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SOCIAL IMPACT BOND: UN'OPPORTUNITA' PER SUPERARE LA CRISI DEI SISTEMI DI WELFARE?

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Academic year: 2021

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UNIVERSITÁ DEGLI STUDI DI PISA

Dipartimento di Scienze Politiche

CORSO DI LAUREA MAGISTRALE IN SOCIOLOGIA E POLITICHE SOCIALI

Social Impact Bond: un’opportunità per superare la

crisi dei Sistemi di Welfare?

RELATORE

Prof. Gabriele Tomei

CANDIDATA

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Indice

Introduzione ... 3

Capitolo I: Nascita ed evoluzione dei sistemi di Welfare State... 7

1. Cenni storici sul welfare state ... 7

2. Modelli teorici di welfare state a confronto ... 12

2.1. Tipologie di welfare secondo la prospettiva di Titmuss ... 13

2.2. Le tipologie di welfare state secondo la prospettiva di Esping-Andersen ... 13

2.3. I modelli di solidarietà e il modello sud-europeo di Maurizio Ferrera ... 15

3. Caratteristiche del welfare state italiano ... 16

4. La crisi del welfare e le soluzioni dei paesi dell’Europa Occidentale ... 19

5. Verso la creazione di un’ “Europa Sociale” ... 19

Capitolo II: Oltre il welfare: tra individualismo e ricerca di nuove forme di socialità ... 23

1. La società postmoderna ... 23

2. La rivalutazione della dimensione sociale come risposta alla crisi ... 25

3. Oltre il neoliberismo: nuove proposte di ristrutturazione del welfare ... 26

4. L’approccio all’Investimento Sociale ... 27

4.1. La Terza Via ... 30

4.2. Le politiche di investimento sociale e lo stato di implementazione ... 32

4.3. Le critiche all’approccio del social investment ... 34

5. Oltre la Terza via verso una Big Society ... 36

5.1. Le critiche alla Big Society ... 39

5.2. Il collasso della Big Society ... 42

5.3. Il dibattito sulla Big Society e la posizione dell’Italia ... 42

6. La necessità di ripartire “dal basso” per superare la crisi economica e sociale . 44 7. La proposta di Rosanvallon per superare la crisi del sistema democratico e rifondare una società di eguali ... 45

8. Il ruolo delle reti comunitarie e dei civic entrepreneurs nella prospettiva di Goldsmith ... 47

Capitolo III: Social Innovation. Strategia di sviluppo economico e coesione sociale ... 49

1. La riscoperta della Social Innovation a partire dagli anni ‘90 ... 50

2. Caratteristiche e complessità semantica del concetto di innovazione sociale .. 51

2.1. Alcune definizioni ... 52

2.2. Tre approcci alla social innovation: la tassonomia di Andrea Bassi ... 53

3. Innovazione sociale come azione collettiva ... 55

4. Innovazione sociale e politiche sociali ... 56

4.1. L’Office of social innovation and civic participation (SICP). ... 56

4.2. Unione Europea e innovazione sociale ... 58

5. Innovazione e investimenti sociali ... 61

Capitolo IV: Finanza alternativa: l’impact investing ... 64

1. La finanza sociale ... 64

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3. Finanza sociale e innovazione sociale ... 65

4. Social impact investing: definizione ... 66

5. L’impact investing: un fenomeno in crescita ... 67

6. I soggetti dell’impact investing ... 69

7. Gli strumenti dell’impact investing ... 71

8. Social return o impatto sociale ... 72

9. Impact Evaluetion ... 73

10. Impact investing: potenzialità e vincoli allo sviluppo ... 78

10.1. Potenzialità ... 79

10.2. Vincoli allo sviluppo ... 79

10.3. Superare gli ostacoli: possibili azioni ... 80

Capitolo V: Social Impact Bond (SIB) ... 82

1. Definizione e funzionamento ... 82

2. Potenzialità e limiti allo sviluppo dei SIB ... 85

2.1. I vantaggi derivanti dai SIB ... 85

2.2. Le problematiche connesse all’implementazione ... 86

2.3. La questione dei rischi ... 87

3. La misurazione dell’impatto ... 89

4. Alcune sperimentazioni ... 92

4.1. Il SIB della prigione di Peterborough ... 92

4.2. Il caso di Rikers Island ... 93

5. Le critiche ... 94

6. Introduzione dei SIB nel contesto italiano ... 96

6.1. Problematiche di natura legale: La normativa sugli appalti pubblici ... 96

6.2. La disciplina della finanza pubblica ... 98

6.3. Problemi di ordine organizzativo e culturale ... 99

7. Terzo Settore e finanza sociale ... 100

7.1. Cos’è l’impresa sociale ... 101

7.2. La riforma del Terzo settore ... 102

7.3. L’impresa sociale nel quadro della riforma ... 105

Conclusione ... 107

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Introduzione

È da più di un trentennio ormai che a livello nazionale e internazionale si è aperto il dibattito intorno alla crisi dei sistemi di welfare state. Con tale espressione ci si riferisce alle difficoltà che i sistemi di protezione sociale europei si trovarono a dover affrontare a partire dalla seconda metà degli anni ’70 quando una serie di cambiamenti in ambito politico, economico e demografico, dovuti alla transizione post-fordista, hanno messo in luce le carenze e le inadeguatezze dei sistemi di welfare nel rispondere ai nuovi bisogni sociali (Ferrera 1984). In quegli anni, infatti, la spesa sociale cresceva a livelli superiori al Pil poiché impegnata a finanziare in maniera generosa prestazioni per eventi (come il ritiro dal lavoro) che non generavano più condizioni di bisogno, trascurando invece nuove situazioni di rischio (ad esempio anziani non autosufficienti o madri sole) (Zoli 2004).

La crisi economico-finanziaria che dal 2008 ha investito tutti i paesi a capitalismo maturo ha compromesso ulteriormente la sostenibilità economica dei sistemi di welfare europei e la loro capacità di far fronte alle nuove sfide sociali (Canale 2013).

Così nel corso degli anni ’70 i sistemi di welfare keynesiani furono sottoposti a profonde critiche e un diverso paradigma iniziò a farsi strada divenendo in breve tempo dominante: il neoliberismo. La prospettiva neoliberista ispirò le riforme adottate dai policy-makers in quegli anni nell’ambito dei sistemi di protezione sociale e del mercato del lavoro europei orientandole, sostanzialmente, alla strategia del containment and retrechment (Palier 2008; Bertin 2012).

Tuttavia, a metà degli anni ’90 i paesi dell’Europa continentale si trovarono in una nuova situazione di recessione economica e difficoltà politiche causate dagli infruttuosi tentativi di ridimensionamento della spesa pubblica; in tale contesto iniziarono ad emergere nuove idee sul ruolo delle politiche sociali e la loro relazione con l’economia, queste idee possono essere ricondotte ad un approccio che si poneva come alternativo sia al keynesismo che al neoliberismo: si tratta del social investment approach (Morel, Palier, and Palme 2013).

Il paradigma del social investment racchiude un insieme di politiche volte a promuovere contemporaneamente sia competitività ed efficienza economica che giustizia sociale, promuovendo e rafforzando le competenze dei cittadini (capitale

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umano) per permettere loro di partecipare alla vita lavorativa e sociale. Diversi Paesi e organizzazioni internazionali hanno sostenuto e accolto l’ideologia dell’investimento sociale e anche l’Unione Europea l’ha assunta come principio guida in numerosi trattati sebbene la sua implementazione risulta ancora molto limitata.

Inoltre, la prospettiva dell’investimento sociale s’inserisce nel dibattito sviluppatosi negli ultimi anni a livello europeo circa la necessità di innovare i sistemi di welfare ridimensionando il ruolo dello Stato e prevedendo forme di governance pubblico-private. Si sta facendo strada, infatti, l’idea che allargando la partecipazione alla fornitura di servizi e prestazioni sociali anche ai soggetti del privato e del Terzo Settore sarà possibile superare il divario, divenuto ancora più profondo negli ultimi anni, tra le disponibilità dei bilanci pubblici e la domanda di prestazioni sociali.

Nel tentativo di trovare soluzioni innovative s’inserisce anche la sperimentazione negli ultimi anni di strumenti appartenenti alla cosiddetta “finanza sociale” o “social impact investment”.

