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La critica al formalismo

Il formalismo, secondo bersaglio polemico della trattazione hegeliana, presenta delle caratteristiche apparentemente antitetiche rispetto all’empirismo, anche se l’approccio critico mostrerà come entrambi finiscano per incappare nelle stesse contraddizioni: mentre l’empirismo implica una combinazione fra finito e infinito, in cui l’universale resta impigliato nella differenza e nella particolarità, il formalismo si distingue perché assume come costitutivo il principio opposto, ovvero “il lato dell’infinitezza”, in quanto negazione della pluralità e della finitezza117. Dietro la corrente formalista si nasconde infatti, secondo le caratteristiche delineate da Kant e contemporaneamente fatte proprie dall’idealismo soggettivo di matrice fichtiana, la nozione di ragion pura, la quale si definisce come facoltà pratica che si occupa dei criteri di determinazione universale della volontà118. Come esposto dalla Critica della ragion pura, la ragione deve essere considerata non in relazione agli oggetti cui si riferisce, ma semplicemente in rapporto alla sua capacità di legiferare, stabilendo leggi pratiche valide per ogni essere razionale, vale a dire gli imperativi, quali regole oggettive che indicano il dovere come necessario e che sono indipendenti dalle condizioni soggettive e accidentali che spingono ad agire: in questo modo tali leggi si riferiscono solo alla volontà, senza considerare ciò che concerne l’ambito delle motivazioni materiali di un essere razionale, poiché astraggono dal mondo empirico e

116 Ivi, p. 453; tr. it., p. 38.

117 Bourgeois sostiene che Hegel presenti la teorie formaliste «comme la vérité des théories empiriques», vedi

B. Bourgeois, Le droit naturel de Hegel, cit., p. 15. Vedi anche Nr, pp. 453-454, tr. it., p. 39.

118 I. Kant, Kritik der praktische Vernunft, tr. it. Critica della ragion pratica, Laterza, Roma-Bari 2012, pp.

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sensibile e pertanto sono sia a priori sia, per l’appunto, formali119. Per questo Hegel sottolinea come la ragion pratica sia unità negativa e identità pura, poiché concepisce l’opposto come qualcosa da negare: in quanto “la legge assoluta della ragion pratica sta nell’elevare quella determinatezza nella forma dell’unità pura; e l’espressione di questa determinatezza, assunta nella forma, è la legge” si può dedurre che, “se è possibile che la determinatezza venga assunta nella forma del concetto e che essa non si sopprima grazie a questa forma, allora essa è giustificata e, per mezzo dell’assolutezza negativa, è divenuta essa stessa assoluta, legge e diritto o dovere”120.

Mentre allora il formalismo sembra costituire un progresso, in quanto presenta quell’unità che l’empirismo non era riuscito a raggiungere, viene subito smascherato il malinteso su cui si costituisce, che nasce dal fraintendimento di un concetto di ragione in verità analitico e tautologico. Nonostante infatti tale ragione si presenti come identità assoluta dell’ideale e del reale, essa presuppone invece una distinzione tra l’uno e il molteplice che non riesce a superare, restando affetta da un’infondata differenza: definire la ragione esclusivamente come unità significa concepire il rapporto con la pluralità in termini dualistici, cosicché l’unità è in realtà distinzione e la ragione risulta impotente di fronte alla sensibilità e alla realtà. Il problema che Hegel coglie nasce da una falsa infinitizzazione del finito, a cui non si può pervenire attraverso una nozione di ragione esclusivamente negativa, perché, se essa è un principio compreso solo in termini di identità, non può porre essa stessa le differenze, ma è costretta a presupporle, in modo tale che è negato il carattere di assolutezza con il quale era stata definita. La filosofia critica ha creduto allora di trovare il vero assoluto nell’infinitezza, ma ha separato ragione e sensibilità e in questo modo ha elaborato un concetto di ragione che pretende di pervenire all’universalità della volontà tralasciando gli impulsi e le passioni; pertanto essa non opera una sintesi, ma resta un principio analitico, che, distinguendo noumenico ed empirico, formula l’imperativo categorico secondo criteri unicamente formali come negazione di ogni contenuto molteplice. La separazione sulla quale si costituisce allora la ragion pratica sfocia nell’opposizione tra forma e contenuto, tra soggetto e oggetto, tra libertà e natura.

