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Dal D.Lgs 626/1994 al D.Lgs 81/2008, i cambiamenti.

Nel documento Il lavoro agile (pagine 54-72)

Lavoro agile: infortuni e malattie professionali, quale sicurezza?

3.1 Dal D.Lgs 626/1994 al D.Lgs 81/2008, i cambiamenti.

Il decreto legislativo n. 626 del 1994, adottato dal Governo a seguito di delega contenuta dapprima nella legge 19 febbraio 1992, n. 142 e successivamente nella legge 22 febbraio 1994, n. 146, costituiva, prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 81 del 2008, il secondo pilastro importante, accanto ai decreti presidenziali degli anni ’50, della nostra normativa prevenzionistica. Pur trattandosi di un testo oramai superato ad opera dell’art.304, co. 1, d.lgs. n. 81 del 2008, appare comunque opportuno esaminare ─ almeno negli aspetti principali ─ la normativa contenuta nel d.lgs. 626 del 1994, i cui tratti salienti continuano a conservare il ruolo di impalcatura portante anche nella vigente

disciplina in materia di sicurezza sul lavoro59. Questo fondamentale

provvedimento legislativo, composto originariamente da dieci Titoli, tredici allegati e novantotto articoli ed ampliato nel corso del tempo a seguito del recepimento di alcune direttive comunitarie successive, tanto che la sua stessa

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F. Stolfa, L’individuazione e le responsabilità del datore di lavoro e dei dirigenti in materia di sicurezza sul lavoro, in I working papers di Olympus, 2014.

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intitolazione si era arricchita con l’indicazione di altre dieci direttive (93/88/CE, 95/63/CE, 97/42/CE, 98/24/CE, 99/38/CE, 99/92/CE, 2001/45/CE, 2003/10/CE, 2003/18/CE, 2004/40/CE), che avevano comportato il conseguente aumento del numero complessivo di Titoli passato da dieci a quattordici, aveva innovato profondamente ─ rispetto al passato ─ “il modo di gestione” dell’obbligo di sicurezza posto a carico del datore di lavoro. Infatti, se alle origini la normativa prevenzionale mirava ad indennizzare la perduta ovvero la ridotta attitudine al lavoro, perseguendo essenzialmente il fine della riparazione delle conseguenze dannose derivate dall’evento infortunistico (legge n. 80/1898), con la produzione legislativa successiva si era ─ in un primo momento ─ attribuito alla prevenzione una valenza pubblicistica per l’interesse generale sotteso rivolto a preservare la salute di chi lavora (art.2087 c.c. e Carta Costituzionale) e, subito dopo, si era garantito un ambiente di lavoro tecnologicamente sicuro con la specifica indicazione dei singoli mezzi di tutela da apprestare a seconda del tipo di lavorazione (decreti presidenziali degli anni ’50). Ben presto, però, la crescita esponenziale della tecnologia applicata al ciclo produttivo aveva reso meno efficace la normativa e con essa le misure di sicurezza previste, non più in grado di ridurre incisivamente il fenomeno infortunistico. Pertanto, con la produzione legislativa ispirata dall’iniziativa comunitaria, si era compiutamente previsto e disciplinato un diverso sistema per assicurare la tutela della sicurezza e della salute nei luoghi di lavoro attraverso una nuova concezione della materia prevenzionale, non più statica, ma dinamica, legata all’evoluzione della tecnologia e dei modi di produzione dei beni e dei servizi ed idonea a consentire un pronto aggiornamento delle misure di sicurezza, in concomitanza con il progresso tecnico-scientifico dei processi lavorativi, al fine di evitare la precoce

obsolescenza delle norme60. La valutazione del rischio e la sua eliminazione o

riduzione al minimo ─ fulcro del nuovo sistema di gestione della sicurezza sul

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lavoro − diveniva compito principale attribuito al datore di lavoro, coadiuvato, nell’attività di prevenzione, sia dal singolo lavoratore ─ a cui era richiesta una partecipazione più consapevole e attiva nella gestione della sicurezza sul lavoro ─ sia delle organizzazioni sindacali, chiamate in qualità di organi consultivi a collaborare per la sicurezza negli stabilimenti. Si era così passati ad un modello di protezione oggettiva, finalizzato a garantire un ambiente di lavoro tecnologicamente sicuro, ad un modello di sicurezza basato essenzialmente su “comportamenti operativi dei lavoratori soggettivamente