La finanza ad impatto sociale rientra a pieno titolo in quell’idea di innovazione promossa e ricercata a livello europeo: essa si distingue dalle tradizionali forme d’investimento per il fine perseguito che non si identifica solo nel raggiungimento di un rendimento finanziario ma anche e soprattutto nella creazione di impatto sociale, cioè di soluzioni concrete a gravi problemi sociali promuovendo allo stesso tempo lo sviluppo economico, creando lavoro e migliorando la qualità di vita delle persone (Centro Studi Lang 2014)

La finanza ad impatto sociale è nata e si è sviluppata nei mercati anglosassoni (Regno Unito, Stati Uniti, Australia e Canada). Diversi sono gli strumenti rientranti nel complesso e variegato nonché nuovo settore del Social Impact Investment. In questa sede si è deciso di analizzare criticamente solo uno degli strumenti di impact investing, il Social Impact Bond: si tratta di un innovativo strumento finanziario ha generato un forte interesse a livello internazionale assumendo un posto di rilievo nell’ambito della finanza ad impatto.

Il lavoro si propone di analizzare la struttura, il funzionamento, le potenzialità e i limiti dei social impact bond per verificare i vantaggi e le sfide connesse alla loro implementazione e l’opportunità che essa offrirebbe nel processo di modernizzazione

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dei sistemi di welfare per garantirne la sostenibilità senza sacrificare i valori e i principi che li caratterizzano fin dalle origini.

Il lavoro è strutturato come segue. Il primo capitolo ripercorre la storia dei sistemi di welfare state dalle origini fino ai giorni nostri attraverso le diverse fasi di sviluppo e di riforme; analizza la progressiva diversificazione dei sistemi di protezione sociale rispetto ai differenti contesti territoriali e culturali; approfondisce le caratteristiche che il welfare ha assunto nel nostro paese (Ferrera, Fargion, and Jessoula 2012) e le soluzioni pensate a livello comunitario nel tentativo di creare un modello sociale Europeo in grado di affrontare le sfide sociali del presente e del futuro (Commissione Europea 2010; Commissione Europea 2013).

Nel secondo capitolo si presentano i tratti della società contemporanea, la società post-moderna, tra individualismo e ricerca di nuove forme di socialità (Maffesoli 2004; Arvidsson and Giordano 2013; Fabris 2008). La rivalutazione della dimensione sociale è anche la via individuata da politologi, sociologi ed economisti per superare la crisi economica e sociale del nostro tempo. Il capitolo riporta brevemente alcune proposte politiche e il pensiero di autori contemporanei che hanno individuato nella nascita di nuove forme comunitarie la risposta alla crisi non solo economica ma prima di tutto sociale (Anthony Giddens 1999; Touraine 2012; Goldsmith 2010).

Nel terzo capitolo viene trattato il tema della social innovation. Ne vengono riportate le caratteristiche e se ne mette in luce la complessità concettuale, infine si analizza la centralità che il concetto ha assunto nell’ambito delle politiche sociali soprattutto in ambito comunitario dove, a partire dalla strategia di Lisbona prima e dalla Strategia Europa 2020 dopo, è stata assunta come la principale via per perseguire la modernizzazione del modello sociale europeo e realizzare gli obiettivi di una crescita economica sostenibile e di inclusione sociale (Consiglio Europeo di Lisbona 2002; Commissione Europea 2010).

Nel quarto capitolo si introduce il tema centrale del lavoro di tesi attraverso la definizione di finanza sociale e finanza ad impatto sociale; si passano in rassegna le caratteristiche, gli strumenti e gli attori coinvolti nel suo funzionamento nonché le dimensioni del fenomeno. Poiché il fine dell’impact finance è la produzione di un rendimento non solo economico ma anche sociale, risulta essenziale la valutazione dell’impatto degli interventi finanziati tramite tali strumenti. Pertanto, dopo aver chiarito

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cosa s’intende per impatto e valutazione d’impatto, si riportano brevemente le principali metriche elaborate e in uso presso la comunità scientifica (Stern et al. 2012; Magna 2014; Fondazione Cariplo 2013).

Infine, nell’ultimo capitolo si passa ad analizzare l’oggetto del presente lavoro: il Social Impact Bond (Hughes and Scherer 2014; Fondazione Cariplo 2013; Del Giudice 2015). Oltre al funzionamento e agli attori coinvolti nella sua realizzazione si riportano i vantaggi e i rischi ad esso connessi nonché le problematiche che ancora ne limitano la diffusione Si presentano poi i vincoli di natura giuridica e culturale che la realizzazione di tali strumenti trova nel nostro Paese. Per concludere si riportano i punti salienti delle Legge Delega di Riforma del Terzo Settore presentata dal Governo e al momento sottoposta all’esame del Senato per individuare le misure che favorirebbero lo sviluppo del settore dell’impact finance in Italia (Mancini, Menegatti, and Ranieri 2014; Mignone 2015; Randazzo and Taffari 2015).

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Capitolo I: Nascita ed evoluzione dei sistemi di Welfare State

1. Cenni storici sul welfare state

Con il termine Welfare state o Stato del benessere ci si riferisce genericamente a un’insieme di politiche pubbliche finalizzate alla promozione della sicurezza e del benessere sociale ed economico dei cittadini. Citando la definizione del politologo Maurizio Ferrera “il welfare state è un insieme di interventi pubblici connessi al processo di modernizzazione, i quali forniscono protezione sotto forma di assistenza, assicurazione o sicurezza sociale, introducendo specifici diritti sociali nel caso di eventi prestabiliti nonché specifici doveri di contribuzione finanziaria” (Ferrera 1993, p. 49).

Tralasciando la questione definitoria tentiamo di ricostruire la storia di questa istituzione sociale dalla nascita sino ai giorni nostri.

La nascita del welfare state, così come lo intendiamo oggi, viene generalmente collocata tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, più precisamente in un periodo che va dal 1885 al 1920. Essa coinciderebbe con l’introduzione da parte dei governi europei delle assicurazioni sociali obbligatorie contro la vecchiaia, l’invalidità, la malattia, la disoccupazione, cioè contro quelli che costituivano i maggiori rischi della vita dei lavoratori.

Nonostante la sua nascita venga collocata in un periodo relativamente recente (il XIX secolo per l’appunto), il moderno welfare state s’inserisce in Europa sulla scia delle misure di assistenza ai poveri (poor relief), sviluppatesi in tutti gli stati a partire dal XVI secolo (Ferrera 1984). Un esempio emblematico è costituito dall’Inghilterra elisabettiana e dalle sue leggi sui poveri (le poor laws) a carattere assistenziale - repressivo (Ferrera 1984). L’assistenza ai poveri si basava, infatti, su interventi occasionali, residuali e discrezionali; chi accedeva a questi aiuti, considerati “elargizioni”, era considerato immeritevole ed era emarginato politicamente e socialmente; infine, l’erogazione dell’assistenza avveniva secondo modalità istituzionali indifferenziate e su base prevalentemente locale.

Alla fine dell’Ottocento una serie di fattori accelerarono la nascita di un sistema di tutela che offriva prestazioni standardizzate, fondate su precisi diritti individuali e su base prevalentemente nazionale. Tali fattori possono essere individuati nella rapida

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espansione della classe operaia, nell’acuirsi del conflitto di classe e nelle rivendicazioni di partecipazione politica da parte delle masse di lavoratori con la minaccia che questo comportava per le élite di governo.

Tra il 1880-90 furono pertanto introdotte nella Germania bismarckiana le prime assicurazioni obbligatorie. Subito dopo, l’esempio tedesco fu seguito da Austria, Norvegia, Finlandia e Italia. Gli altri paesi preferirono la linea della gradualità, introducendo dapprima forme assicurative su base volontaria che vennero trasformate in obbligatorie nei primi due decenni del XX secolo.

Il sistema di welfare state delle origini è stato definito, per le ragioni esposte sopra, sistema fordista per il suo carattere occupazionale. Esso si rivolgeva, infatti, a determinate categorie di lavoratori dipendenti: la classe operaia. Non a caso il primo schema assicurativo introdotto fu quello contro gli infortuni per tre ordini di motivi. In primo luogo, esso era il meno distante dai principi liberali; secondo, lo sviluppo dell’industrializzazione aveva portato a una crescita degli infortuni al punto da trasformare il fenomeno in un grave problema sociale; infine, era lo schema assicurativo meno contrastato dai partiti socialisti: il loro costo, del resto, gravava in primo luogo sulle parti sociali in quanto finanziate per via contributiva (Ferrera 1984).

