nello stato di natura, ma non sono efficaci, dal momento che obbligano solo in foro interno e pertanto necessitano di un potere sovrano che, emanando leggi civili, detenga il monopolio del diritto positivo97. Hegel rifiuta il modo in cui viene individuato il nesso che lega i singoli soggetti, in quanto il punto di partenza individualistico implica che lo stato sia affetto da un tratto di separazione e alienazione: quando egli afferma che “lo stato di natura e la maestà e la divinità – estranea agli individui e, proprio per questo, essa stessa singola e particolare – del tutto dello stato del diritto…sono le forme, in cui i momenti spezzettati dell’eticità organica…sono fissati come delle essenzialità particolari”, intende denunciare il fatto che l’intero viene in questo modo ridotto a somma di parti e per questo lo stato è pensato come un elemento che si impone dall’esterno e che esercita una violenza

97 T. Hobbes, Elementa Philosophica. De Cive, tr. it., De Cive. Elementi filosofici sul cittadino, Editori

Riuniti, Roma 2001, p. 113.III, 33. Confronta due diverse interpretazioni sul rapporto fra Hobbes e Hegel, B. Bourgeois, Le droit naturel de Hegel, cit., pp. 129-131 e J. Taminiaux, op. cit., pp. 89-92.

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sugli individui98. L’empirismo non riesce a cogliere la totalità organica perché, da una parte, ne pensa l’origine a partire dal singolo, secondo una finzione che descrive l’individuo al di fuori della comunità e non come membro di un popolo, dall’altra, mette in campo un concetto di natura ambiguo e contraddittorio, in quanto è contemporaneamente ciò che deve essere difeso e che deve essere negato: mentre da una parte l’idea di natura assume una valenza normativa rispetto alla costituzione dello stato, dal momento che esso si costituisce sulla base di una legge di natura, essa risulta allo stesso tempo ciò che deve essere abbandonato o negato, nella misura in cui la società civile è rappresentata come la sua antitesi. La critica mossa da Hegel lascia dunque già emergere come il solo modo di pensare un’unità positiva dipenda dal considerare l’ambito naturale e quello etico come non contrapposti, elaborando, come in seguito cercherà di fare, un concetto di eticità che si innesti all’interno della natura, laddove l’empirismo, sostenendo la loro reciproca esteriorità, finisce per proiettare la dimensione naturale in un periodo circoscritto dal punto di vista temporale e spaziale come avviene nella formulazione di uno stato di natura; in questo modo l’identità originaria dell’uomo è ricondotta a un ordine indisponibile a cui egli non può che adeguarsi, ma contemporaneamente non è mai univoca, in quanto molteplicità di qualità e facoltà continuamente cangianti. Dal punto di vista del metodo scientifico il difetto più ampio attribuito all’empirismo dipende dal fatto che “il principio direttivo di quell’apriori è l’aposteriori”99, ovvero che, a seconda della fisionomia dello stato di diritto, si offrirà una descrizione dello stato di natura, in modo tale che quest’ultimo risulti funzionale a legittimare ciò che si intende far valere nella società civile: viene infatti presupposto ciò a cui si intende arrivare, trasferendolo in un passato atemporale, in modo tale che, attribuendogli il carattere di originario, si avvalori il suo statuto di necessità100. Questo aspetto conferma l’elemento di circolarità che contraddistingue l’approccio empirista, poiché ciò che costituisce il fondamento risulta in realtà fondato da ciò che dovrebbe fondare, in quanto è a partire dallo stato di diritto che viene descritto lo stato di natura e non viceversa. Come è stato sostenuto, in questo modo viene messa in atto un’inversione, poiché l’origine si rivela nella fine, dal momento che, mentre lo stato di natura presenta un carattere paradossale, in quanto si afferma come positività assoluta negando lo stato di diritto grazie al quale sussiste, è in realtà quest’ultimo che, solo in quanto esiste da sempre, può essere negato dallo stato di natura101. Quando allora Hegel afferma che “secondo la maniera delle scienze derivanti

98 Nr, p. 448; tr. it., p. 34. 99 Ivi, pp. 445-446; tr. it., p. 32. 100 Ibidem.

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dall’empirico in generale, bisogna fare, in vista della cosiddetta spiegazione della realtà