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L’impresa sociale nel quadro della riforma

Capitolo V: Social Impact Bond (SIB)

7. Terzo Settore e finanza sociale

7.3. L’impresa sociale nel quadro della riforma

Per quanto riguarda la disciplina dell’impresa sociale le novità che la riforma dovrebbe introdurre rispetto all’attuale disciplina contenuta nel d.lgs. n. 155/2006 riguardano i requisiti per la qualifica di impresa sociale (lett. a). E’ stata introdotta la formula secondo la quale l’impresa sociale è tenuta a realizzare “impatti sociali positivi” attraverso la propria attività d’impresa. Non sembra tuttavia che questa formulazione possa essere foriera di significativi effetti sostanziali.

Secondo Fici (2015), questa nuova formula (se rimarrà) potrebbe dar luogo ad una contraddizione interna alla disciplina, se si pensa che, nell’ordinamento giuridico italiano, a differenza che in altri (dove infatti formule di questo genere, come il community interest test inglese, hanno più senso), l’impresa sociale è vincolata a svolgere la propria attività in certi settori di utilità sociale (e questo requisito è destinato a rimanere dopo la riforma, che anzi, come diremo tra breve, aggiunge “nuovi” settori ai “vecchi” di cui all’art. 2, comma 1, d.lgs. n. 155/2006). Da ciò sorge dunque una domanda: sarà sufficiente svolgere attività in quei settori affinché un ente possa essere

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considerato impresa sociale, oppure occorrerà che esso superi anche il test di impatto sociale positivo? Ma se così fosse, perché allora quei settori sono definiti “di utilità sociale”?

Mignone (2015) individua ulteriori novità rispetto alla disciplina dell’impresa sociale (art. 4):

 la definizione normativa dell’impresa sociale nei termini di un’impresa privata a finalità d’interesse generale, avente come proprio obiettivo primario il raggiungimento di impatti sociali positivi misurabili, realizzati mediante la produzione o lo scambio di beni o servizi di utilità sociale, utilizzando prioritariamente i propri utili per il conseguimento di obiettivi sociali, anche attraverso l’adozione di modelli di gestione responsabili e idonei ad assicurare il più ampio coinvolgimento dei dipendenti, degli utenti e di tutti i soggetti interessati alle sue attività (art. 4, lett. a);

 la revisione dell’attuale disciplina dell’attribuzione facoltativa della qualifica di impresa sociale e la sua attribuzione di diritto alle cooperative sociali ed ai loro consorzi (art. 4, lett. b);

 l’ampliamento dei settori di attività di utilità sociale nei quali l’impresa sociale può operare nonché, entro certi limiti di compatibilità, la possibilità di svolgere attività commerciali diverse da quelle di utilità sociale (art. 4, lett. c);

 la possibile remunerazione del capitale e la rimozione del divieto di distribuire gli utili nel rispetto di condizioni e limiti prefissati (art. 4, lett. d);

 la possibilità per le imprese private e per le amministrazioni pubbliche di assumere cariche sociali negli organi di amministrazione delle imprese sociali, salvo il divieto di assumerne la direzione e il controllo (art. 4, lett. f).

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Conclusione

La crisi economico-finanziaria del 2008 ha colpito, anche se in misura diversa, tutti i Paesi europei costringendoli a una revisione della spesa pubblica a fronte di una contrazione dei bilanci. Ovviamente tale contrazione della spesa non ha risparmiato i sistemi di protezione sociale, innescando anzi un circolo vizioso per cui a una riduzione dell’offerta di servizi si registra un aumento in termini sia di numeri che di gravità della domanda sociale. Bisogna comunque ricordare che la progressiva riduzione del ruolo dell’azione pubblica nei sistemi di welfare aveva avuto inizio tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80 (Ferrera 1984), ma a quel tempo era stata in buona parte compensata dall’azione del Terzo Settore e della filantropia privata (Santillo 2013). Adesso però, sebbene il Terzo Settore continui a crescere, l’ulteriore riduzione dei finanziamenti pubblici da un lato e di stabili attività filantropiche in ambito volontaristico dall’altro, impediscono l’implementazione e l’espansione di validi progetti sociali a carattere preventivo.