Successivamente, la copertura assicurativa obbligatoria venne estesa al settore della malattia e della vecchiaia/invalidità. Infine venne introdotto il quarto schema assicurativo contro la disoccupazione (Ferrera 1984).

Se entro lo scoppio del primo conflitto mondiale (fase cosiddetta di sperimentazione: dal 1870 al 1914) si completò l’introduzione dell’assicurazione obbligatoria in tutti i paesi europei (Heclo 1981 in Flora and Heidenheimer 1983), negli anni tra le due guerre molti di questi paesi estesero le forme di tutela ricomprese negli schemi assicurativi esistenti (ne è un esempio l’introduzione dell’assegno familiare la cui titolarità è in capo al lavoratore, ma beneficiari ne sono i familiari) e ne crearono di nuovi. Questa è la cosiddetta fase di consolidamento (Heclo 1981 in Flora and Heidenheimer 1983) del welfare state.

È però nel secondo periodo postbellico che i sistemi di welfare state europei conoscono maggiore sviluppo, è questa la cosiddetta fase di espansione (Heclo 1981 in Flora and Heidenheimer 1983).

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In quegli anni, infatti, inizia a diffondersi la dottrina della sicurezza sociale che si sostituisce progressivamente a quella di assicurazione sociale1. Il concetto, sebbene introdotto per la prima volta nel 1935 nel Social Security Act americano, trovò una chiara concettualizzazione nel rapporto Beveridge del 1942 che introdusse e definì i concetti di sanità pubblica e pensione sociale per i cittadini.

Le proposte contenute nel rapporto Beveridge trovarono attuazione in Inghilterra nel 1945 e in Svezia dove fu introdotta, prima che in qualsiasi altro paese, la pensione popolare fondata sul diritto di nascita, nel 1948. Il welfare divenne così universale ed eguagliò i diritti civili e politici acquisiti appunto dalla nascita.

Nei trent’anni successivi al secondo dopoguerra si assistette a una progressiva istituzionalizzazione ed a un’estensione e miglioramento dei sistemi di protezione sociale nella maggior parte dei paesi europei. Ciò fu possibile grazie all’elevata crescita economica registratasi negli anni della ricostruzione. L’aumento del dividendo fiscale si accompagnò dunque ad un aumento della spesa sociale.

E se negli anni ’50-’60 lo sviluppo del welfare avvenne all’insegna della continuità, mantenendo cioè un sistema di prestazioni sociali a carattere paternalistico e categoriale, le riforme attuate negli anni ’70 avviarono un processo di trasformazione del sistema di Welfare italiano in senso «ugualitario-universalistico» (Morlicchio and Pugliese 1985, p. 21).

Purtroppo la spesa sociale cresceva a livelli superiori alla crescita del PIL così che, proprio sul finire del decennio, si assistette in corrispondenza del rallentamento della crescita economica ad un aumento del deficit e del debito pubblico.

Il fattore di criticità può essere sinteticamente rintracciato nel passaggio alla fase post-industriale e post-fordista della società.

1 «Rispetto all’assicurazione sociale, la sicurezza sociale presenta due fondamentali differenze:

fornisce protezione a tutti i cittadini, e non solo ai membri degli schemi assicurativi occupazionali (universalità della copertura); le sue prestazioni corrispondono a un “minimo nazionale” ritenuto indispensabile per condurre una vita dignitosa e sono perciò largamente indipendenti dai contributi assicurativi versati» (Briggs 1961 in Ferrera 1984, p. 26).

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Nella seconda metà degli anni ‘70 il verificarsi del primo conflitto arabo-israeliano provocò l’aumento del prezzo del petrolio e delle materie prime generando una crisi economica che, unitamente a una serie di cambiamenti demografici, provocò in tutti i paesi europei un mutamento dei bisogni sociali e una crescita della domanda di servizi e prestazioni.

A livello demografico un’incidenza significativa ebbe il progressivo processo d’invecchiamento della popolazione determinato dal calo delle natalità e dall’allungamento della speranza di vita. L’invecchiamento demografico ha generato un’espansione della domanda di prestazioni in campo previdenziale, sanitario e dei servizi sociali con conseguente aumento della pressione finanziaria sui sistemi pensionistici e sanitari.

Il cambiamento ha investito anche le famiglie: si assiste in quegli anni alla cosiddetta diversificazione (Paci 2005) con il diffondersi di nuove forme familiari che si sostituirono alla tradizionale famiglia nucleare caratterizzata da stabilità e in grado di svolgere un ruolo protettivo e di cura. Ciò, unitamente alla crescita dei tassi di partecipazione femminile nel mercato del lavoro, determinò un aumento della domanda di servizi di assistenza e cura per i figli, i disabili e gli anziani.

Infine, un ruolo cruciale lo ebbero i mutamenti in ambito economico. La transizione al modello di produzione post-fordista, il diffondersi di forme di occupazione atipiche e flessibili, la globalizzazione, l’innovazione tecnologica e la terziarizzazione dei mercati del lavoro determinarono una crescita dei tassi di disoccupazione (Zoli 2004). Ciò provocò, come inevitabile conseguenza, l’aumento di nuove forme di tutela per nuove forme contrattuali nonché l’attivazione di misure di sostegno al reddito.

Tali cambiamenti influenzarono le scelte compiute a partire dagli anni ottanta dai policy-makers: furono pensate una serie di riforme all’insegna della riduzione della spesa pubblica e della spesa sociale e in alcuni paesi addirittura si assistette a un ritiro dello Stato, come nel caso dell’America di Regan o dell’Inghilterra dei governi Thatcher.

In una ricerca collettiva avviata alla fine del 2005 (Palier 2008), comparando le traiettorie di riforma dei cosiddetti “sistemi di welfare bismarkiani”, sono stati individuati

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quattro tappe principali nel processo di cambiamento dei sistemi di welfare dell’Europa continentale attuate nel corso degli ultimi 30 anni.

1. Nella prima fase di riforme, successiva alle crisi economiche degli anni ’70 e ’80, i governi dell’Europa continentale hanno preferito un innalzamento dei contributi sociali piuttosto che il taglio delle prestazioni sociali. La spesa sociale poté continuare a crescere poiché bilanciata dall’incremento dei contributi sociali raccolti nei fondi di previdenza sociale. Le politiche sociali consistettero quindi nel preservare il lavoro e la protezione sociale dei maschi breadwinner2 più produttivi e nel rimuovere dal mercato del lavoro tutti i potenziali competitori; ciò comportò un aumento dei tassi di disoccupazione e un aumento della contribuzione sociale.

2. La seconda fase, avviata nei primi anni ’90, in condizione di recessione economica, consistette in un ridimensionamento della spesa sociale attuata attraverso una riduzione del livello di prestazioni e l’introduzione di prestazioni finanziate tramite la fiscalità generale. La negoziazione di suddette riforme con le parti sociali ha garantito un costo relativamente basso per gli insider3.

3. Nonostante le riforme attuate, non erano diminuite le difficoltà per i sistemi di welfare la cui spesa, a metà degli anni ’90, era divenuta ormai insostenibile. In una simile situazione ci si rese conto che il problema era connesso alle caratteristiche degli stessi sistemi per cui era necessario avviare una loro trasformazione attraverso riforme istituzionali che consentissero trasformazioni strutturali. Più precisamente sono state introdotte nuove prestazioni sociali o potenziate quelle marginali già esistenti (prestazioni forfetarie solitamente mirate, finanziate dalla fiscalità generale e gestite dallo Stato), sono state apportate modifiche nel sistema di finanziamento (meno

2 Breadwinner è un termine che individua un modello di sostentamento familiare sviluppatosi nel

corso dei secoli dove il peso economico e del sostentamento dell'intera comunità grava su di un solo membro(e dove eventualmente gli altri membri hanno mera funzione sussidiaria).

3 Gruppi contrapposti di lavoratori che differiscono per il potere contrattuale sui salari. Le loro

interazioni sono studiate nel modello i.-o., sviluppato nel 1984 con il contributo di A. Lindebeck e D.J. Snower. Si tratta di un modello di determinazione non competitiva del salario, che descrive una possibile causa di disoccupazione involontaria. Di fatto studia che cosa accade quando il sindacato non rappresenta la totalità dei lavoratori.

