• Non ci sono risultati.

Mario Verdone storico e comparatista del cinema

1. Mario Verdone dipendente del Centro sperimentale di cinematografia

Nel 1941 Mario Verdone è assunto al Centro sperimentale di cinematografia e Luigi Chiarini lo prende in simpatia. «Dopo Chiarini e Pasinetti, ero il numero tre. Mi occupavo della didattica dei corsi e della rivista ‘Bianco e Nero’, come segretario di redazione»1. Nell’agosto 1943 «anche i figli unici di madre vedova

sono richiamati come riservisti»2: è inviato, come sottotenente, a Livorno (deposito

munizioni). Nel 1945, liberata Siena, raggiunge Roma «con una camionetta militare, i treni non circolavano» al fine di riprendere il lavoro al Centro; ma la Scuola è ancora chiusa. Saputo che Umberto Barbaro era stato nominato commissario (lo studioso, di formazione marxista, era molto apprezzato nel I governo De Gasperi dalla componente laico-marxista) «andai a trovarlo per chiedergli se era possibile rientrare al Centro: lui mi disse, con freddezza, che coloro che si erano compromessi con il passato regime (ossia io, ma anche Chiarini) non potevano più lavorare al Centro»3. Il 15 gennaio 1946 il Centro riapre. Barbaro dà ordini perentori, «vietato

l’ingresso al Centro a Chiarini»4. Due anni dopo, con le elezioni del 18 aprile 1948,

la componente comunista e socialista venne ridimensionata all’interno dei quadri dell’Amministrazione pubblica, per cui «la Presidenza del Consiglio dei Ministri [De Gasperi] affidò nuovamente la presidenza dell’istituzione al proprio direttore generale dello spettacolo, ma il controllo effettivo dell’ente restò per i primi anni in mano a Chiarini (vicepresidente e dal 1948 direttore di ‘Bianco e Nero’) e a Pasinetti (direttore)»5. In un primo tempo Chiarini impartirà i seguenti ordini:

1 Intervista a Mario Verdone, a cura di E. Ciccotti, inedita, 19 marzo 1998 (alcuni brani sono

stati utilizzati in E. ciccotti, Postfazione. Letteratura in movimento, in M. VeRdone, Un giorno

senza gloria. Racconti e memorie, Colledara, Andromeda Editrice, 2000, pp. 225-236); v. anche S.

coRRadi-i. Madia, Un percorso di auto-educazione. Materiali per una bio-bibliografia di Mario Verdone,

Roma, Aracne, 2003, pp. 169-170 e 198.

2 Intervista a Mario Verdone cit.

3 Intervista a Mario Verdone cit.; v. anche coRRadi-Madia, Un percorso di auto-educazione cit., p. 201. 4 coRRadi-Madia, Un percorso di auto-educazione cit., p. 202.

5 C. d’aMico, Centro sperimentale di Cinematografia, in Enciclopedia del Cinema, Roma, Istituto

dell’Enciclopedia italiana, Treccani, 2003, http://www.treccani.it/enciclopedia/centro- sperimentale-di-cinematografia_(Enciclopedia-del-Cinema)-/; sito consultato il 6 aprile 2018.

«Barbaro non può entrare al Centro»6. Poi, «essendo tutti e due confluiti nello stesso

partito, si riappacificarono. Chiarini aveva bisogno di un buon docente di regia e sceneggiatura, e Barbaro lo era»7. Verdone verrà riassunto al Centro sperimentale

due anni dopo.

2. Critico e saggista di cinema

Nel periodo in cui Verdone è fuori dal Centro e da «Bianco e Nero», continua a scrivere per diverse riviste. Collabora assiduamente, per esempio, con «Rassegna», diretta da Roberto Bracco sin dalla sua fondazione (aprile 1945). Ma suoi articoli e saggi compaiono anche su altre testate, quali «Rivista del cinematografo», «La fiera letteraria» (per esempio, Quarant’anni di critica cinematografica, 21 agosto 1947), «Corrispondenza internazionale» (si veda Il cinema e la famiglia operaia, 1 ottobre 1947) e, dal 1947, sul giornale romano «Il Quotidiano» (organo dell’Azione cattolica, di cui è critico cinematografico ufficiale).