119 Chiarisce infatti Kant che «la ragion pura deve poter determinare la volontà mediante la semplice forma

delle regole pratiche senza la presupposizione di un sentimento, e quindi senza le rappresentazioni del piacevole o dello spiacevole come materia della facoltà di desiderare, la quale materia è sempre una condizione empirica dei principi»; in questo modo la ragione, determinando per se stessa la volontà, prescinde dalla «minima mescolanza degli impulsi», i quali nocerebbero alla sua forza e alla sua supremazia «allo stesso modo che il minimo elemento empirico, come condizione, in una dimostrazione matematica, diminuisce e annulla il suo valore e la sua efficacia. La ragione in una legge pratica determina la volontà immediatamente, non mediante l’intervento di un sentimento di piacere o dispiacere, neanche di un sentimento per questa legge; e solo il fatto, che essa come ragion pura può essere pratica, le rende possibile di essere legislatrice», vedi I. Kant, Critica della ragion pratica, cit., p. 49.

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Hegel riscontra pertanto una contraddizione decisiva: se il progetto kantiano mira a individuare le condizioni di possibilità per una ragione pura, il carattere meramente ideale di essa mette in discussione la possibilità di una effettiva unità con il molteplice e mina alla base il suo statuto normativo: infatti “sebbene in questa ragion pratica l’ideale e il reale siano identici, tuttavia il reale resta assolutamente opposto”, perché “posto essenzialmente fuori dalla ragione”121. In questo modo si incorre in un duplice paradosso, perché da una parte la ragione, non disponendo di alcun contenuto, non ha alcuna possibilità di legiferare e di provvedere all’autonomia della volontà, risultando così esautorata della sua funzione, mentre dall’altra parte esprime qualsivoglia contenuto come universale, in quanto non dispone di nessun criterio per discriminare le determinazioni, finendo così per essere eterodiretta122.

Secondo l’andamento dell’argomentazione hegeliana si profila dunque un passo avanti centrale: se infatti ogni determinatezza è ugualmente legittimata a essere stabilita come norma, ciò che deve essere prescritto risulta del tutto indeterminato; con ciò però diventa chiaro che il contenuto, qualunque esso sia, resta in ogni caso particolare e non universale. In questo modo la distanza con l’empirismo si riduce, poiché in entrambi i casi avviene un’illegittima universalizzazione di un particolare a scapito dell’intero, a causa di un rapporto di separazione-opposizione-giustapposizione tra forma e contenuto, nel quale una determinazione empirica viene riconosciuta in maniera ingiustificata come necessaria: mentre l’empirismo si trincerava dietro la differenza, l’assolutizzazione dell’identità da parte del formalismo si rovescia in un’analoga separazione, nella misura in cui, questo, incapace di sussumere l’empirico, sostiene un’universalità vuota e priva di contenuto per poi essere costretta ad affermare una qualsiasi determinazione. In tal modo si delinea allora una concezione secondo la quale l’Assoluto non è né solo differenza, né mera identità, bensì identità dell’identità e della differenza e si riconosce allo stesso tempo il comune denominatore dell’empirismo e del formalismo costituito dall’essere entrambi filosofie della riflessione.

Dal momento che l'infinitezza kantiana si limita all'astrazione della forma e alla negazione della pluralità, perde la sua vocazione assoluta e si riduce a qualcosa di parziale che comporta l'affermazione della scissione tra io empirico e io noumenico e tra natura e etica, cosicché si presenta da una parte un “pensare vuoto”, “universalità interamente separata dalla particolarità” e dall'altra “un regno di empiria senza unità e di molteplicità puramente contingente”: il principio dell'idealismo infatti, ponendo l'identità distinta e