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contributi sociali e più fiscalità generale) e negli accordi di governance (indebolimento del ruolo delle parti sociali, privatizzazione).

4. L’ultima fase ha inizio con il nuovo millennio. In questa fase vengono attuate riforme strutturali che portano a una progressiva dualizzazione dei sistemi di welfare. Infatti si riducono le prestazioni di carattere universalistico e vengono individuati nuovi canali di protezione basati sui meccanismi di mercato in cui lo Stato mantiene il ruolo di regolatore. Tuttavia, sostengono gli autori, questa dualizzazione dei sistemi di welfare genera una dualizzazione nella popolazione, tra insider e outsider.

La lunga fase di riforma che ha avuto inizio negli anni ’90 ed è ancora in atto, caratterizzata da un’interdipendenza tra scelte espansive e migliorative e scelte restrittive e sottrattive, di introduzione di nuovi strumenti e coinvolgimento di nuovi attori e risorse, è stata definita da Ferrera fase di ricalibratura dei sistemi di welfare, e ha interessato sia l’aspetto funzionale, che l’aspetto distributivo delle politiche sociali (Ferrera, Fargion, and Jessoula 2012).

Tuttavia, nonostante le riforme attuate, gli interventi nel settore delle politiche sociali non furono sufficienti a creare dei sistemi di protezione sociale più sostenibili ed equilibrati, e la crisi economico-finanziaria del 2008 ha contribuito ad esacerbare vecchi rischi e bisogni e a crearne di nuovi mettendo in luce l’obsolescenza e l’incapacità dei sistemi di welfare state tradizionali a farvi fronte.

2. Modelli teorici di welfare state a confronto

Sebbene all’origine dei sistemi di welfare state europei si possono rintracciare fattori comuni (lo sviluppo economico connesso ai processi di industrializzazione e urbanizzazione, la mobilitazione politica della classe operaia e il processo di democratizzazione), col tempo i sistemi di protezione sociale occidentali hanno assunto configurazioni diverse sotto il profilo funzionale (la composizione del paniere dei rischi e bisogni coperti dal welfare pubblico) e distributivo (la copertura sociale del paniere) (Ferrera, Fargion, and Jessoula 2012).

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2.1. Tipologie di welfare secondo la prospettiva di Titmuss

Una prima classificazione storica dei diversi sistemi di welfare è quella proposta da Titmuss (1974) la cui tipologia si focalizza sul tipo di intervento e sul ruolo dello Stato nonché sui criteri di definizione degli aventi diritto.

In primo modello è quello cosiddetto “Residuale”: lo Stato interviene ex-post rispetto ai rischi, con forme assistenziali limitate nel tempo e solo quando i tradizionali sistemi di soddisfacimento dei bisogni (famiglia, reti parentali, mercato) non riescono a far fronte ai bisogni dell’individuo.

Il secondo modello, quello “Particolaristico - Meritocratico”, invece, si basa sul presupposto che ognuno provveda a soddisfare i propri bisogni attraverso il proprio lavoro, ovvero affronti le situazioni di bisogno grazie al versamento dei contributi che lo assicurano contro i rischi sociali (disoccupazione, malattia, infortuni, ecc.). Il grado di benessere cui un soggetto ha diritto dipende dalla sua posizione nel mercato del lavoro, quindi dal merito, dalla performance lavorativa e dalla produttività. Le prestazioni di welfare si configurano quindi come forme di integrazione al reddito e di correttivo dell’azione del mercato.

Se nei modelli finora analizzati il sistema di welfare ha un ruolo marginale o aggiuntivo rispetto al mercato, nel terzo modello, quello “Istituzionale - Redistributivo”, il sistema di Welfare assume carattere costitutivo nella società. Lo Stato adotta criteri universalistici nell’erogazione dei servizi, questi vengono organizzati e gestiti in riferimento ai bisogni dell’intera popolazione e l’accesso è basato sulla sola residenza e non sul versamento di contributi o sul pagamento dei servizi. Il modello istituzionale interviene nella fase a monte dei processi distributivi ovvero prima che le situazioni di bisogno si manifestino. Ciò implica che gli interventi sociali assumano un carattere prevalentemente preventivo piuttosto che assistenziale.

2.2. Le tipologie di welfare state secondo la prospettiva di Esping-Andersen

Un’ulteriore classificazione è quella proposta dal sociologo danese Gøsta Esping-Andersen (1990). In quest’opera l’autore spiega “perché” si sono formati determinati modelli di welfare, arrivando a individuare tre regimi ideali di welfare: quello liberale (associato ai paesi anglosassoni: USA, Canada, Gran Bretagna, Australia e Nuova Zelanda), quello conservatore o corporativo (rilevabile nell’Europa continentale:

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Austria, Belgio, Francia, Germania e Lussemburgo) e quello socialdemocratico (tipico dei paesi scandinavi). Esping-Andersen utilizza come criterio di classificazione i differenti modi in cui l’offerta di benefici è divisa fra Stato, mercato e famiglie.

Il regime “liberale”, caratterizzato dall’egemonia sociale della borghesia imprenditoriale e la predominanza dei valori liberali imperniati sull’iniziativa individuale e l’etica del lavoro, offre prestazioni la cui erogazione, fatta eccezione per la sanità (erogata su base universale) è subordinata alla prova dei mezzi (means testing). Un ruolo importante è svolto dalle politiche attive del lavoro e da schemi che condizionano l’accesso ai benefici al possesso di un’occupazione regolare. Le modalità di finanziamento sono miste, in quanto, mentre la sanità è interamente fiscalizzata, le prestazioni in denaro sono generalmente finanziate tramite i contributi sociali.

Il secondo regime, quello conservatore (o corporativo), comprende i paesi dell’Europa continentale (Austria, Belgio, Francia, Germania e Lussemburgo): questo modello risente ancora dell’originaria ispirazione bismarckiana, che prevede uno stretto collegamento tra le prestazioni sociali e la posizione lavorativa degli individui; ha adottato fin dalle origini un’impostazione fortemente assicurativa, imperniata sulla figura del lavoratore maschio capofamiglia (male breadwinner).

Infine il terzo regime, quello “socialdemocratico”, comprende i paesi scandinavi (Finlandia, Danimarca e Svezia) e l’Olanda (il cui sistema di welfare ha però delle specificità assimilabili anche al modello continentale). Questi paesi hanno una spesa per la politica sociale e per le politiche del lavoro molto elevata, infatti, nel regime socialdemocratico la protezione sociale è considerata un diritto di cittadinanza; le prestazioni hanno copertura universale e consistono in benefici in somma fissa, erogati automaticamente al verificarsi dei vari rischi. In aggiunta a questa base di tutela universalistica, i lavoratori occupati ricevono prestazioni integrative, tramite schemi professionali obbligatori altamente inclusivi. Le prestazioni assicurative contro la disoccupazione e le politiche attive sul mercato del lavoro rivestono un ruolo essenziale. La principale forma di finanziamento della sicurezza sociale è rappresentata dal gettito fiscale, sebbene siano stati compiuti, a partire dalla metà degli anni ’90, alcuni passi per estendere il ruolo dei contributi sociali obbligatori.

Secondo Esping-Andersen i tre regimi si dispongono di un continuum relativo alla capacità di demercificazione: ossia la misura in cui i sistemi di welfare attenuano la

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dipendenza del cittadino/lavoratore dal mercato al verificarsi di determinati rischi (disoccupazione, malattia e vecchiaia) (Ferrera 1993).

Restano esclusi dalla classificazione di Esping-Andersen i paesi dell’Europa meridionale vale a dire Grecia, Italia, Portogallo e Spagna

2.3. I modelli di solidarietà e il modello sud-europeo di Maurizio Ferrera

Il criterio della demercificazione utilizzato da Esping-Andersen per costruire i tre modelli a cui ricondurre la maggior parte dei paesi dell’Ocse non convince Ferrera (1993). Secondo il politologo, infatti, il concetto di demercificazione è «assai carico di valore» (Ferrera 1993, p. 71) cioè fondato su un giudizio negativo nei confronti del mercato come meccanismo di regolazione sociale; questa connotazione negativa insita nel criterio di discriminazione inficia quello che dovrebbe essere esclusivamente un lavoro descrittivo.

