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Capitolo V: Social Impact Bond (SIB)

5. Le critiche

La crisi economico-finanziaria del 2008 ha sicuramente favorito la crescita di entusiasmo intorno a questi nuovi strumenti della finanza che si presentano innovativi per struttura, obiettivi e attori coinvolti. L’idea su cui si fonda la struttura di un SIB risiede nella potenziale riduzione della spesa pubblica e la contestuale ottimizzazione del risultato sociale a fronte di un programma di intervento gestito generalmente da organizzazioni non profit (ONP).

Sicuramente essi presentano delle potenzialità notevoli, tuttavia non sono mancate riflessioni e critiche sui possibili risvolti che avrebbe una loro introduzione nei tradizionali sistemi di welfare.

A tal proposito un articolo interessante è stato pubblicato sul Journal of Poverty and Social Justice (2014) dall’eloquente titolo “Social impact bonds: a wolf in scheep’s clothing?”. In questo articolo gli autori mettono in guardia su tre possibili effetti dei SIB: i loro esiti potenziali; le conseguenze inattese per il Terzo Settore inglese e la loro governance; i SIB come la più recente manifestazione del cambiamento ideologico che il Terzo Settore inglese sta attraversando.

Il primo aspetto critico su cui si concentrano gli autori è la difficoltà di misurazione dell’impatto sociale. Sebbene ritengono apprezzabile il passaggio da strumenti orientati agli output per un determinato target a strumenti che mirano a risultati di più ampia portata e sostenibili, evidenziano come la non standardizzabilità delle misure d’impatto richiede di volta in volta la ricerca di nuovi indicatori. La difficoltà, inoltre, è relativa anche alla scelta del meccanismo con cui validare il raggiungimento di cambiamenti a fronte degli interventi implementati. Spesso si ricorrere, affermano gli autori, a un modello “meccanico” di causa- effetto che purtroppo risulta essere molto semplicistico non riuscendo a cogliere la complessità delle condizioni e dei contesti dei problemi sociali a cui i SIB si rivolgono. Risulta quindi impossibile determinare se il successo di un SIB sia legato all’intervento in sé per sé o ad altri servizi o condizioni esterne.

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Il secondo punto di riflessione riguarda le conseguenze inattese per il Terzo settore inglese e, possiamo aggiungere, per il Terzo settore in generale visto l’interesse globale sviluppatosi intorno ai SIB. La prima conseguenza inattesa secondo gli autori sarebbe la ricerca da parte delle organizzazione del non profit di progetti e interventi i cui risultati siano più facilmente misurabili, trascurando quelli più complessi ma allo stesso tempo più urgenti o essenziali. Non è più quindi la soddisfazione dei bisogni che determina la scelta degli interventi ma la possibilità di raggiungere o meno gli obiettivi.

La seconda conseguenza inattesa deriva dalla mancanza nel Regno Unito di una definizione a norma di legge del concetto di “impresa sociale”; e poiché le imprese sociali sono state indicate come principali candidate alla fornitura dei servizi nel contesto dei SIB, la lacuna normativa ha fatto sì che attori sia del pubblico che del privato si appropriassero dell’etichetta realizzando privatizzazioni e raggiungendo così i loro obiettivi di profitto.

Il rischio che si passi dalla priorità di raggiungere un impatto sociale a quello di raggiungere un ritorno economico è accresciuto ulteriormente dalla novità dello strumento nel contesto sociale: molte delle imprese sociali che compongono il terzo settore sono piccole e impreparate per gestire i progetti ad impatto sociale promossi con i SIB, pertanto questi vengono affidati a grandi multinazionali che lavorano in outsourcing. Ciò si traduce in una piccola nicchia di aziende che detengono un’ampia quota di mercato dei servizi pubblici che Social Enterprise UK ha descritto come forma di oligopolio. Per fronteggiare questo rischio, le piccole imprese sociali potrebbero decidere o di crescere o di fondersi, ma questo comporterebbe lo scostamento dalla mission e dalle comunità che originariamente avevano portato alla loro costituzione.

Un ulteriore problema legato all’implementazione dei SIB risiede nella delega necessaria che il governo opera per la fornitura dei servizi: anche nei progetti di pay- by-results era prevista la delega della fornitura ma se qui si innestava un rapporto diretto tra governo e fornitore, nel caso dei SIB la responsabilità del progetto è in capo a un intermediario che può scegliere il fornitore cui sarà appaltato la realizzazione dell’intervento. In tal modo il Governo non avrà più nessuna responsabilità in merito alla fornitura dei servizi, ma allo stesso tempo ciò favorirà un’asimmetria informativa a vantaggio dei fornitori e l’impossibilità per il Governo di monitorare e influenzare la fornitura o intervenire in caso di illeciti.

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Il rischio quindi è che quello che è stato pensato come uno strumento innovativo per sopperire alle difficoltà del settore pubblico nell’offrire prestazioni sociali adeguate, uno strumento di promozione del terzo settore, dell’impatto sociale, di sviluppo e inclusione sociale, si trasformi nel raffinato tentativo di far diventare oggetto di speculazione quello che ancora del settore sociale restava estraneo alle dinamiche del mercato. Il rischio più grande di questa deriva è l’allontanamento del Terzo Settore dai principi e dalle caratteristiche distintive: i valori, l’impegno per la giustizia sociale, le relazioni con le comunità ecc.

Secondo gli autori la trasformazione del Terzo Settore in market è stata già avviata nel Regno Unito e i Sib rappresenterebbero soltanto l’ultima fase di questa tendenza che si sta diffondendo a livello internazionale, in particolare in tutti quei paesi che hanno accolto con favore il paradigma dell’impact investing: gli autori parlano di uno “slittamento ideologico” che crea una rottura con i principi che hanno portato alla nascita dei moderni sistemi di welfare.