121 Ivi, p. 456; tr. it., p. 40.

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opposta alla differenza, si uniforma al pensiero unilaterale della riflessione in quanto opera secondo quell'astrazione che implica il dominio di uno dei termini della contrapposizione, in modo tale che l'infinito è negazione della particolarità ed è positiva solo formalmente123. Se l'empirismo veniva criticato per l'incapacità di astrarre dalla molteplicità e dall'esperienza e per un procedimento orientato a partire dall'a posteriori, il formalismo kantiano pecca invece di un eccesso di attaccamento ad un a priori secondo il quale il rapporto con la dimensione empirica viene inteso solo nei termini di un dover essere. In questo modo dunque anche il formalismo si contraddistingue per un'inversione, in quanto l'esito cui conduce contraddice le sue stesse premesse e l'unità della ragion pratica resta affetta da una differenza, dal momento che l'infinità viene compresa quale altro dal finito, come nelle filosofie che procedono per separazione e opposizione: se dunque la ragion pratica resta ancora una modalità di pensiero intellettualistica, secondo la tesi che intende l'infinito come il negativo astratto del finito, e quindi come negazione del molteplice, la concezione hegeliana presenta un processo di autonegazione del finito, per cui l'Assoluto è contemporaneamente identità e, in quanto differenza, manifestazione di se stesso nella molteplicità fenomenica. Un elemento centrale in relazione alla presa di distanza di Hegel dal formalismo concerne il rapporto che esso instaura con la natura, in quanto il dualismo kantiano si sostiene a partire dalla separazione tra natura e libertà. Mentre infatti le leggi pratiche universali prescrivono il motivo determinante della volontà esclusivamente secondo la forma, esse prescindono dal mondo dei sensi e sono completamente indipendenti dalla legge naturale, poiché solo così la volontà può essere autonoma; in tal modo si distinguono due ordini di realtà, quello naturale fenomenico e quello noumenico razionale, e solo quest'ultimo ammette la possibilità della libertà quale condizione della legge morale124. Ciò significa, secondo le parole di Hegel, che “quel molto irrazionale, come la natura è posta di contro alla ragione in quanto la pura unità, è irrazionale soltanto perché essa la natura è posta come astrazione priva di essenza del molto, mentre invece la ragione è posta come l'astrazione priva di essenza dell'uno”125.

Mentre l'empirismo, incapace di derivare un'unità positiva a partire dalle determinatezze naturali, si distingue in questa prospettiva per lo sforzo di pensare una modalità di relazione tra natura e società civile, seppur confusa e inadeguata come mostrano i concetti di legge naturale e stato di natura, il formalismo prende invece le mosse da una netta contrapposizione, secondo la quale la ragion pratica e di conseguenza l'ambito morale e giuridico si elevano al di sopra della natura. Tale tematica lascia

123 GuW, p. 405; tr. it., p. 227-230.

124 I. Kant, Critica della ragion pratica, op. cit., pp. 3-25 e 55-67. 125 Nr, p. 455; tr. it., p. 40.

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emergere ancora una volta la continuità che contraddistingue la riflessione presente nel

Saggio sul diritto naturale e i testi immediatamente precedenti, quali Differenza e Fede e sapere, tanto che in alcuni casi vengono riprese le stesse argomentazioni. Scrive infatti

Hegel che “la natura ha, in questo supremo punto di vista, il carattere dell'assoluta oggettività o della morte” così come “la ragione rimane nel punto di vista pratico nient'altro che la morta e mortificante regola dell'unità formale”126; mentre allora, proprio per il “completo annientamento della ragione ed il relativo giubilo dell'intelletto e della finitezza, che hanno decretato la propria assolutezza, la finitezza si presenta anche nella sua forma positiva, come la suprema astrazione della soggettività ossia della finitezza cosciente”, emergono tutti i problemi di un concetto di ragion pratica che, a partire da un principio vuoto in contrasto con la pienezza empirica, si faccia sistema127. In tale discorso il pensiero kantiano viene presentato in continuità con Fichte, che secondo Hegel radicalizza la posizione del filosofo di Königsberg: se l'Assoluto fichtiano è un soggetto- oggetto soggettivo, in quanto l'assoluta identità resta un'esigenza, è proprio nella relazione dell'io con la natura e nella deduzione della natura che si palesa lo scacco del progetto fichtiano. Infatti, sottolinea Hegel, “il punto di vista trascendentale e la ragione sono subordinati al punto di vista della mera riflessione e dell'intelletto, il quale è riuscito a fissare il razionale nella forma di un'idea in quanto assolutamente-opposto”, mentre “alla ragione non è rimasto altro che l'impotenza di un'esigenza che toglie se stessa e l'apparenza di una mediazione – intellettuale, però formale – della natura e della libertà nella semplice idea di togliere i contrasti, nell'idea dell'indipendenza dell'io e dell'assoluto esser- determinato della natura, la quale è posta come un elemento che deve essere negato, come elemento assolutamente dipendente” cosicché il carattere della natura “è quello di essere soggetto=oggetto...mera apparenza e la sua essenza diviene assoluta oggettività”128.