In secondo luogo, pur sottoponendolo a una riformulazione, il concetto di demercificazione è molto complesso «per poter essere operazionalizzato in modo semplice ed univoco e generare così una tipologia stabile, anche se non definitiva» (Ferrera 1993, p. 72): la concettualizzazione di Esping-Andersen è molto limitativa in quanto tiene conto delle prestazioni offerte dai sistemi di welfare a garanzia del reddito solo in relazione a tre principali tipologie di rischi.

Infine, rileva Ferrera, l’uso del criterio della demercificazione suggerisce l’idea che le configurazioni di welfare sono frutto di rapporti di poteri tra classi (tra borghesia e classe operaia), tuttavia, osserva l’autore, altri lavori comparativi hanno messo in luce come la lotta di classe sia uno ma non l’unico fattore che ha determinato la genesi e l’evoluzione dei sistemi di protezione sociale.

Pertanto, M. Ferrera sviluppa un’ulteriore modellistica dei sistemi di welfare che si distingue da quelle elaborate in precedenza dagli altri autori per il fatto di utilizzare come criterio classificatorio la dimensione qualitativa, “chi è protetto”, piuttosto che quantitativa, “quanto si protegge”.

Sulla base di tale criterio, Ferrera distingue due modelli di solidarietà (Ferrera 1993): quello occupazionale o bismarkiano e quello universalistico. Il primo modello, più diffuso in Europa, si basa sul principio contributivo – assicurativo che considera le

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vulnerabilità come rischi rispetto ai quali bisogna assicurarsi. Il secondo modello, universalistico o beveridgiano, è finanziato dalla fiscalità generale oltre che dai contributi e assicura una protezione universale.

All’interno dei modelli di copertura occupazionali e universalistici è poi possibile distinguere i tipi puri e quelli misti, in quanto i primi sono rimasti fedeli al modello originario mentre i secondi se ne sono distaccati. La tipologia proposta si articola quindi in quattro modelli: occupazionali puri (Francia, Belgio, Germania, Austria), occupazionali misti (Svizzera, Italia, Olanda e Irlanda), universalistici misti (Gran Bretagna e Canada) e universalistici puri (Svezia, Norvegia, Danimarca e Finlandia).

Successivamente Ferrera (1996) ha sostenuto la necessità di considerare separatamente i paesi dell’Europa meridionale che, per le loro caratteristiche, costituirebbero un ulteriore modello di welfare.

L'autore individua alcune specificità del modello che possono essere raggruppate in tre aree. La prima riguarda i meccanismi di garanzia del reddito centrati sui trasferimenti monetari e il carattere dualistico delle forme di protezione. Il forte divario fra prestazioni “forti” (riservate ai lavoratori attivi nei settori centrali dell’economia) e prestazioni “deboli” (riservate ai lavoratori attivi nei settori periferici dell’economia), determina un «iper-garantismo selettivo» (Ferrera 1996, p. 75) peculiare dei welfare del Sud. La seconda area riguarda il settore della sanità che è caratterizzato da un approccio chiaramente universalistico e dalla presenza di peculiari mix pubblico-privato. L'ultima area riguarda invece il carattere particolaristico e clientelare del modello di welfare sud europeo. Le peculiarità di questi sistemi di welfare vengono qui spiegate sulla base di alcune variabili politico-istituzionali che riguardano principalmente la debolezza delle istituzioni statuali, che hanno favorito la diffusione di meccanismi clientelari, e la competizione interpartitica, che ha invece favorito il mantenimento della frammentazione corporativa nei sistemi di garanzia del reddito.

3. Caratteristiche del welfare state italiano

L’Italia fu una delle prime nazioni che dopo l’esempio tedesco introdusse forme di legislazione sociale. Tuttavia, l’evoluzione storica del sistema di protezione sociale in Italia risulta tutt’altro che lineare. La storia ne mette in luce successi ma anche debolezze se non veri propri fallimenti.

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Come sostiene il politologo Maurizio Ferrera (Ferrera, Fargion, and Jessoula 2012) il welfare state italiano si caratterizza per una doppia distorsione: funzionale e strutturale.

In particolare ciò che da sempre contraddistingue il sistema italiano non è tanto il livello di spesa pubblica, che risulta essere nella media degli altri paesi europei, ma la ripartizione della spesa che, già a partire dal dopoguerra, risulta fortemente sbilanciata a favore dei programmi pensionistici, mentre scarso è l’investimento di risorse destinate alle altre due voci della sicurezza sociale (assistenza e sanità). Questa costituisce quella che Ferrera definisce distorsione funzionale.

La seconda distorsione, strutturale o distributiva, è strettamente connessa all’estensione delle fasce e delle categorie di rischi e bisogni tutelati: il sistema pensionistico è ancorato al sistema occupazionale e si configura di tipo categoriale. L’inclusione del soggetto nel sistema di protezione dipende dunque dalla posizione passata e presente di quest’ultimo all’interno del mercato del lavoro (Ferrera, Fargion, and Jessoula 2012).

Le distorsioni di cui sopra presero avvio negli anni cinquanta e si svilupparono nei due decenni successivi per raggiungere poi l’apice tra la fine degli anni ’80 e gli anni ’90. Le scelte dei policy mekers, fin dagli anni d’oro del welfare, furono indubbiamente condizionate dal contesto socio-economico, culturale e politico. Del resto, già nei primi decenni del Novecento, e in particolare durante il regime fascista, la politica sociale in Italia si configura come strumento utilizzato dalle forze politiche per raccogliere il consenso delle classi medie e piccolo borghesi e per garantirsi il controllo e la stabilità politica. Durante questo periodo vennero poste le basi di un welfare «particolaristico - clientelare» che si sarebbe sviluppato e intensificato nel dopoguerra (Ascoli 1984; Paci 1984 in Ferrera 1984).

A partire dalla metà degli anni settanta tutti i paesi europei sono stati attraversati da profondi mutamenti in ambito sociale, economico, politico e culturale e la crisi economico-finanziaria che dal 2008 ha colpito i Paesi occidentali ha contribuito ad esacerbare vecchi rischi e bisogni sociali.

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Gli elementi di criticità che contraddistinguono i paesi più colpiti dalla crisi e quindi anche l’Italia sono l’elevata spesa pubblica, la pesante pressione fiscale e un alto debito pubblico.

Per rispondere alle sfide poste dalle trasformazioni in atto, a partire dagli anni ’80 tutti i paesi europei hanno avviato riforme basate sostanzialmente sul processo di ricalibratura della rilevanza assegnata ai bisogni rispetto ai quali organizzare il sistema di welfare.

In Italia le sfide poste dall’intensificarsi della complessità dei rischi e dei bisogni sociali furono in parte contenute dal familismo: le famiglie italiane assunsero compiti di cura e assistenza nei confronti dei propri componenti per quei bisogni che il settore pubblico non riusciva a soddisfare. Tuttavia, già negli anni ’80 il sistema politico italiano, consapevole della necessità di rinnovamento strutturale, inserisce nell’agenda politica misure per il riadattamento del welfare. La svolta si ha però negli anni ’90 quando vengono attuate riforme definite da Ferrera (2012) di taglio “sottrattivo” nel settore delle pensioni e di taglio “additivo” invece nel settore della disoccupazione, della famiglia e dell’assistenza.

Ma è nel 1997 che viene compiuto il più significativo tentativo di individuare le riforme necessarie al nostro sistema di welfare espresse nella Relazione finale della Commissione per l’analisi delle compatibilità macroeconomiche della spesa sociale, nota anche come Commissione Onofri istituita dal Governo Prodi.

Per raggiungere l’obiettivo del riequilibrio del sistema di welfare italiano la commissione individua le riforme da compiere nella ricomposizione della struttura della spesa (meno pensioni, più assistenza e più ammortizzatori) e nell’adozione del principio dell’universalismo selettivo che poteva realizzarsi solo dopo l’individuazione di nuovi strumenti di valutazione della condizione economica. Infine si sottolinea la necessità di ampliare l’area della spesa per servizi rispetto a quella dei trasferimenti monetari.

La Commissione, inoltre, riconosce la necessità di garantire maggiore tutela alle categorie sociali più deboli attraverso l’introduzione del Reddito Minimo d’Inserimento e un programma di spesa di assicurazione sociale contro la non autosufficienza delle persone anziane.

