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Da Vallepiatta al Futurismo Pensieri per Mario Verdone

Nel documento Mario Verdone. Lo sguardo oltre lo schermo (pagine 149-153)

Ci sono luoghi dove le persone ritornano ogni anno: allo stesso posto. Nelle sale della contrada. Ci sono pagine dove trovi i loro nomi: nei quotidiani, nei settimanali, nelle riviste o nei cataloghi delle case editrici; poi tutto cessa, come accade per tutti e come è accaduto per Mario Verdone, lo scrittore, il professore di cinema. Restano i libri, i manoscritti, i documenti, frammenti di un percorso intellettuale cominciato a Siena. E l’impulso a non disperdere le memorie si fa forte, a collocare i frammenti nei luoghi giusti, dove siano a disposizione di tutti. Ciò che ha avuto inizio a Siena, a Siena è venuto, nella Biblioteca comunale degli Intronati dove le curiosità del giovanissimo lettore e i primi approcci di studioso riemergono dalle firme nei registri dei lettori. Fu così che Luca Verdone, più assiduo di Carlo e Silvia nella casa di Vicolo del Pozzo, mi chiamò per dirmi di voler dare alla Biblioteca i documenti senesi di suo padre. È così che vanno le cose in questo mondo: coincidenze, corsi e ricorsi, strade aperte dalla memoria. In questo caso una selvaiola vicina alla scadenza di presidente della Biblioteca riceveva le carte di un grande selvaiolo e l’amicizia con Luca e con i suoi fratelli rafforzandosi cedeva il passo a scambi di confidenze, all’affiorare di frammenti di memoria, disordinati.

Tutto è incominciato in Vallepiatta, il cuore della Selva, anche le prime letture di Mario. In un quartiere abitato da artigiani, percorso da tutti quelli che gravitavano intorno alle cliniche dell’ospedale: medici, infermieri, operai, malati; dove i ragazzi giocavano per la strada correndo verso il Costone, l’oratorio fondato da monsignor Nazareno Orlandi. Qui Mario Verdone ha affrontato le prime letture e ha avuto i primi contatti con il teatro nel minuscolo teatrino che il monsignore aveva voluto insieme ai campi da gioco e la piscina. I rapporti di vicinato erano allora molto forti e quelli tra i Casini (la famiglia materna di Verdone) e i Sani – o meglio, tra le sorelle Casini: Assunta e Anna (Suntina e Annina) e le signore Sani (Annunziata e Augusta) – si sono mantenuti anche dopo la guerra e io li ricordo bene e oggi, rievocando quel mondo, senza nostalgia, ho capito come le donne siano sempre state le prime a tra- smettere gli elementi di base della cultura, anche a Siena, anche in Vallepiatta.

Di Mario Verdone parlava sempre con orgoglio la zia di mio padre: Annun- ziata Piazzesi Sani. Ricordava che Mario, ragazzo, seguiva la madre Assunta in

casa Sani, il villino «da capo al Costone», come si diceva una volta. Annunziata, per noi «la zia Nunziatina», ci parlava dell’intelligenza vivace del piccolo Mario e della sua voglia di leggere. La zia Nunziatina non aveva fatto grandi studi: in tutte le famiglie borghesi i maschi si laureavano e le femmine, anche se intelli- genti, dovevano studiare poco, occuparsi della casa, cucire, ricamare, suonare il pianoforte, leggere quei pochi libri che si trovavano in casa. Nunziatina leggeva, conosceva le piante, la farmacopea tradizionale, cercando di seguire il marito farmacista, e impressionava noi bambini perché proponeva cose curiose. Non stento a credere che il piccolo Verdone sia stato incuriosito dai racconti e dai libri che esistevano in casa Sani. La mamma di Mario, Assunta, nota a tutto il quartiere come «Suntina» – una donna strana, non lontana dalla caricatura resa celebre dal nipote Carlo –, dopo che Annunziata si era trasferita in un’altra città e Mario era ormai a Roma, aveva continuato a frequentare casa Sani. Andava dalla «sora Au- gusta», Augusta Giachetti Sani, che dopo la guerra era restata nel villino «da capo al Costone» a presidiare una casa e un giardino senza la cancellata che era stata «data alla patria», cioè requisita dal governo fascista in vista della guerra. La «sora Augusta» era mia nonna e anche lei era una lettrice. Tutti gli anni assisteva con orgoglioso interesse alla inaugurazione dell’anno accademico dell’Università, era giudice severa della predicazione quaresimale in duomo, apprezzava i bravi predi- catori, ma prima della guerra aveva seguito molto le stagioni teatrali e operistiche al Teatro della Lizza, come attesta la collezione di libretti d’opera e di locandine che ha lasciato, perfino locandine delle manifestazioni futuriste, e aveva seguito il botanico Nannizzi in un corso dell’Università popolare, non certo all’Università visto che mia nonna, femmina, si era dovuta fermare al ginnasio inferiore. Mentre la zia Nunziatina parlava molto del suo rapporto con Mario, la nonna Augusta manifestava molta simpatia per Suntina. Suntina abitava accanto all’«Otorino», cioè accanto alla Clinica Otorinolaringoiatrica; era povera e strana.