sicuri”61

. Nasceva il modello di prevenzione soggettiva, concepito come una funzione complementare dell’attività di impresa, all’interno del quale il lavoro doveva potersi svolgere in sicurezza. Il decreto legislativo n. 626 del 1994, nel quale erano state recepite ben diciassette direttive comunitarie, l’ultima delle quali è stata la 2003/18/CEE in materia di protezione dei lavoratori dai rischi derivanti dall’esposizione all’amianto durante il lavoro, poteva essere diviso in due parti fondamentali: nella prima ─ relativa alle disposizioni generali ─ veniva disegnato il modello di gestione della sicurezza negli ambienti di lavoro attraverso l’individuazione sia dei principi ispiratori della disciplina sia delle figure e dei rispettivi compiti per l’attuazione del programma di sicurezza; nella seconda parte era inserita la normativa relativa a settori specifici come i luoghi di lavoro, le attrezzature di lavoro, i dispositivi di protezione individuale, la movimentazione manuale dei carichi e così via. In particolare, nelle “disposizioni generali” si individuava sia il campo di applicazione del decreto legislativo che riguardava tutti i settori di attività, privati e pubblici, con opportuni adattamenti nei confronti di alcune specifiche categorie di lavoratori, come le Forze armate e di polizia (art.1) sia i soggetti coinvolti nella gestione della sicurezza (art.2). Venivano poi elencate ben diciotto misure generali di tutela, definite “principi generali di prevenzione”

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F. Stolfa, Il documento di valutazione dei rischi: dimensione organizzativa e profili civilistici, in DSL,

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nella direttiva quadro 89/391/CEE, le quali rappresentavano le nuove linee guida nel campo della prevenzione degli infortuni sul lavoro (art.3). Al primo posto del nutrito elenco inserito nell’art.3 era collocata la valutazione dei rischi per la salute e la sicurezza (lett. a), al fine della loro eliminazione o riduzione (lett. b) – c)). Questi adempimenti costituivano i capisaldi della normativa del 1994. A seguire venivano enunciate una serie di prescrizioni, quali la “sostituzione di ciò che è pericoloso con ciò che non lo è, o è meno pericoloso” (lett. e), la “priorità delle misure di protezione collettiva rispetto alle misure di protezione individuale” (lett. g), la “limitazione al minimo del numero dei lavoratori che sono, o che possono essere, esposti al rischio” (lett. h), l’utilizzo limitato “degli agenti chimici, fisici e biologici, sui luoghi di lavoro” (lett. i), “il controllo sanitario dei lavoratori in funzione dei rischi specifici” (lett. l), l’”allontanamento del lavoratore dall’esposizione a rischio, per motivi sanitari inerenti alla sua persona”, che tendevano alla riduzione al minimo dell’esposizione al rischio dei lavoratori. I principali obbiettivi, perseguiti con una specifica programmazione scandita dal decreto legislativo (art. 3, co. 1, lett. d), erano la valutazione dei rischi con la successiva redazione del piano sicurezza e l’adozione di misure di sicurezza individuali o collettive. Tali adempimenti dovevano essere accompagnati da una costante

ed attenta opera di formazione ed informazione del personale62. La

valutazione di tutti i possibili fattori di rischio presenti nell’ambiente di lavoro spettava al datore di lavoro chiamato ad individuare tutti i rischi legati alla natura dell’attività imprenditoriale, alle attrezzature utilizzate, ai luoghi di lavoro o alle sostanze impiegate (art.4, co. 1). Se con la disciplina contenuta nei decreti presidenziali degli anni ’50 veniva stabilito ex ante quali erano le principali fonti di pericolo per l’incolumità dei lavoratori e quali le misure di sicurezza da adottare e, pertanto, il compito del datore di lavoro era agevolato, con l’entrata in vigore del d.lgs. n. 626 del 1994, tale adempimento era