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A partire dalla Commissione Onofri sono stati realizzati molti cambiamenti, almeno sulla carta considerando il fatto che il cambiamento, dopo due decenni di riforme, è stato alquanto modesto: la spesa sociale è ancora sbilanciata verso il settore pensionistico, quella per minori e famiglie è cresciuta di pochi punti percentuali mentre invariata è rimasta quella per gli ammortizzatori sociali.

Dopo la crisi economico finanziaria del 2008 la necessità di ricalibrare il sistema si è fatta sentire con tutta la sua urgenza, ma nonostante le misure correttive adottate (Patto di stabilità, riforma Fornero ecc.) il divario tra spesa pubblica e bisogni continua a crescere. Di fronte a questo stato di cose già da alcuni anni si è iniziato a pensare a misure di rinnovamento.

4.

La crisi del welfare e le soluzioni dei paesi dell’Europa Occidentale

In risposta alla “crisi del welfare State” gli Stati dell’Europa occidentale avviarono una serie di

«… processi che possono essere ricondotti: i) alla ri-calibratura della rilevanza assegnata ai bisogni rispetto ai quali organizzare il sistema di welfare; ii) alla ri-mercificazione caratterizzata dallo sviluppo di risposte ai bisogni legate al ruolo della persona nel mercato del lavoro; iii) ai processi di rescaling (Kazepov 2009) che collocano i sistemi di welfare nei più generali processi di cambiamento sociale indotti dalla globalizzazione e dalla contemporanea localizzazione dei sistemi socio-economici; iv) alle dinamiche di de-mercificazione che propongono una rivisitazione del senso e delle relazioni sottese ai processi di risposta al disagio sociale.» (Bertin 2012, pp. 32-33)

Tuttavia, gli esiti di suddetti processi non sono stati ovunque gli stessi a causa di una serie di fattori storico- politici e culturali dei singoli contesti territoriali che condussero ad una diversificazione dei sistemi di protezione sociale tra gli Stati e all’interno degli stessi, così che in alcuni di essi le politiche sociali non impediscono a talune categorie della popolazione di cadere nella povertà e nell'esclusione sociale o di subire disoccupazione di lunga durata. Ciononostante sono rintracciabili anche elementi comuni quali la progressiva ridefinizione del ruolo dello Stato e la presenza nel sistema di diversi attori che agiscono in autonomia.

5.

Verso la creazione di un’ “Europa Sociale”

La capacità dei paesi del Vecchio Continente di rispondere alle sfide sociali presenti e future è stata compromessa ancor di più dalla crisi economica e finanziaria del 2008.

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Nonostante un siffatto contesto, l’Unione Europea, attraverso la Commissione, ha avviato nell’ultimo decennio il processo di costruzione della cosiddetta “Europa sociale”, fondata sui principi della crescita sostenibile e dell’inclusione sociale. L’obbiettivo era l’ammodernamento dei diversi sistemi di welfare nazionali da realizzare attraverso processi di policy learning.

Si possono individuare le tappe fondamentali di questo processo. La prima tappa verso l’armonizzazione e la convergenza delle politiche sociali europee è costituita dalla Strategia di Lisbona (Consiglio Europeo di Lisbona 2000): approvata dai Capi di Stato e di Governo dell'Unione europea, essa costituiva un programma di riforme economiche il cui obiettivo dichiarato era quello di fare dell'Unione la più competitiva e dinamica economia della conoscenza entro il 2010.

Alla base della Strategia vi era l’idea che l’ammodernamento del sistema di protezione sociale dovesse avvenire senza rinunciare al modello sociale europeo, ma attraverso un approccio attivo volto a uno sviluppo economico e sociale sostenibile in grado di far fronte alle sfide della competizione globale. Per raggiungere un simile traguardo, un ruolo cruciale veniva riconosciuto all’Innovazione, anche se solo nella sua dimensione scientifica e tecnologica.

Con la strategia Europa 2020 (Commissione Europea 2010) l’innovazione si connota di nuove dimensioni come quella sociale e politica. Proprio l’innovazione sostenibile diventerà uno dei principali strumenti per perseguire una serie di obiettivi economici e sociali, nell’ambito delle sette “iniziative faro” della strategia Europa 2020.

La nuova strategia conferma il consolidamento, a livello europeo, di una idea di welfare “abilitante” fondato sulla cooperazione e la partnership tra istituzioni e cittadini, sindacati ed imprese al fine di sperimentare nuovi processi e servizi in grado di rispondere in modo più efficiente ed efficace ai bisogni.

Il concetto d’innovazione sociale risulta quindi strettamente legato al processo di modernizzazione del modello sociale europeo.

Nel contesto della ricerca di soluzioni innovative si inseriscono gli strumenti di social investiment sviluppatesi negli ultimi anni.

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È ormai opinione condivisa, infatti, che in una situazione di forte pressione dei bilanci degli stati, alti tassi di disoccupazione, scarsa crescita e alto debito pubblico la via per la ristrutturazione dei sistemi sociali europei non può non passare che per l’adozione di nuovi strumenti e investimenti sociali e nuove forme di collaborazione e cooperazione tra pubblico e privato. In particolare sembra essenziale il coinvolgimento di soggetti economici e sociali che si affianchino al settore pubblico per la creazione e l’erogazione di servizi e prestazioni più efficaci ed efficienti. Il rinnovamento dei sistemi di welfare richiede, pertanto, la ridefinizione del ruolo dello Stato, non più unico soggetto responsabile del benessere della società, e il passaggio dalla goverment a modelli di governance basati sull’esistenza di reti multi-stakeolder.

Un’importante spinta in questa direzione l’ha data la Commissione europea che il 20 febbraio 2013 ha adottato il suo “Social Investment Package” (SIP)(European Commission 2013a). Esso costituisce il principale contributo della Direzione Generale per l’Impiego agli obiettivi di inclusione sociale di Europa 2020. I piani per la sua attuazione sono stati discussi alla conferenza Sip di Leuven il 2 e 3 maggio 2013. Il Sip ambisce a un miglior coordinamento e rafforzamento dei fondi Ue per la crescita inclusiva, per fornire un uso combinato di quello che è chiamato Esi (European Structural Funds and Investment Funds)(Commissione Europea 2013). Esso non prevede, dunque, lo stanziamento di nuove risorse, e conta prevalentemente sugli Stati membri per finanziare gli investimenti sociali.

Nella comunicazione della Commissione sugli investimenti sociali, si prende atto del fatto che la modernizzazione delle politiche sociali dovrebbe avvenire attraverso un uso più mirato delle risorse, un ricorso intelligente ai principi di universalità e selettività, lo sviluppo del capitale umano e servizi in grado di coprire i bisogni che caratterizzano ogni fase del ciclo di vita.

Gli obiettivi del SIP proposto dalla Commissione sono:

 L’ottimizzazione dell’efficacia, dell’efficienza e delle modalità di finanziamento dei sistemi di welfare al fine di renderli più sostenibili.

 L’inclusione attiva dei cittadini di tutte le classi sociali, sia nei servizi che nelle istituzioni.

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Dopo anni di politiche di austerità ci si è resi conto della necessità di guardare al welfare da una nuova prospettiva. L’investimento in esso non deve essere visto come uno svuotamento dei bilanci, un investimento a perdere, ma come un potenziamento delle capacità degli individui e un sostegno alla crescita e allo sviluppo economico. La spesa sociale intesa come investimento nel capitale umano porta al passaggio da forme di assistenzialismo a forme di assistenza. Per realizzare tali obiettivi è necessario però lo sforzo di tutti gli attori: pubblico, privato, Terzo Settore e società civile sono chiamati a cooperare mettendo insieme le risorse di cui dispongono costituendo essi stessi delle risorse.

In questo cambio di prospettiva consiste l’Innovazione di cui tanto si sente parlare negli ultimi anni; essa si potrà realizzare solo attraverso il ricorso a nuovi strumenti e nuove partnership. Nei capitoli che seguono si proverà ad analizzare la capacità dei Social Impact Bonds di costituire una valida risposta alla sfida che i sistemi di welfare sono chiamati ad affrontare.

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Capitolo II: Oltre il welfare: tra individualismo e ricerca di nuove forme

di socialità

1. La società postmoderna

Profondi cambiamenti hanno investito la società negli ultimi trent’anni. La società attuale caratterizzata dalla rivoluzione digitale, dalla globalizzazione e dai media è stata definita società postmoderna.