Io la ricordo bene. In certi pomeriggi invernali suonava al cancello del giar- dino: «Sora Augusta, posso venire?» «Vieni, Vieni», poi scendeva il vialetto col suo passo reso famoso da Carlo, si metteva in salotto e raccontava del suo Mario, di Carlo, di Luca e di Silvia e i racconti sulla sua famiglia romana si infarcivano di bizzarrie e fantasie che un po’ stupivano noi bambini che giocavamo lì a due passi, mentre la nonna ascoltava. Non avremmo mai pensato di ritrovare il fisico di Suntina, ma anche il suo umore, sullo schermo cinematografico in tutti i per- sonaggi portati in scena dal nipote Carlo, come se i geni avessero lasciato un’im- pronta sulla faccia di un Carlo, erede di quell’umore bizzarro e fantastico. Era un

mondo sui generis quello della Selva che persisteva anche dopo la guerra, povero, ma pieno di vitalità. Il «vicinato» era un mondo fatto non di tanti piccoli io inco- municabili, ma di persone che si conoscevano, si frequentavano, si scambiavano le forme culturali. Erano tanti gli esseri strani, segnati dalla vita, che passavano in casa nostra accolti da mio padre Celso, psichiatra.

Mario Verdone ha sempre conservato il suo radicamento a quel pezzo di Sie- na: la casa in Vicolo del Pozzo, la presenza in contrada, il suo modo di venire in contrada, fino all’ultimo, con la serenità e la semplicità di chi è presente e si sente parte del popolo della Selva. Nella Selva, seduto al suo tavolo nelle sere d’estate, pareva dire: «Questi luoghi e questa gente sono parte di me e vengono con me in ogni mia impresa intellettuale». A pensarci bene Mario Verdone è la metafora dell’essere selvaioli oggi. Essere presenti e lontani, essere legati a luoghi e persone e vivere altrove, in un gioco di scambi, oggi resi frequenti dalle condizioni di vita e di lavoro, che trovano modello in Mario Verdone, nato ad Alessandria, cresciu- to in Vallepiatta, vissuto in una Roma unita a Siena dalla tortuosa strada tracciata dai Romani, la Via Cassia, e da tutti i senesi che la percorrevano per trovare nella Città Eterna occasioni di vita. La Selva di Verdone è un’avventura umana. La Selva ci ha insegnato a impiegare le poche risorse per raggiungere grandi risultati, a impegnarsi sempre in uno sforzo comune e Mario Verdone è la metafora di questo percorso.

Con Luca abbiamo deciso di mettere su carta questa testimonianza sulla vi- cenda umana di suo padre, sulla Selva, ma vorrei aggiungerne un’altra su Verdone studioso del Futurismo. Il mio rapporto con lo studioso è maturato sui libri: ho studiato i saggi di Verdone quando ho scritto la mia tesi di laurea su Giacomo Balla. Già scegliere un tema così era un terribile azzardo perché Balla era un fu- turista molto diverso da Boccioni. Boccioni, pittore d’avanguardia, esce di scena presto: muore cadendo da cavallo durante la prima guerra mondiale e diventa un mito dell’avanguardia italiana. Balla deborda dallo stretto campo della pittura: nel 1914 firma il manifesto del vestito antineutrale, nel 1916 firma il manifesto della cinematografia futurista e continua la sua attività anche durante il secondo Futurismo andando a congiungersi con l’arte del fascismo.

L’analisi della velocità e della luce poneva Balla in relazione con gli sviluppi della fotografia e del cinema. Le sue opere erano vicine alle fotodinamiche di Anton Giulio Bragaglia e per capire questi nodi della pittura di Balla gli studi di Verdone su Bragaglia, Ginna, Corra sono fondamentali, anche se, quando scri- vevo la mia tesi, gli storici dell’arte erano restii ad utilizzarli a fondo. Sebbene

ci fosse piena coscienza dell’interazione tra le arti sviluppata dal Futurismo, gli storici dell’arte si sono sempre affacciati con reticenza ai campi attigui come la fotografia e il cinema. Anche nella mostra su Balla a Roma e a Parigi nel 1971 curata da Giorgio De Marchis con l’aiuto mio e di Livia Velani, entrambe alle prime armi, lavorammo molto sulle fonti d’epoca e poco sulla critica più recente che veniva da campi tangenti alla storia dell’arte come il cinema. Setacciammo tutta Roma alla ricerca dei sopravvissuti del Futurismo, ma ci dedicammo poco al cinema, anche se i rapporti tra Balla e Bragaglia furono estesi e Bragaglia ospitò mostre di Balla nella sua galleria. Fummo guidate a trascurare gli scritti di Mario Verdone e la nostra inesperienza ebbe gioco.

L’occasione per studiare a fondo gli scritti di Verdone mi si presentò con la ristampa anastatica della rivista «Noi. Rivista d’arte futurista» che curai nel 1975. Il direttore Enrico Prampolini dedicò nel 1924 un numero speciale al teatro e alla scena futurista: c’era il teatro degli indipendenti di Bragaglia, il teatro del colore di Ricciardi, i balli plastici futuristi di Depero, ma la prospettiva si allargava a tutta l’Europa annettendo al Futurismo i balli russi di Diaghileff, il teatro del Kurfürs- terdamm di Berlino, le scene meccaniche di Schmidt a Weimar, la scena intito- lata «Foresta» di Tatlin, insomma tutta una cultura che viene messa in crisi dai totalitarismi, ma che in Italia trova spazio attraverso l’organizzazione corporativa fascista dell’arte di avanguardia. Per questo lavoro è stata fondamentale la lettura di Verdone, che ha dedicato gran parte della sua attività intellettuale al teatro.

Io ho lasciato lo studio del Novecento, o meglio l’ho ripreso più di recente in altra forma, ma se ritornassi al Futurismo, mi piacerebbe andare a fondo riguar- do al rapporto teatro, cinema, fotografia, arte e capire meglio il ruolo storico di Mario Verdone.

Nel documento Mario Verdone. Lo sguardo oltre lo schermo (pagine 149-153)