La divaricazione fra natura e ragione si riflette anche nella concezione del diritto, in quanto la ragion pratica prescrive imperativi che comandano o proibiscono, venendo così a formulare l'ambito delle leggi della libertà, che sono definite morali, distinte appunto dalle leggi della natura: Kant differenzia allora una dottrina della virtù e una dottrina del diritto, ovvero norme etiche e norme giuridiche e quindi separa l'ambito morale da quello legale, perché, se le azioni etiche “esigono di essere considerate esse stesse come principi determinanti delle azioni”, le azioni giuridiche sono tali “in quanto riguardano soltanto le

126 Diff, pp. 77 e 79; tr. it., pp. 62 e 64. 127 GuW, p. 321; tr. it., p. 154.

128 Diff, p. 77; tr. it., p. 62. Più in generale vedi p. 52 e ss.; tr. it., p. 41 e ss.. Vedi a tal proposito Lukács, op.

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azioni esterne e la loro conformità alla legge”129. Sulla scorta della distinzione tra concetto puro e casistica empirica, Kant elabora una teoria dei principi metafisici della dottrina del diritto, nella quale questo viene presentato come un sistema a priori distinto dalla sua applicazione specifica che trova il suo fondamento, come del resto anche la morale, nella libertà come libero arbitrio, il quale è indipendente dalle inclinazioni e dagli impulsi sensibili e sottoposto alla legge morale in quanto capace di determinarsi da sé130. Dal punto di vista morale, ciò che contraddistingue la ragion pratica come facoltà legislatrice deve essere individuato nell'imperativo categorico quale legge che comanda l'azione come necessaria, prescrivendo al soggetto di agire in conformità con esso: definito da Kant oggettivo in quanto è universalmente valido perché prescinde da quelle condizioni soggettive e accidentali che distinguono gli individui gli uni dagli altri e astrae dalla dimensione empirica e sensibile, esso è una regola permissiva o proibitiva che rende obbligatoria un'azione soggettivamente possibile131. Il nesso tra imperativo e interesse soggettivo si innesta allora nella massima, quale principio che contiene il motivo determinante della volontà, la quale deve uniformarsi alla legislazione universale. Tale massima è allora una legge pratica che si costituisce a partire da motivi soggettivi e che testimonia la libertà dell'individuo, come facoltà umana che è necessario ammettere anche a prescindere da una vera e propria dimostrazione: mentre l'imperativo categorico si riferisce immediatamente alla volontà, la massima chiama in causa l'arbitrio e costituisce il principio soggettivo dell'azione che l'individuo erige a propria regola, dal momento che l'imperativo categorico obbliga ad agire secondo una massima che possa valere anche come una legge universale132.

Dopo aver criticato il concetto di ragione poiché affetto dalla differenza e pertanto esautorato del suo potere normativo, nella misura in cui la sua capacità imperativa elude l'ambito fenomenico e la dimensione fisico-naturale, Hegel entra nel vivo

129 I. Kant, Metafisica dei Costumi, Utet, Torino 1995, pp. 393-404.

130 A partire dalla separazione fra ragione e natura si generano a cascata ulteriori divisioni, che coinvolgono

l'intera dimensione pratica e che si mostrano in maniera evidente nella distinzione tra etica e diritto, massima e imperativo e diritto e dovere. La ragion pratica si fonda sull'autonomia della volontà, che è libera nella misura in cui è indipendente da ogni materia, e si manifesta attraverso la formulazione di una legge che erige un'azione a dovere, resa pertanto necessaria e obbligatoria, in quanto costringe il soggetto ad uniformarvisi: mentre allora la legislazione morale pone l'agire come dovere, il quale a sua volta si distingue come impulso all'azione, preoccupandosi di determinare come si debba agire, la legislazione giuridica si limita a stabilire un dovere indipendentemente dall'impulso e stabilisce cosa si debba fare verificando l'accordo tra legge e azione a prescindere dai moventi del soggetto, cosicché i due ambiti si distinguono in relazione alla natura dell'obbligazione. Vedi I. Kant, Metafisica dei Costumi, cit., pp. 378-389 e 394-402.