Il termine post moderno, largamente in uso a partire dagli anni Sessanta, non si presta a una chiara definizione, tuttavia è possibile identificare alcuni tratti distintivi della società post moderna il cui sviluppo viene genericamente fatto coincidere con l’inizio dell’era postindustriale. Infatti, essa segna per alcuni versi lo sviluppo e il dispiegarsi di fenomeni che hanno avuto origine nella società moderna e per altri versi una netta rottura e presa di distanza dai principi che l’hanno animata.

Lyotard definisce il postmodernismo come "incredulità nei confronti delle metanarrazioni" (Lyotard 2005, p. 5). In altre parole, si prende distanza dalle ideologie che hanno caratterizzato la modernità e crolla la fede nell’esistenza di valori universali e schemi interpretativi totalizzanti e unificanti; a tutto ciò si sostituisce la totale accettazione della caducità, della frammentazione, della discontinuità e del caos, della coesistenza di diverse visioni del mondo. Si rifiuta l’idea illuministica di progresso e razionalità assoluta e ci si pone con atteggiamento critico di fronte ai fondamenti teorici e pratici del sapere.

Riassume efficacemente i tratti distintivi del postmoderno Giampaolo Fabbris indentificandoli ne:

«il rifiuto delle ideologie totalizzanti, il pluralismo, il relativismo, il pensiero debole, l’olismo, l’incredulità, l’apparenza, lo spettacolo, il disincanto, l’ironia, il gioco, il sincretismo, l’ossimoro, il flusso, la superficie, la citazione, il collage, il recupero selettivo del passato, la quotidianità, l’assenza di regole, la parodia, il polimorfismo/camaleontismo, il meticciato, il multiculturalismo, la presentificazione, l’irriverenza, la pluralità degli stili e dei linguaggi, le coordinate plurime» (Fabris 2008, p. 120).

La post modernità si accompagna al processo di differenzazione: si rifiuta l’omologazione e si difende l’identità anzi una molteplicità di identità poiché essa cambia in base al contesto spazio- temporale. Viviamo, in altre parole, in quella che

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Bauman ha definito società liquida sottoposta a continui cambiamenti e adattamenti in una dimensione spazio- tempo anch’essa non definita e fluida.

Si pone dunque, in un siffatto contesto, la questione del rapporto tra individuo e società. A prima vista si potrebbe immaginare che l’individuo si sia ripiegato verso la dimensione personale e che l’esito finale sia un un’evitabile dissoluzione del sociale e la scomparsa di un sistema valoriale in grado di guidare l’agire sociale. La post modernità sarebbe infatti caratterizzata da un estremo individualismo. Ma, come osserva A. Giddens (1999), il nuovo individualismo non va identificato con il sorgere di una generazione “io-centrica” caratterizzata da un processo di decadenza morale. Il sociologo Ulrich Beck parla di “individualismo istituzionalizzato”: “[…] La maggior parte dei diritti e delle prestazioni del welfare state sono previsti per gli individui piuttosto che per le famiglie. […] le persone sono invitate a costituire se stesse come individui: a pianificare, comprendere, progettare se stesse come individui.” (Ulrich Beck 1992 in Giddens 1999, p. 48).

Per il sociologo inglese l’individualismo, non identificandosi con l’egoismo, non costituisce pertanto una minaccia alla solidarietà. La solidarietà richiede però nuovi mezzi quali la responsabilità e il dovere reciproco per essere prodotta.

Non è infrequente, infatti, osservare la ricerca e la nascita di nuove forme di socialità espressione del bisogno di appartenenza e condivisione. Michel Maffesoli (Maffesoli 2004) ricorre all’espressione “tribù” per designare queste nuove forme di socialità. A differenza del passato, però, le tribù dell’era postmoderna o neotribù si presentano come effimere, non perseguono nessun obiettivo- economico, politico e sociale- in comune ma, come spiega Fabris (2008) configurano comunità tenute insieme dal desiderio di condivisione di emozioni, sentimenti, passioni che non hanno una radicazione sul territorio, sono transitorie, non chiedono un’adesione esclusiva ma tagliano trasversalmente tutto il sociale sub specie di forme sotterranee ma potenti di socialità per dare vita anche a forme di solidarietà capaci di produrre un idem sentire, un ethos.

Lo stare insieme dunque risponde non a scelte razionali ma emotive, alla base vi sono interessi comuni ma non di tipo economico.

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Lo sviluppo dell’informatica, delle tecnologie di informazione e comunicazione e in particolare le opportunità offerte dal Web 2.0 hanno permesso lo sviluppo esponenziale di queste nuove aggregazioni sociali. A tal proposito Castells (2009) parla di società in rete globale: sebbene, infatti, “le reti non sono appannaggio esclusivo delle società del XXI secolo, e nemmeno, in effetti dell’organizzazione umana” (Buchanan 2002 in Castells 2009, p. 15), tuttavia le reti virtuali sono globali, hanno cioè permesso di superare i limiti territoriali e istituzionali; in più si differenziano da quelle off line per la loro capacità di dare vita a una cultura partecipativa e ad un’intelligenza collettiva.

Ciò che differenzia l’attuale società rispetto a quella di epoca industriale non è pertanto la configurazione a rete, ma il sistema organizzativo non più di tipo verticale ma orizzontale. Le comunità rappresentano fondamentali luoghi sociali di discussione, negoziazione ed elaborazione collettiva, in cui ogni membro incita gli altri a reperire sempre nuove informazioni per il bene comune. Tutto ciò dipende dalle caratteristiche delle reti che, come si legge in Castells, cooperano e competono tra loro. La cooperazione è basata sulla capacità di comunicare tra reti, la competizione dipende dalla capacità che una rete ha di superare le altre grazie a una maggiore efficienza o capacità di cooperazione.

In sintesi, possiamo concludere che l’individualismo dell’era post moderna coesiste in maniera pacifica e nello stesso tempo si accompagna alla ricerca di forme di solidarietà e partecipazione a istanze di tipo collettivo.

2. La rivalutazione della dimensione sociale come risposta alla crisi

Quella in atto è una crisi economico- finanziaria, ma non solo: una delle conseguenze della globalizzazione e della stessa crisi è stato un logoramento dei legami interindividuali. Questa presa di coscienza ci porta alla conclusione che, per uscire dalla crisi che sta affliggendo la società del XXI secolo, risultano insufficienti gli interventi volti alla creazione di nuova disciplina finanziaria o ad un cambiamento nella politica pubblica, senza che questi siano accompagnati da interventi nel sociale e per il sociale. Si tratta di rivalutare le potenzialità dei singoli attori, non soltanto delle tradizionali istituzioni come lo Stato e il Mercato, che hanno mostrato pesanti segni di fallimento, ma dei cittadini. In altre parole è necessario promuovere una cittadinanza attiva, potenziare e valorizzare le capacità individuali e collettive di invenzione e

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reazione, di cooperazione e coesione sociale che si potrà raggiungere solo attraverso una rivoluzione nella sfera dei valori.

Negli ultimi anni diversi autori contemporanei hanno individuato nella nascita di nuove forme comunitarie la risposta alla crisi non solo economica ma prima di tutto sociale.

3. Oltre il neoliberismo: nuove proposte di ristrutturazione del welfare

Dopo la crisi del welfare keynesiano sviluppatasi a partire dalla metà degli anni Settanta si diffuse e si consolidò in tutti i paesi europei una nuova ideologia: il neoliberalismo. Suddetta corrente di pensiero, il cui sviluppo è stato definito a parabola (Ferrera 2013) con una fase d’ascesa negli anni Ottanta, una d’appiattimento intorno alla metà degli anni Novanta e una di discesa negli anni Duemila, ha segnato le trasformazioni dei sistemi di welfare europei negli ultimi tre decenni.

La concezione neoliberista si caratterizza per il rifiuto e la lotta al welfare state tradizionale considerato la causa di tutti i mali. Le critiche mosse al welfare state possono essere riassunte in eccesso di egualitarismo e tassazione e in un eccesso di burocratizzazione, paternalismo e controllo sociale. L’impostazione dei sistemi di welfare aveva generato inefficienza, atteggiamento deresponsabilizzante, assistenzialismo e passività. In altre parole il neoliberalismo concettualizza il welfare state e la spesa sociale pubblica come un “costo”.