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divenuto in assoluto più arduo perché affidato alla perizia e discrezionalità di ogni datore di lavoro e perché il rischio, che rappresentava la possibilità che nel corso dell’attività lavorativa si verificasse un evento dannoso causato da fattori legati alla dinamica della produzione, aveva sostituito il più ristretto concetto di pericolo, che rappresentava la probabilità del verificarsi di un evento dannoso. All’ esito della valutazione veniva elaborato un documento, denominato anche piano di sicurezza, che conteneva una relazione particolareggiata sulla valutazione dei rischi operata per garantire la sicurezza e la salute durante il lavoro, sui criteri utilizzati per la sua formazione (art.4, co. 2, lett. a), sull’individuazione delle misure di prevenzione e dei dispositivi di protezione individuale che consentivano l’eliminazione oppure la riduzione dei rischi (art.4, co. 2, lett. b) e sul programma delle misure ritenute opportune per assicurare il miglioramento nel tempo dei livelli di sicurezza (art.4, co. 2, lett. c). Pertanto, il documento della valutazione dei rischi aveva, da un parte, natura ricognitiva e valutativa e, dall’altra, un carattere programmatico e operativo. Questo documento era custodito in azienda (art. 4, co. 3) e doveva essere redatto entro tre mesi dall’effettivo inizio dell’attività (art. 96-bis). La mancata redazione era sanzionata penalmente (art.89, co. 1); il documento inoltre doveva essere sufficiente ed adeguato e non poteva essere redatto in forma burocratica, pena l’applicazione della sanzione prevista in caso di omessa compilazione. Una volta elaborato il piano sicurezza, al fine o dell’eliminazione “dei rischi in relazione alle conoscenze acquisite in base al progresso tecnico e, ove ciò non è possibile, loro riduzione al minimo” (art.3, co. 1 , lett. b) o della riduzione dei rischi alla fonte (art.3, co. 1, lett. c), il datore di lavoro doveva procedere all’adozione di misure di sicurezza, individuali o collettive (art.3, co. 1, lett. o), a seconda che fossero rivolte alla tutela di tutto il personale oppure del singolo lavoratore, distinte in: tecniche, organizzative e procedurali (art. 4, co. 5). In particolare, le misure tecniche rientravano nell’ambito della prevenzione oggettiva ed erano applicate sulle

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fonti del rischio, come le macchine, i ponteggi, gli impianti, le attrezzature etc. Come già avveniva con i decreti degli anni cinquanta queste misure, se specificate dalla legge, divenivano tassative e non potevano essere derogate dal datore di lavoro; mentre, in caso di mancanza insufficienza della previsione normativa, potevano essere adottate misure equivalenti o alternative purché efficaci ad eliminare o ridurre l’esposizione a rischio esistente. Nel decreto legislativo n. 626 del 1994, infatti, vi era spazio anche per la discrezionalità del datore di lavoro nella scelta delle misure soprattutto alla luce del fatto che spettava a lui “l’individuazione delle misure di prevenzione e di protezione e dei dispositivi di protezione individuale”, nonché “il programma delle misure ritenute opportune per garantire il miglioramento nel tempo dei livelli di sicurezza” art.4, co. 2, lett. b e lett. c.). Le misure organizzative e gestionali riguardavano l’organizzazione del lavoro e precisamente i fattori di rischio legati alla ripetitività dei gesti, alla

monotonia, ai carichi di lavori eccessivi63. Infine le misure procedurali

comprendevano tutti i procedimenti da porre in essere per garantire la sicurezza di tutti i lavoratori, come le procedure di lavoro e per i casi di emergenza (art. 9, co. 1, lett. c). Le misure soggettive, rappresentate dall’allontanamento o dalla adibizione al minimo indispensabile dei lavoratori esposti a rischio, dal controllo sanitario o dalla formazione e dalle istruzioni, che, a differenza delle misure oggettive, non erano dei mezzi ma influivano sui comportamenti o direttamente sull’esposizione a rischio. Il datore di lavoro doveva prestare molta attenzione alla scelta ed all’aggiornamento delle misure di sicurezza, la cui adozione, già con i decreti degli anni ’50, avveniva nel rispetto del principio della “massima sicurezza tecnologicamente possibile”, che aveva ispirato l’art.2087c.c. ed anche il successivo decreto legislativo n. 626 del 1994, dalla cui lettura si ricavava che l’eliminazione o la

