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Il ’900 del giovane Mario Prose liriche e alirismo futurista

Immaginando un intervento intelligente per celebrare un Uomo la cui parabola rap- presenta con inopinabile aderenza l’idealtipo weberiano del cosiddetto ‘secolo bre- ve’, come già avemmo peraltro a sottolineare un anno fa, presso la Biblioteca nazio- nale centrale in Roma, in occasione del convegno internazionale nel centenario del Manifesto della cinematografia futurista1, non potevo che astrarmi da ciò che il prof.

Verdone è stato ed ha rappresentato nella sua età più matura, per immergermi nei prodromi delle intime dissonanze artistiche dove l’irredimibile lirismo classico coz- zò, un giorno, con il pugno e lo schiaffo di Filippo Tommaso Marinetti, anch’egli, in verità, grande passatista dalle bluse gentili seppur d’animo convintamente futuribile.

Per calarmi e calarVi dunque in questo à rebours, come lo appellerebbe Huysmans, diverranno nostri mediatori Il boscaiolo scontento. Favola radiofonica2,

adeguato a farci comprendere la rotta dell’animo profondo di Mario Verdone, la prosa lirica intitolata L’omino delle croci, stampata a Siena da «I Quaderni di Ausonia» del grande e indimenticato Luigi Fiorentino per la collana «Il Sol- co» nel 1948, e il Cataloghetto, assai raro, del 1935 edito in occasione del «1° Concorso di poesia bacchica, amorosa e guerriera», indetto all’interno della seconda «Mostra mercato dei vini tipici» d’Italia tenutasi in Siena dal 3 al 18 agosto dello stesso anno e stampato per i tipi della Tipografia San Giovanni.

Una gaia commistione di ‘novellerie futuristeggianti’, prosa lirica, grottesco, spiritualità e impressioni vagamente alla Clark Ashton Smith, è dunque sicura- mente rappresentata dalla ‘radiostoria’ breve Il boscaiolo scontento.

La sfida accesa, tra il serio e il faceto, fra la morte, invero assai goffa ed a tratti buffa, pur nella sua intrinseca estrema serietà e nell’inevitabile bieco finalismo, ed il boscaiolo, simpatico e semplice archetipo della vita ferina, fatta di duro lavoro frammisto a furbizia (ovvero le uniche armi per ‘cavarsela’ nella vita pratica), non può che terminare con la vittoria, pur inopinata ed irreale, del boscaiolo.

1 Dai lavori di quell’iniziativa è scaturito il volume Cineprese futuriste, atti del convegno interna-

zionale nei cento anni del Manifesto della cinematografia futurista (Roma, Biblioteca naziona- le centrale, 28 novembre 2016), a cura di E. Bittoto, Bologna, Pendragon, 2018.

La morte viene beffata in questo radiodramma (alla maniera futurista) dalla scaltrezza dell’‘ignoranza’ data dalla vita, dalla maggiore conoscenza dell’ambien- te terreno, proprio dell’uomo, e dal rapporto con la natura. La dimensione tut- tavia trascendente nella quale ‘vive’ la morte – pur attenuata dalle sue numerose sortite terrene necessarie al ciclo della vita – appare come un limite impercetti- bile eppure invalicabile. La psichicità del boscaiolo vince sulla realtà pneumatica dell’oltre-mondo: una psichicità pur imbevuta di religione, a tratti di supersti- zione, comunque sufficientemente «piantata nella nuda terra» da scombinare le teorie più perfette ed immutabili.

Così il boscaiolo vince la morte, che, almeno per questa volta, non lo avrà... tornando quindi a lavorare ed a lamentarsi per «il pianto e lo stridore di denti» dato dal subire, inerme ed oberato, un nuovo ciclo delle stagioni.

Abbiamo quindi ‘letto’ un Verdone goliardico ed al contempo ispirato, quasi eziologico nello spiegare l’onnipresente legame tra la vita e la morte.

Ora approcciamone il rapporto con la religione, la morte, la miseria; i tristi ricordi di due guerre, una, la prima, che si prese il babbo così presto, l’altra, la seconda, che gli rese forte l’immagine di una Italia grande e misera allo stesso tempo, volitiva e spregiudicata quanto timorosa ed arrabbiata.

Nell’Omino delle Croci ritroviamo tutto questo in poche frasi, tanto lapidarie eppure così perfette da farci pensare al raggiungimento pieno di una consapevo- lezza sul «dove va il mondo».

Oltre al significato, v’è da dire, la prosa stessa rasenta la perfezione tanto da renderne inutile qualsiasi adattamento. Un vero e proprio film scritto si dipana innanzi al lettore, asserzione dopo asserzione, quadro dopo quadro, proponendo il percorso classico di tesi, antitesi, sintesi, ma in modo mai stonato, anzi, perfet- tamente accordato e lapidario. La fatica del leggere quasi non esiste.

Cito:

Anche se i congiunti dei seppelliti vogliono dimenticarsene, non è facile liberarsi, nel luo- go dove hanno vissuto, del ricordo dei defunti. Le case, con le camere senza faccende, le sedie appoggiate al muro inutilmente, i canti del fuoco vuoti, l’interruzione imprevista dei richiami più ostinati che erano entrati a far parte della nostra saggezza e delle nostre abi- tudini, ci danno un senso continuo del vuoto che si è fatto intorno a noi. Quella tavola era troppo lunga e i discorsi fra i commensali, da una parte, pareva cadessero. Nella piattiera le stoviglie avanzavano e la stanza faceva pensare a vestiti troppo grandi addosso, proprio come ai morti. Tutta la casa faceva intendere d’essere nata per uno scopo maggiore.