Presa coscienza del fatto che le politiche di ricalibratura e tagli avviate già dagli anni ’80 (Ferrera, Hemerijck, and Rhodes 2003) non costituiscono la giusta via per uscire dalla crisi, i Governi europei hanno iniziato a ricercare soluzioni innovative. Innovazione è diventata difatti la parola chiave delle politiche comunitarie attraverso cui perseguire l’obiettivo della crescita sostenibile e della coesione e inclusione sociale (Commissione Europea 2010). Per raggiungere tali obiettivi, il concetto deve però trovare nuove declinazioni rispetto al passato: l’innovazione non è più solo tecnologica o scientifica, ma anche sociale cioè in grado di apportare cambiamenti positivi nella società, migliorando la qualità di vita delle persone. L’idea condivisa è che l’innovazione sociale si sostanzi in azioni in grado di affrontare o risolvere gravi problemi socio-ambientali e che settori diversi dell’attività umana possono contribuire a realizzarla (LEED 2000; Phills, Deiglmeier, and Miller 2008), non solo le organizzazioni del terzo settore o gli altri attori tradizionalmente impegnati nel sociale, ma anche settore economico, politico e tecnologico. È questa consapevolezza che ha portato negli ultimi anni allo sviluppo di nuovi strumenti della finanza sociale rientranti nell’ambito dell’impact finance.

Le ragioni per cui l’impact finance può essere considerata espressione di innovazione sociale possono essere ricondotte alla:

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 capacità di sopperire al gap tra risorse disponibili e risorse necessarie ricorrendo a capitali privati per il finanziamento della spesa per servizi sociali;

 possibilità di finanziare interventi preventivi riducendo i costi che comporterebbe un intervento ex-post, cioè quando i bisogni e le vulnerabilità si sono già manifestate. Questo genererebbe inoltre un risparmio di spesa per la Pubblica Amministrazione;

 produzione di un rendimento misto cioè di impatto sociale e ritorno economico (Social Finance UK 2014; Del Giudice 2015).

Poiché il finanziamento riguarda progetti preventivi e ad impatto, diventa centrale la misurabilità degli esisti dell’intervento. Il tema è al centro del dibattito internazionale e sebbene ancora non ci sia un’univoca definizione d’impatto e di valutazione d’impatto così come non c’è condivisione sulle metriche da utilizzare nelle valutazione dei progetti, il ricorso ad una rigorosa metodologia di valutazione effettuata da soggetti terzi e quindi indipendenti, si ritiene possa apportare grossi vantaggi:

 orientando l’allocazione delle risorse verso progetti più innovativi ed efficienti;

 incentivando i fornitori dei servizi a migliorare l’efficacia e la qualità delle prestazioni;

 garantendo maggiore trasparenza sugli impegni di spesa pubblica (Fondazione Cariplo 2013; Del Giudice 2015)

l’Italia purtroppo non vanta ancora sperimentazioni nell’ambito dell’impact finance a causa dell’iniziale diffidenza culturale, soprattutto nell’ambito del Terzo Settore, e di alcuni vincoli posti dalle normative vigenti. In altri paesi invece, ad esempio la Gran Bretagna e gli Stati Uniti, sono state già avviate delle sperimentazioni che mostrano la possibilità di collaborazioni efficaci tra pubblico e privato (Randazzo and Taffari 2015).

Tra gli strumenti sperimentati i Social Impact Bond costituiscono il prodotto più evoluto, anche se la loro diffusione è ancora molto limitata (Del Giudice 2015). Le potenzialità legate a questo strumento sono molteplici come è stato analizzato nel capitolo quinto: tutte le parti interessate ricevono vantaggi dal raggiungimento di impatti sociali positivi. Tuttavia non mancano le sfide da affrontare affinché si possa registrare una loro diffusione su ampia scala. Innanzitutto, le difficoltà legate alla misurazione dell’impatto sociale, in secondo luogo il rischio che le organizzazioni del terzo settore che potrebbero beneficiare di maggiori finanziamenti attraverso questi contratti, si

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impegnino nella realizzazione di interventi facilmente realizzabili e misurabili tralasciando quelli più urgenti e necessari poiché più complessi. Inoltre vi è il rischio che i social impact bond diventino uno strumento nelle mani di investitori privati e organizzazioni del Terzo settore per perseguire profitto economico. Il rischio è la trasformazione del settore sociale in ambito di speculazione, ma soprattutto la fine dei valori di solidarietà e giustizia sociale che starebbero alla base dell’agire delle organizzazioni di volontariato che si sono sviluppate per sopperire alle carenze dello Stato e del mercato (Mchugh and Sinclair 2014).

Altri ostacoli alla scalabilità di questi strumenti derivano dagli alti costi di transazione e implementazione; dall’asimmetria informativa fra i vari attori, che potrebbe costituire un deterrente per enti pubblici e investitori privati a sottoscrivere dei SIB; e infine dalla ripartizione non equa del rischio tra le parti del contratto (Fondazione Cariplo 2013).