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C.G. Catanoso, Approccio proattivo alla gestione del sistema integrato ambiente e sicurezza, in

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riduzione al minimo dei rischi doveva avvenire attraverso l’uso delle misure di sicurezza suggerite dal progresso tecnologico e con il continuo aggiornamento imposto dallo sviluppo della tecnica di prevenzione e protezione (art.3, co. 1, lett. b) e art.4, co. 5, lett. b). Ciò ha significato che il datore di lavoro doveva adottare le misure di sicurezza più idonee sulla base delle conoscenze tecnologiche del momento e procede al loro aggiornamento sulla base dell’evoluzione e del progresso della tecnica. Tale difficile compito era agevolato grazie all’aggiornamento della normativa strettamente tecnica ad opera del Ministero del lavoro sentita la Commissione consultiva permanente (art. 28). In ogni caso l’obbligo imposto al datore di lavoro non era senza limiti ma, come chiarito dalla Corte Costituzionale, con la sentenza 25 luglio 1996, n. 313, era adempiuto con l’adozione delle “misure che, nei

diversi settori e nelle differenti lavorazioni, corrispondono ad applicazioni tecnologiche generalmente praticate e ad accorgimenti organizzativi e procedurali altrettanto generalmente acquisiti, sicché penalmente censurata sia soltanto la deviazione dei comportamenti dell’imprenditore dagli standard di sicurezza propri, in concreto e al momento, delle diverse attività produttive. Ed è in questa direzione che dovrà, di volta in volta, essere indirizzato l’accertamento del giudice: ci si dovrà chiedere non tanto se una determinata misura sia compresa nel patrimonio di conoscenze nei diversi settori, ma se essa sia accolta negli standard di produzione industriale, o specificamente prescritta”. Il dovere di sicurezza, pertanto, era assolto con l’adozione di

misure di sicurezza “generalmente praticate nel settore”, senza che avesse alcun valore esimente la mancata applicazione derivata dall’ignoranza al riguardo o dall’inerzia degli organi ispettivi in quanto la scelta e l’aggiornamento delle misure di sicurezza erano ispirati dalle acquisizioni

della migliore scienza ed esperienza del momento64. Il modello di sicurezza,

basato su “comportamenti operativi dei lavoratori soggettivamente sicuri”,

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richiedeva un’ampia opera di informazione e formazione sia degli stessi prestatori di lavoro sia dei collaboratori dell’imprenditore. La formazione rientrava tra le misure generali di tutela (art.3, co. 1, lett. s) e veniva disciplinata nell’art.22 che imponeva al datore di lavoro di fornire una formazione sufficiente ed adeguata sul tipo di produzione nonché sulla sicurezza e sul lavoro individuale e collettiva all’interno dell’ambiente di lavoro con particolare riguardo ai rischi esistenti, ai possibili danni che ne potevano derivare e sulle misure richieste per fronteggiarli. Di norma la stessa si svolgeva durante l’orario di lavoro; era organizzata dal datore di lavoro o dai dirigenti, se esistenti, in collaborazione con il medico competente e con gli organismi paritetici di cui all’art.20. Esisteva un preciso dovere del lavoratore a partecipare attivamente ai corsi di formazione organizzati dal datore di lavoro (art.5), che, a sua volta, doveva verificare che il dipendente avesse effettivamente conseguito l’obbiettivo formativo. Il responsabile per il servizio di prevenzione e protezione poteva proporre i programmi di formazione (art.9, co. 1 lett. d); anche il datore di lavoro doveva frequentare corsi di formazione qualora avesse deciso di assumere su di sé i compiti di R.S.P.P. I rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza, a sua volta, aveva diritto ad una formazione speciale (art.22, co. 4 ed art. 19 co. 1 lett. g) durante l’orario di lavoro e senza oneri economici a suo carico sulla prevenzione e protezione dei lavoratori dai rischi specifici esistenti in azienda. Infine era prevista un’adeguata formazione anche per gli incaricati della prevenzione incendi (art.22, co. 5). Nelle misure generali di tutela era collocata anche l’informazione, disciplinata dall’art.21. Essa costituiva il presupposto imprescindibile per la gestione partecipata della sicurezza e presupponeva la più ampia diffusione nei confronti non solo dei lavoratori, ma anche del R.L.S., del R.S.P.P. e del medico competente e riguardava i rischi sulla sicurezza individuale e collettiva, le misure e gli accorgimenti adottati per la prevenzione e la protezione, i pericoli legati all’uso di sostanze pericolose , le