Ancora:

E lasciamo dunque ai viandanti che verranno, concluse il veglio con la voce velata, ai figli prodighi, a tutti gli smarriti del mondo, lasciamo questo segno riconosciuto delle Chiese.

Infine:

Ma voglio bene a Bettino e ciò che egli pensa e decide sarà la mia fede – Anche se vi suggerirà il peccato, gli crederete? – Egli è buono – Baldassarre unì le asticelle che aveva pulito durante il colloquio e le fissò nell’incastro. Son proprio i buoni che dobbiamo vigi- lare di più. Pensò mentre guardava la piccola croce.

Giustamente non potendo qui dar lettura dell’intero volume, la selezione ap- parirà senz’altro parziale ed insufficiente a coinvolgervi nel senso pieno del rac- conto. Tuttavia la lirica assiomatica di Verdone basta sempre a spiegare in modo definito e inequivocabile i concetti. Uno stile se vogliamo anche giornalistico, ma più garbato, più familiare, più cortese e teneramente caldo.

La religiosità di Mario Verdone, il forte richiamo alle tradizioni ed alla ‘vita vera’ sicuramente appartengono al primo periodo formativo di un ragazzo, di ormai trent’anni, che ambisce alla perfezione accademica nella convinzione, tut- tavia, che non vi è progresso senza il rimando alle tradizioni ed alla esperienza dei saggi. Il fantasma del passato non è così un puro spettro ma una entità tangibile che impregna i personaggi protagonisti dei suoi racconti i quali si emancipano sempre, alla fine, da condizioni di disagio, anche talvolta ‘selvatiche’, rimetten- do fede nello slancio propulsivo verso un futuro comunque ritenuto abbastanza buono tanto da risultare degno di essere vissuto.

Circa tra i 18 e i 20 anni però, come detto in incipit, una conoscenza strava- gante si stagliò su quel percorso regolare e scandito che era la vita di Mario Ver- done: Marinetti, la ‘Caffeina d’Europa’, era approdato a Siena per bearsi di quella ‘Benzina’ favolosa che era il vino rosso dei suoi colli.

Durante il «Concorso di poesia bacchica, amorosa e guerriera», di cui Verdone era co-assistente all’ufficio stampa, ebbe infatti modo di approcciare l’inventore della più grande, dirompente ed inimitabile avanguardia artistica che il mondo avesse ed abbia mai conosciuto: il Futurismo.

Il concorso fu in realtà vinto da Lorenzo Viani, capostipite dei ‘vàgeri viareg- gini’, stanziali nelle taverne della lucchesia, grande pittore e propugnatore della Repubblica d’Apua assieme a Krimer, Foschini, Bonetti, Repaci, Canale, ed altri

sodali sui quali varrebbe la pena soffermarsi. Il Futurismo di Viani era tuttavia estremamente particolare, ricco di frasi colorate da uno spirito ancestrale, tratte dal vernacolo e ricreate in forma avanguardistica, una sorta di futurlirismo che a Verdone non doveva certo esser dispiaciuto; ecco un breve estratto da Sarabanda di Vino:

Noi siamo cristiani, / Ma il vino lo vogliamo ebreo / Non battezzato all’orlo del pozzale. / Vino di buona beva, / Asciutto, abboccato, tondarello, / Dolce, striscino, pisciancio o cancherone, / Passante, salacertolo, chiavone, / Acciajato, / Marziale, / Calibeato. / Figlio legittimo della Salamanna, / La Galletta, Dolcipappola, Pinotta, / La Colombana, la Mammola, l’Agresta. / (...)3.

Non apparirà strano allora asserire che, in realtà, tra la prosa lirica e un sin- cero avvicinamento all’avanguardia, possa non esserci in Mario Verdone alcuna contrapposizione.

Se è vero, come asserisce il saggio Baldassarre, che «son proprio i buoni che dobbiamo vigilare di più», Verdone, facendo sua questa frase così certa4, così

maledettamente sincera, ha cercato in tutto l’intero arco della sua vita di servizio al sapere, di rendere buone, tra virgolette, anche le avanguardie, di scoprirne all’interno il senso più profondo e lirico contribuendo a smacchiarle dall’aura nera di un dopo guerra troppo ingrato nei confronti di tali e tante intraprese artistiche apicali, fornendo ulteriore slancio a tanti germi in predicato. Tuttavia, nel fare ciò, ha anche sempre, tra le righe, vigilato acché tale ritrovata bontà non fosse mai usata per ferire o per incensare, per lucrare o per sminuire. Il bene per Verdone nasce già nell’oggettività della ricerca posta in atto attraverso un metodo scientifico. Rivelata detta oggettività essa viene miscelata ad una profonda spiri- tualità sempre presente, sempre attenta a fornire un’anima ed una dimensione trascendente a persone e cose.

Così va letta l’opera immortale di Mario Verdone, solamente da questo punto di vista si potranno allora apprezzare anche le ragioni primordiali e mai banali del suo estremo bisogno di ricerca e di continua sistematizzazione degli eventi e degli scopi.

3 L. Viani, La polla nel pantano, Poesie inedite, a cura di F. Bellonzi, Roma, De Luca, [1955], pp.

121-126, in particolare p. 121; v. anche I. caRdellini SiGnoRini, Lorenzo Viani, Firenze, CP&S,

1978, pp. 372-374.