Nel marzo del 1948 Verdone è riammesso al Centro sperimentale. Nel biennio 1949-50 numerosi sono i suoi contributi pubblicati per riviste di settore, quali «Bianco e Nero», la «Revue du Cinéma», la «Critica cinematografica» di Parma, la «Rivista del cinematografo», la «Strenna dei romanisti», «Libera Arte», «Cinema». Infine, continua, sostenuta, l’attività di critico cinematografico per «Il Quotidiano». Nei suoi lavori acquista sempre più fisionomia quella metodologia, germinata dalla tesi di laurea in Filosofia del diritto, discussa nell’anno accademico 1939-40 con Norberto Bobbio8, d’indagine storico-comparativa: tra le varie cinematografie e i

diversi autori, fra le discipline e i rispettivi codici espressivi9. Segnatamente, in un

denso articolo dedicato alla Letteratura cinematografica in Germania, Verdone mostra grande agilità argomentativa, chiarezza espositiva e abilità didattica nel tracciare gli snodi degli studi nel campo della storia e dell’estetica del cinema da parte di

6 Intervista a Mario Verdone cit. 7 Ivi.

8 Si veda il saggio di Stefano Moscadelli edito nel presente volume.

9 Per esempio, qualche anno prima, leggevamo: «Quivi, dove la scenografia è tutta in funzione

del racconto, nascono tutti quei personaggi cinematografici, ossessionati e un po’ demoniaci, e tipicamente tedeschi, che appartengono anche ai films di Stroheim, Sternberg, Grüne – e che incontreremo altresì nella letteratura: come il cavalier Cipolla in Mario e il Mago di Thomas Mann (1931)» (M. VeRdone, Il film muto tedesco, «Rassegna», n° 5, settembre 1945, pp. 90-92,

autori tedeschi, austriaci e di lingua tedesca, soprattutto per quanto riguarda lo scrittore regista e teorico del film Béla Balázs10.

3. La vocazione per la didattica. Docente di cinema

Nel 1943 si comincia ad evidenziare in Verdone, accanto alla vocazione per la ricerca di biblioteca o di sala da cinema (a quei tempi un film lo si ri-vedeva al cinema o, se fortunati, in moviola), anche quella per la didattica al servizio della storia del cinema, praticata all’interno della divulgazione specialistica, tramite conferenze pubbliche. Lo troviamo come conferenziere-dipendente del Centro sperimentale a Parma il 30 giugno del 1943, poche settimane prima che fosse chiamato sotto le armi come riservista. Presenta Alleluja! (1929) di King Vidor nella sala della «Cinegil», ovvero della «Gioventù italiana del Littorio». Il giornale «La fiamma» di Parma così presenta l’evento:

Il film ha particolare importanza non solo come capolavoro indiscusso di arte cinematografica, ma anche come impareggiabile documento della demenza nevropatica dell’America «negra», dei suoi complessi di inferiorità, delle sue tare segrete.

Ovviamente la stampa di regime doveva mettere in cattiva luce i nemici americani. Il testo critico che Verdone invece legge, nell’affollata sala, è di tutt’altro tenore:

Il poeta non si ispira ma ispira, dice Paul Eluard. Questa umanità di colore, dove il bianco è ignorato, questa terra lavorata e goduta, queste case di legno fuori del tempo, questi pascoli terreni dove i negri si riuniscono per onorare il Signore, non fanno pensare a un mondo vero ma irreale, logicamente esistente soltanto nella fantasia dei poeti? Questi allora non sono più negri, ma proiezioni di esseri che appartengono alla famiglia del mondo e che hanno case nell’universo (...). La vicenda dei negri di Alleluja!, sotto questa luce, diventa l’eterna favola umana, collocata in un mondo di armonia e bellezze11.