Secondo questa corrente la soluzione per uscire dalla crisi andava ricercata invece nella libertà dei mercati che avrebbero dovuto essere lasciati liberi da ogni forma di regolazione. I trasferimenti statali a carattere universale generavano dipendenza nei beneficiari, in più il finanziamento della spesa sociale si era potuta realizzare in cambio di un incremento di tassazione. Gli effetti di un simile sistema sono stati basso sviluppo, disoccupazione, inflazione, una riduzione della libertà individuale, scarsa capacità d’iniziativa nei singoli, scarsa propensione al rischio e agli investimenti economici, livelli dei spesa pubblica ormai insostenibili. Per tale ragione i sostenitori del neoliberismo sostenevano la necessità di ridimensionare il ruolo dello Stato, riducendo le garanzie esistenti in materia di protezione sociale e rappresentanza degli interessi, in nome di un ruolo più rilevante del mercato, della famiglia e della comunità.

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L’ideologia neoliberista divenne dominante sotto i governi Regan e Thatcher e con toni più placati si diffuse negli altri paesi europei influenzandone le politiche anche a livello sovranazionale. Le riforme di quegli anni furono di tipo restrittivo, all’insegna del contenimento dei costi e dei tagli alla spesa pubblica.

Negli anni Novanta le politiche d’ispirazione neoliberista si ridimensionano: insieme agli obiettivi di efficienza e contenimento dei costi si cerca di perseguire quelli di equità, inclusione e coesione sociale. Infatti, a metà degli anni novanta, il moltiplicarsi dei problemi sociali (recessioni economiche, globalizzazione, invecchiamento demografico) fa crollare la fiducia nelle capacità del mercato di produrre benessere: è in questo periodo che si può collocare l’inizio della fase discendente del neoliberismo.

È per questo che negli ultimi anni l’esigenza di creare valore sociale accanto a quello economico ha visto lo sprigionarsi di nuove idee e nuovi approcci volti a ristrutturare e innovare i sistemi di welfare.

Sociologi, economisti e politologi hanno immaginato e teorizzato nuove forme societarie e di solidarietà. Ne sono un esempio la strategia dell’Investimento Sociale, l’idea di Societing teorizzata da G.P. Fabris e la Big Society di Phillip Blond che analizzeremo qui di seguito.

4.

L’approccio all’Investimento Sociale

Le origini dell’approccio all’investimento sociale si possono far risalire ai primi anni del welfare svedese socialdemocratico, ad opera di Alva e Gunnar Myrdal (Morel, Palier, and Palme 2013). Le loro idee si svilupparono sullo sfondo della Grande Depressione e di una grave crisi di fertilità a loro parere causata dalle difficoltà socio-economiche che le famiglie svedesi si trovarono a dover affrontare in seguito al processo di rapida industrializzazione e urbanizzazione propria di quegli anni. La loro proposta di politica sociale mirava, pertanto, a trovare soluzione non solo alla crisi demografica ma anche alla profonda crisi economica poiché senza crescita economica e produttività non si sarebbe potuta registrare una crescita della popolazione. La loro idea di riforma sociale prevedeva quindi la garanzia di sicurezza individuale e redistribuzione, ma anche l’organizzazione efficiente della produzione. Per indicare la comprensione della dimensione economica nelle politiche di sviluppo sociale Gunnar coniò l’espressione “politica produttiva sociale” (Morel, Palier, and Palme 2013, p. 1).

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L’approccio all’investimento sociale, così come teorizzato fin dalle origini, non rigetta del tutto né i principi della socialdemocrazia classica ispirati alla teoria economica keynesiana né quelli del neoliberismo riprendendo piuttosto aspetti dell’uno e dell’altro. Infatti cerca di promuovere contemporaneamente sia competitività ed efficienza economica che giustizia sociale.

Il keynesismo, diffusosi nei paesi dell’OCSE in seguito alla grave crisi economica degli anni Venti e rimasto dominante fino agli anni Settanta, aveva individuato la causa della lenta crescita economica e degli elevati livelli di disoccupazione nell’insufficienza della domanda e nelle fluttuazioni cicliche del capitalismo sfrenato (Morel, Palier, and Palme 2013). Secondo Keynes, pertanto, l’intervento dello Stato, sotto forma di politica monetaria e fiscale, era fondamentale ai fini della stabilizzazione dell’economia. Attraverso la spesa sociale lo Stato avrebbe potuto agire per stimolare l’economia nei momenti di crollo o per smorzare la crescita nei momenti di rapido sviluppo.

Il keynesismo condivide con l’approccio all’investimento sociale la fede nel fatto che politiche sociali e crescita economica si rafforzino reciprocamente. Tuttavia, mentre l’approccio all’investimento sociale si concentra sullo sviluppo del capitale umano e degli investimenti per il futuro, i keynesiani sono più concentrati sulle fluttuazioni anticicliche della domanda. Inoltre, mentre l’approccio all’investimento sociale sostiene la partecipazione femminile al mercato del lavoro e la parità di genere e si fonda sulla promozione del benessere e dei diritti sociali dei bambini, le politiche sociali e di occupazione improntate al keynesismo sostengono la famiglia tradizionale fondata sul capo famiglia maschio lavoratore mentre la donna è relegata nella dimensione domestica a svolgere un lavoro di cura non retribuito (Jenson 2012). Infine, le politiche keynesiane si preoccupano di garantire le opportunità lavorative e i diritti sociali degli uomini, mentre le donne e i bambini ne beneficiano solo in quanto appartenenti allo stesso nucleo familiare. Altro fattore che distingue le politiche keynesiane da quelle basate sull’approccio all’investimento sociale deriva dal carattere produttivo di quest’ultime orientate a generare rendimento non solo nel presente, sostenendo la domanda, ma anche nel futuro attraverso l’investimento nel capitale umano. Le politiche keynesiane, invece, si qualificavano come “passive” volte cioè a promuovere e sostenere la domanda attraverso lo sviluppo di programmi di

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trasferimento monetario sotto forma di assicurazioni sociali (Morel, Palier, and Palme 2013).

Dopo la crisi economica del 1974, le politiche economiche keynesiane furono sottoposte a una forte critica da parte dei sostenitori della teoria macroeconomica neoliberista. Essa sosteneva la necessità di ridimensionare il ruolo dello Stato, il cosiddetto “Stato Leggero”, lasciando al mercato il compito di regolare i processi di modernizzazione. Quindi auspicava una privatizzazione dei servizi pubblici in grado di garantire il raggiungimento di livelli più alti di efficienza, promuoveva la libertà e l’iniziativa individuale e individuava nel mercato la fonte del benessere. L’intervento dello Stato (forte tutela del lavoro, salari minimi alti, sussidi di disoccupazione generosi) era considerato un costo e causa di disoccupazione e lenta crescita economica. A differenza del keynesismo la disoccupazione per i neoliberisti non era un problema macroeconomico legato a una domanda insufficiente, ma un problema microeconomico di distorsione dei mercati. La prospettiva neoliberista sosteneva pertanto la necessità di ridurre l’intervento dello Stato in quanto costoso e inefficiente a favore di una redistribuzione delle responsabilità sociali fra tutti gli attori in gioco (compreso mercato, famiglia o associazioni comunitarie)(Morel, Palier, and Palme 2013).

Tuttavia a metà degli anni ’90, le contraddizioni del neoliberalismo e cioè l’incapacità di ridurre la spesa pubblica, la mancata riduzione dei tassi di povertà e l’aumento delle disuguaglianze hanno determinato la presa di distanza da questa ideologia sia da parte dei policy-making che degli organismi internazionali.

Così, alla fine dello stesso decennio, hanno cominciato ad emergere nuove idee sul ruolo e la forma delle politiche sociali. Queste idee, che si possono ricondurre alla prospettiva dell’investimento sociale, nate come critica al neoliberismo condividevano con esso l’idea della necessità di ridefinire il ruolo dello Stato con il passaggio dal concetto di Governo a quello di governance, in cui lo Stato si trova a collaborare con una rete di attori che appartengono al settore del pubblico, del privato, del volontariato e, infine, con gli stessi cittadini. Entrambe le prospettive sostengono la necessità di creare partnership che coinvolgano le comunità locali e le organizzazioni non governative sia nella progettazione di politiche che nell’erogazione di servizi. Infine, viene posta enfasi sulle capacità degli individui se adeguatamente supportate e sviluppate. Tuttavia, mentre nell’approccio neoliberista il mercato viene visto come la

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