Non bisogna però dimenticare le opportunità che si aprono per il futuro del modello sociale europeo dallo sviluppo di questi strumenti che potrebbero garantire la sopravvivenza dei sistemi di protezione sociale. Ricordiamo l’innovazione data dal reperimento delle risorse nel settore privato che è anche l’unico a correre il rischio finanziario di un eventuale fallimento dei progetti, mentre la pubblica amministrazione non solo non corre alcun rischio, ma in caso di successo otterrebbe un risparmio di spesa. Questo potrebbe portare a l’innescarsi di un circolo virtuoso dove i risparmi conseguiti dal successo di un intervento a carattere preventivo potrebbero essere reinvestiti per finanziare altri progetti simili (de Felice and Gurciullo 2014).

Infine non bisogna dimenticare che tali meccanismi richiedono una ridefinizione del ruolo degli attori della società e delle modalità di funzionamento dei sistemi di welfare. I sistemi di welfare state tradizionali si caratterizzano infatti per l’esistenza di un unico soggetto finanziatore ed erogatore di servizi e prestazioni, lo Stato; tale condizione è diventata ormai insostenibile al punto da non essere più sufficiente nemmeno il meccanismo della delega della fornitura dei servizi tramite appalti o convenzioni. In questa situazione dunque diventa necessario l’intervento di tutta la società: stato, terzo settore, privato sociale e cittadini in generale sono chiamati ad impegnarsi nella produzione del bene comune attraverso la formazione di partnership. Farà da guida il bisogno di appartenenza e partecipazione alla vita sociale e la credenza in un insieme di valori comuni che vanno tutelati attraverso il ricorso alla solidarietà e alla sussidiarietà, per favorire l’empowerment e il rispetto e la tutela dei diritti universali

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dell’uomo. La finanza sociale potrebbe costituire un’espressione della rivoluzione ideologica auspicata a livello locale e comunitario di passaggio da forme di government a forme di governance.

Certo si potrebbe obiettare che l’investimento privato nel settore sociale sia sostenuto solo dal desiderio da parte degli investitori di diversificare il proprio portafoglio e che l’unica molla sia il profitto, ma fino adesso non ci sono abbastanza treckrecord positivi che possano giustificare gli investimenti nell’impact finance né tantomeno agevolazioni, anzi una delle criticità che ha impedito la scalabilità di questi progetti è l’alto rischio che grava esclusivamente sugli investitori. Altra obiezione potrebbe essere la progressiva de-responsabilizzazione dello Stato fino alla sua scomparsa dal settore sociale, ma per come sono stati strutturati i nuovi strumenti della finanza ad impatto, questo non sarebbe possibile: si guardi ai Social impact bond per cui la Pubblica amministrazione è soggetto indispensabile per il funzionamento del meccanismo.

Infine vi è il rischio derivante dall’introduzione della logica di mercato nel Terzo Settore. È lecito considerare il rischio che questo comporta per la sopravvivenza dei valori di solidarietà, giustizia sociale e senso comunitario, ma non bisogna trascurare che gli interventi finanziati con i SIB dovranno rispondere a rigidi criteri di valutazione dell’impatto e che il finanziamento delle attività può avvenire a tanche per evitare speculazioni garantendo la qualità e l’efficacia delle prestazioni.

Negli ultimi anni anche in Italia è cresciuto l’interesse per l’impact finance (Social Impact Investment Task Force 2014), ciò è testimoniato dalla letteratura prodotta dalla comunità scientifica e da alcune proposte legislative (vedi la riforma del Terzo Settore). Ad esempio la proposta di riforma del Terzo Settore, soprattutto nella parte in cui consente alle imprese sociali la distribuzione degli utili nel rispetto di condizioni e limiti prefissati dalla legge costituisce uno dei passi decisivi a livello normativo verso lo sviluppo del settore della finanza sociale in Italia (Lepri 2014). Sicuramente l’introduzione di questi strumenti nel nostro ordinamento non sarà esente da ostacoli e conseguenze, ogni innovazione del resto si caratterizza per un margine di incertezza; essi non costituiranno la panacea ai bisogni che affliggono le comunità, ma se si vuole iniziare ad arginarli è necessario percorrere nuove vie e quello dell’impact finance sembra molto promettente. Consapevoli che il percorso non sarà lineare e probabilmente non si otterranno subito tutti i benefici senza qualche risvolto negativo,

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non bisogna rinunciare alla sperimentazione che anzi può aprire le porte a nuove opportunità e mostrare la via al miglioramento che passerà attraverso riforme legislative ma soprattutto culturali. Nel contempo però non bisogna smettere d’interrogarsi sulle cause che hanno portato all’attuale situazione di crisi dei sistemi di welfare piuttosto bisogna continuare a lavorare per la modernizzazione del modello sociale affinché sia sostenibile e abilitante ma allo stesso tempo in grado di rispondere alla domanda di sicurezza e protezione sociale che ne ha ispirato le origini.

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