10 M. VeRdone, La letteratura cinematografica in Germania, «Cinema», 36 (1946), n° 4, p. 12. 11 M. VeRdone, Giramondo, di prossima pubblicazione a cura dell’autore di questo contributo;

v. anche coRRadi-Madia, Un percorso di auto-educazione cit., pp. 194-195. La relazione che

Verdone tiene su Vidor è coraggiosa per i temi che tratta, poiché, mentre gli organizzatori del regime si aspettavano con tale film di dimostrare «la vita selvaggia e nevrotica dei negri (...) il pubblico lo lesse diversamente»; v. i riferimenti in M. VeRdone, Dai cinecircoli all’Università, in

Alcune settimane dopo Mario Verdone è a Firenze. Qui è in programma una conferenza su A nous la liberté di René Clair12.

Nel dopoguerra lo studioso è chiamato da padre Félix Morlion, fondatore e direttore dell’Istituto internazionale «Pro Deo» di Roma, ad insegnare «Storia del cinema». Ne troviamo conferma anche da un box presente nel numero di giugno del 1947 di «Corrispondenza internazionale», in cui è ospitato un suo articolo-saggio. Nel riquadro leggiamo: «Già segretario del Centro sperimentale cinematografico di Roma e redattore di ‘Bianco e Nero’ (...), professore di ‘Storia del Cinema’ alla specializzazione cinema dell’Istituto Internazionale Pro Deo (Roma)»13. Nel

1947 tiene tre corsi dai seguenti titoli: «Storia del giornalismo cinematografico»; «Storia del cinema francese» e «Storia del cinema italiano». Nel semestre febbraio- maggio 1949 Verdone è docente-relatore al I Corso di Filmologia presso l’Istituto di Psicologia del Magistero, con lezioni di storia del cinema14.

Di fronte al successo didattico delle lezioni tenute al Magistero, apprezzate dagli studenti e dai docenti (Francesco Piccolo e Luigi Volpicelli), nonché al prestigio che egli va acquisendo come docente presso la «Pro Deo», Chiarini non può non affidargli «a partire dall’a. a. 1949-50, un corso di Storia del cinema»15.

Esordio alla docenza presso il Centro sperimentale facilitato, probabilmente, anche da fattori quali la prematura scomparsa del docente titolare, Francesco Pasinetti (aprile 1949) e gli impegni di set dello stesso Chiarini (girava in Calabria il film Patto col diavolo), per cui, tra l’altro, «la responsabilità redazionale della rivista [‘Bianco e Nero’] rimase su di me»16.

4. Nascita e fissazione dell’approccio comparativo. Primi articoli

Dunque, va collocata in questo periodo, tra il 1941 e il 1956, l’elaborazione di una metodologia di studio del cinema e di una pratica didattica dello stesso che, come

12 Probabilmente nel mese di luglio: non mi è stato possibile rintracciare la data esatta. 13 «Corrispondenza internazionale», giugno 1947, p. 12.

14 coRRadi-Madia, Un percorso di auto-educazione cit., p. 172.

15 Intervista a Mario Verdone cit.; v. anche G. GRaSSo-M. locatelli, Il cultore del film. Didattica, ricerca e istituzioni culturali cinematografiche nel dopoguerra e T. SuBini, I primi tre concorsi universitari

di cinema, «Bianco e Nero. Rivista quadrimestrale del Centro sperimentale di cinematografia»,

LXXVIII, nn. 588-589, maggio-dicembre 2017, pp. 74-91 e 92-108, in particolare pp. 84 e 96.

16 Intervista a Mario Verdone cit.; sull’attività per «Bianco e Nero» v. anche coRRadi-Madia, Un percorso di auto-educazione cit., pp. 175 e 197-199.

visto, attingono a molteplici esperienze formative e produttive: dalla scrittura letteraria e teatrale alla regia cinematografica; dal lavoro editoriale per «Bianco e Nero» alle diverse pubblicazioni; dall’attività di conferenziere alle docenze presso la «Pro Deo» e il Centro sperimentale. Spia metodologica è l’approccio comparativo, rinvenibile finanche in articoli di quotidiani, indirizzati a un pubblico non specialistico; ne è un esempio significativo Faust, dramma e commedia. Il primo film italiano di René Clair (1948). Qui Verdone riferisce al lettore della conferenza stampa tenuta da Clair a Roma relativa alla sua idea di realizzare un film incentrato sulla figura di Faust. Dopo aver riportato, da cronista, le dichiarazioni progettuali di René Clair, chiude il pezzo con un affondo da storico-comparatista:

Della leggenda, che è rimasta legata soprattutto ai nomi di Marlowe e di Goethe, l’indimenticabile Fregoli ne dette un magistrale parodia in Faustino. Il cinema riprese il personaggio con Murnau che affidò a Emil Jannings il ruolo di Mefistofele, all’attore svedese Gösta Ekman la parte di Faust (...). Murnau, come Clair, ricorse alla leggenda faustiana, perché vi sentiva la grandezza del tema universale. Sarà interessante un giorno confrontare le due opere: la spiritualità tedesca, il senso pittorico, la genialità tecnica di Murnau, e la finezza parigina dell’autore di Le Milion, Quatorze Julliet, Le silence est d’or. Due sensibilità differenti, due diversi itinerari d’arte17.

Uno dei primi saggi comparativi poco ricordati di Verdone è Filosofia del cappello apparso su «Rassegna» nel 194518. Egli, occupandosi del ruolo linguistico del costume,

anni prima di Roland Barthes19, ne sottolineava appunto la funzione di semiosi

affidando l’incipit a due citazioni: una metafora di Thomas Carlyle e un’osservazione letteraria di Henry Fielding. Carlyle, chiosa Verdone, afferma che «tutti i simboli in cui crediamo sono dei vestiti», alludendo a certi abiti che rinviano a ruoli sociali e di potere: la toga del giudice; la mantella e la berretta dell’ecclesiastico; la cravatta del borghese; le camicie svolazzanti e le ampie gonne del ceto aristocratico; la divisa imperiosa dell’ufficiale. Mentre Fielding scrive, a proposito dei cappelli: «erano arrivati a credere che nelle loro diversità ci fosse qualcosa di essenziale. In verità, invece, la differenza era tutta nelle fogge dei loro cappelli»20. Verdone, passando al

cinema, compara il differente uso del cappello nei diversi generi filmici e, ovviamente,

17 M. VeRdone, Faust, dramma e commedia. Il primo film italiano di René Clair, «Nuovo Corriere»,

30 ottobre 1948.

18 M. VeRdone, Filosofia del cappello, «Rassegna», n° 7, novembre-dicembre 1945, pp. 87-89. 19 Si veda R. BaRtheS, Miti d’oggi, Torino, Einaudi, 1974 [I edizione italiana Milano, Lerici,

1962], scritti risalenti al 1954-1956.

secondo lo stile del singolo regista. Nel cinema di Visconti, in Ossessione (1942), «i vagabondi protagonisti del film (...) col cappello ostinatamente calcato, non sono mai voluti apparire gentiluomini»21. Mentre, nel genere western classico degli anni

Venti, di cui era protagonista Tom Mix, durante «i corpo a corpo, il cappellone ruzzolava a terra», ma, appena terminato il duello, il mitico Tom Mix recuperava il cappellone ricomponendo la figura del cowboy onesto e coraggioso: se non lo avesse fatto «ci saremmo alzati dalle nostre panche a protestare»22. Naturalmente, quando

il rude Tom Mix, nel sottofinale, si reca dalla «sua creatura beneamata per chiederla in sposa» si toglie il cappellone e lo tiene in mano: ora recita la parte del gentiluomo. Nel proseguire il suo saggio sul ruolo comunicativo del costume Verdone risale al teatro: «Il costume, poi, ha eccezionali possibilità comunicative, ed anzi come osserva un personaggio di Shakespeare, una delle sue caratteristiche è proprio l’espressività»23.

Il saggio continua con le analisi del ruolo di diversi cappelli impiegati per fornire allo spettatore maggiori informazioni sul singolo personaggio, passando in rassegna capolavori di Chaplin, Ejzenštejn, Clair, Ruttmann, Renoir. Verdone chiude la sua ricerca sull’abito/cappello ‘attore’ offrendo la parola al povero, detto il «barone», un personaggio del film Verso la vita (Les bas-Fonds, 1936) di Jean Renoir, tratto dalla pièce L’albergo dei poveri di Maxsim Gor’kij:

Quando penso alla mia vita mi accorgo che non ho mai fatto altro che mutare abbigliamenti: l’uniforme da collegiale e da soldato, l’abito da cerimonia e la veste da camera, e qualche volta anche l’abito in maschera. Poi ho indossato vestiti sempre più miseri, e questo è l’ultimo della serie». (È un vestito che diventerà sempre più sporco, sempre più ridotto, fino a perdere perfino il cappello).