131 Kant dichiara che «imperativo è regola caratterizzata mediante mediante un dovere esprimente la necessità

oggettiva dell'azione», vedi I. Kant, Critica della ragion pratica, cit., p. 37; vedi anche pp. 39-41 e Id., Die Metaphysik der Sitten, tr. it. Metafisica dei Costumi, in Id., Scritti politici, a cura di AA.VV., Utet, Torino 1995, p. 398.

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dell'argomentazione kantiana, occupandosi proprio dell'imperativo categorico. Il suo obiettivo è mostrare come la ragione concepita in questi termini sia in verità “una non identità dell'ideale e del reale”133, sottolineando innanzitutto la difficoltà di derivare da una nozione esclusivamente negativa un qualche sistema positivo, in quanto l'astrazione della legge e il concetto di dovere, inteso come negazione della particolarità, implicano che qualunque contenuto venga prescritto sia inevitabilmente tacciato di eteronomia. In questo senso dunque il filosofo di Stoccarda ribadisce che la filosofia kantiana entra in una spirale circolare in particolare nella formulazione del concetto di massima, dal momento che una legislazione morale che fornisca determinazioni concrete incorre in contraddizione, in quanto il suo carattere peculiare è proprio l'assenza di ogni materia positiva134. Riprendendo dunque da vicino l'argomentazione kantiana, Hegel mostra da un lato che la massima non può che restare una determinazione singolare e dall'altro che tale impostazione non permette di rispondere alla domanda relativa a “cos'è il diritto e il dovere”, perché essa richiede la ricerca di un contenuto, per definizione negato dalla ragione formale. Sostenere dunque che la massima implica che un contenuto della volontà può essere ammesso solo se universalizzabile, non contribuisce a definire quali siano i contenuti meritevoli di essere universalizzati. Sebbene Kant affermi che anche l'intelletto comune sia in grado di operare tale distinzione, è proprio sulla base dell'esempio che egli fornisce, ovvero il deposito, che Hegel mette a segno un ulteriore critica. Mentre la tesi kantiana mira a mostrare la contraddizione di una massima che ammetta che “ognuno può negar di avere un deposito, la cui consegna nessuno può provare”, dal momento che un “tale principio, come legge, distruggerebbe se stesso, perché farebbe sì che non vi sarebbe più nessun deposito”135, Hegel mette in evidenza che tale ragionamento non prescrive in alcun modo la necessità che vi sia un deposito, palesando come l'impostazione kantiana proceda ammettendo che sia indispensabile la proprietà per poi mostrare la contraddizione in cui si incorrerebbe qualora non vi fossero proprietà. In altre parole il ragionamento kantiano non dimostra la proprietà, ma la presuppone: se in questo modo la ragion pratica risulta tautologica in quanto sostiene che “la proprietà è proprietà”, ma non si occupa minimamente di spiegare le ragioni per le quali essa deve essere accettata, l'esempio del deposito nell'ottica hegeliana finisce per suggellare la tesi secondo la quale la legislazione

133 Nr, p. 456; tr. it., p. 40.

134Ivi, p. 460; tr. it., p. 44. Dichiara Hegel che «la natura della massima resta ciò che essa è, cioè una

determinatezza o una singolarità; e l'universalità che le è accordata per essere assunta nella forma è, quindi, una unità semplicemente analitica e se l'unità che le è accordata viene espressa puramente come ciò che essa è in una proposizione, la proposizione è una proposizione analitica e una tautologia», la quale si presenta come il vero prodotto della legislazione della ragion pratica pura, la quale «è assoluta astrazione da ogni materia della volontà» e dunque «da ogni contenuto».

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pratica non è in grado di distinguere tra determinatezze opposte, ovvero tra non proprietà e non proprietà136.

Ancora una volta la critica della filosofia kantiana è prima di tutto una discussione del procedimento che essa segue, allorché ciò che interessa Hegel è mettere in questione l'impostazione del formalismo, così come dell'empirismo, per stabilire se possono essere