– Sei mai stato in prigione? – lo interrompe Pépé. – No. Perché me lo domandi?

– Avresti un vestito in più, ecco tutto. E naturalmente anche un berretto col numero24.

5. Charlot e le arti

Nel gennaio-febbraio 1950 Verdone cura un fascicolo doppio, numeri 5-6, della rivista «Sequenze», diretta dal giovane scrittore Luigi Malerba, che reca come titolo Il film comico.

21 Ivi. 22 Ivi.

23 Ivi; corsivo nel testo. 24 Ivi, p. 89.

Nella Presentazione spiega che l’idea «è nata al compilatore durante lo svolgimento del primo corso di Filmologia tenutosi alla Facoltà di Magistero della Università di Roma [‘La Sapienza’] durante l’anno accademico 1948-49 a cura della sezione italiana di Filmologia, di cui fanno parte il Centro sperimentale di cinematografia e l’Istituto di psicologia dell’Università».

Gli autori che contribuiscono con saggi, oltre a Verdone, sono: Carl Vincent, Roberto Paolella, Arthur Knight, Jean Fayard, Luigi Rognoni, Toti Scialoja, Guido Aristarco, Glauco Viazzi, Jean Geogre Auriol, Fausto Montesanti, Sergio Paderni, Giuseppe Ungaretti, Jean Cocteau, Robert Florey, John Grierson, Harold Lloyd, Vsevolod Pudovkin. Il saggio, Umanesimo del comico, di Mario Verdone è articolato in sei paragrafi dai rispettivi titoletti: Una «scuola»; Le comiche «mute»; Premesse al comico cinematografico in Italia; Il sonoro; Neorealismo e comico; Riepilogo25. Naturalmente

ci concentreremo solo su alcune sezioni del saggio,

Nel primo paragrafo, Una «scuola», l’autore, partendo dall’analisi di Kid Auto Races at Venice (1914), traccia legami e influenze reciproche, tra la scuola di Mack Sennett e la cultura attoriale di Chaplin, attraversando tutta la prima metà del Novecento, con paragoni e comparazioni tra la comicità cinematografica americana a quella europea (Max Linder, André Deed, ecc.) e italiana (illuminante, per quel tempo, la comparazione tra Chaplin e Totò, quando quest’ultimo non era stato ancora studiato e ‘sdoganato’ dalla critica), risalendo sino a tratti comuni del comico popolare europeo dei secoli passati. Verdone rintraccia alcuni aspetti della comicità del corpo-attore centrali nella maschera di Charlot – cadute improvvise del pagliaccio, l’inciampare camminando, improvvisi colpi alle spalle del ‘nemico’ e fuga – in quel comico popolare circense e di strada poi passato nelle maschere italiane, ed infine nel cinema europeo e americano. Eppure Chaplin, premette subito Verdone, senza l’incontro con Sennett sarebbe rimasto un buon pagliaccio come lo era nella compagnia di Fred Karno. «La scuola di Sennett lo porterà, proprio per la ricchezza dei mezzi nativi a lui propri, basati anzitutto sull’osservazione, al vertice dell’arte del comico»26.

Verdone osserva come in Kid Auto Races at Venice (è il primo film che inaugura la figura di Charlot), pur privo di una «particolare tecnica cinematografica» – gli rimprovera, in sostanza, l’impianto teatrale della regia –, vi sia «l’istintiva creazione

25 M. VeRdone, Umanesimo del comico, in Il film comico, «Sequenze. Quaderni di cinema», II, n.

5-6, gennaio-febbraio 1950, pp. 2-16.

dell’attore, senza la presenza di un controllo espressivo, di una guida e composizione esterna del giuoco mimico-gestuale, cui ormai ci ha abituati la regia cinematografica (ad esempio, in Lubitsch)»27.

Ma soffermiamoci su ruolo del corpo-attore, che è l’aspetto studiato da Mario Verdone in Kid Auto Races. Chaplin risolve questa (finta) ingenuità del personaggio con lavoro gestuale e mimico da grande attore – sottolinea Verdone, ricordiamo siamo nel 1950 –, ossia con una recitazione non ancora codificata dalla macchina- cinema, non facilmente omologabile da un regista esterno. Charlot gestisce una ‘pagliacciata’, un comportamento da clown circense che interrompe l’azione di qualcun altro, in maniera originale. Ovviamente Verdone, che aveva visto il film una sola volta, non intendeva affermare che non vi fosse in Kid Auto Races una regia dell’attore. Egli mi precisò, successivamente, che

chiaramente Chaplin, nel 1914, era già un attore con una estetica fortemente strutturata; così, quando si mette continuamente di traverso sulla pista, guardando in macchina, sa sottoporsi ad una sua ‘regia’, un controllo del corpo e della mimica verso i quali il regista del film può poco. Perché in quel film è un grande clown28.

Il comico di Charlot, secondo Verdone, è talmente stratificato, pieno di rimandi – coscienti o meno, lascia intendere l’autore – alla tradizione dello spettacolo che va dal teatro al cinema, da definirsi un comico di stampo «umanistico». E qui siamo in pieno approccio comparativo.

Non una vera scuola cinematografica, dunque, comica o no, dove arricchirsi, prendere forza d’idee, perfezionarsi: poiché le gags di Charlot non sono soltanto di Charlot ma di una infinita serie di clowns, prima, e anche di tutti quei colleghi che lavorarono con Sennett, e che più sopra abbiamo ricordato. In questo ambiente Charlot poté compiere il suo processo formativo e di cultura: umanistico, potremmo dir meglio, poiché l’umanesimo progressivo, la costruzione dei personaggi sull’eredità comica tramandata dai predecessori, il plagio perfino, è alla base della tradizione dei buffoni e clowns. Essa si basava – la scuola di Sennett – nel ritmo d’un inseguimento (appreso del resto nelle arene dei circhi, durante la esecuzione di pantomime equestri) e sullo slap-stick: lo schiaffo- bastone. Sembra quasi un riepilogo volgare: colpire clamorosamente l’avversario e poi scappare: e complicare la fuga – come al cinema era possibile – con auto fumogene, 27 Ivi, p. 2.

28 Intervista rilasciatami da Mario Verdone, nel settembre 2003, in occasione della curatela

del suo libro Maestri del cinema, Colledara, Andromeda edizioni, 2004. Verdone aveva avuto l’occasione di rivedere Kid Auto Races, insieme ad altri two reels del primo Charlot, in un DVD dedicato all’opera di Charlie Chaplin.

ponti traballanti, nubi di farina e di piume, salti dai cornicioni e dai tetti, esplosioni, pistole d’acqua, torte in faccia29.

Non è fuori luogo rintracciare, quindi, le radici delle gags di Chaplin e di quelle della scuola sennettiana nella cultura teatrale europea, in quel teatro povero, di strada prima e del circo poi, straripante di maschere, clowns, imbonitori, raccontatori, saltimbanchi, attori:

Eppure, lasciatelo dire: quanta ‘cultura dello spettacolo’ in queste poursuites, in questi volti infarinati, in questo strumento di gomma, largo e appiattito al vertice, che abbiamo visto tante volte nelle mani dei clowns bianchi sbattuto sulla testa dell’‘auguste’! Cultura anglo- latina, che partendo dai lazzi dei nostri comici dell’arte – come il napoletano Tiberio Fiorilli detto «Scaramuccia», mimo e ballerino, acrobata e ammaestratore di bestie – prende unità sulla figura del primo dei clowns celebri, Joe Grimaldi, descritto da Dickens: anch’esso maestro della pantomima e funambolo, saltatore e prestigiatore30.

Alla metà degli anni Settanta, Verdone torna sulla filiazione del cinema comico dai numeri circensi dei clown, ampliando i rifermenti e i rimandi anche ad altri comici, legando, tramite l’analisi del costume, del trucco e della tecnica recitativa,