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procedure di pronto soccorso e di evacuazione in caso di incendio, i

nominativi del R.S.P.P. e del medico competente65. L’informazione doveva

essere fornita nei limiti della ragionevolezza nel senso che il lavoratore doveva conoscere i rischi individuali o collettivi che comunque erano collegati alla prestazione di lavoro richiesta. L’obbligo di informazione gravava sul datore di lavoro, ma anche sui dirigenti e sui preposti, se esistenti. Il mancato adempimento, oltre ad essere sanzionato dagli artt. 80 e 90, poteva determinare la responsabilità civile per inadempimento contrattuale qualora dall’omissione ne fosse scaturito un infortunio sul lavoro. Il datore di lavoro era libero di scegliere il canale per far circolare le informazioni purché venisse conseguito il risultato; erano pertanto idonei allo scopo l’affissione di cartelli, la segnaletica di sicurezza, i segnali di avvertimento, la pubblicazione di libretti o opuscoli. Anche l’informazione, come la formazione, costituiva un diritto-dovere del lavoratore e doveva essere adeguata allo scopo che si prefiggeva. L’addestramento, infine, serviva ad impratichire i lavoratori sull’uso pratico delle nozioni apprese con la formazione e l’informazione. Esso poteva riguardare le attrezzature di lavoro, l’uso dei dispositivi di protezione individuali, la protezione dagli agenti chimici ed altro. Passando

all’analisi del decreto legislativo n. 81 del 200866

, tra le principali novità introdotte con il suddetto provvedimento legislativo si annoverano: l’estensione del campo di applicazione della legge a tutti i settori di attività, privati e pubblici, e a tutte le tipologie di rischio, nonché a tutti i lavoratori e le lavoratrici, subordinati e autonomi, ed ai soggetti ad essi equiparati; un sistema istituzionale con il compito di affiancare le imprese nel difficile compito di adeguare il luogo di lavoro alla normativa sulla sicurezza e di promuoverne la cultura; nuove modalità per la redazione del documento di valutazione del rischio; un nuovo regime sanzionatorio; gli incentivi alla

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R. Borgato, Allargare I confini: il ruolo del R.S.P.P. in un’ottica sistematica, in Puntosicuro, 18 Gennaio 2018.

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formazione dei dipendenti, l’istituzione di un sistema di qualificazione delle imprese e dei lavoratori autonomi, l’estensione delle rappresentanze sindacali dei lavoratori, la possibilità di avvalersi di sistemi di elaborazione automatica dei dati per la memorizzazione di qualunque tipo di documentazione (art.53), ed altre ancora che vengono volta per volta esaminate. Il titolo I – Principi

comuni “esprime la logica dell’intervento legislativo contenendo le

disposizioni generali necessariamente da applicare a tutte le imprese destinatarie delle disposizioni in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro”. A sua volta, il titolo I è diviso in quattro Capi, così articolati: Capo I

Disposizioni generali, Capo II Sistema istituzionale, Capo III Gestione della prevenzione nei luoghi di lavoro (questo Capo è diviso in otto sezioni), Capo

IV Disposizioni penali. Come si evince dalla lettura del testo del decreto legislativo, il Legislatore delegato ha conservato i principali capisaldi della normativa di cui al d.lgs. n. 626 del 1994, tanto che la programmazione della sicurezza in azienda accompagnata dalla partecipazione attiva di tutti i soggetti, costituisce ancora oggi la struttura portante del recente provvedimento legislativo. Pur tuttavia, il Governo non ha realizzato una mera opera di riorganizzazione del sistema prevenzionistico precedente, ma ha anche proceduto ad una rivisitazione della disciplina contenuta nel d.lgs. n. 626 del 1994, rendendola più efficace e completa se solo si considera che i principi generali, prima racchiusi nei artt. 1 – 29, sono oggi inseriti in ben 61

articoli67. Nell’art.1 ─ intitolato Finalità ─ viene affermato che le norme del

decreto legislativo sono rivolte al riassetto ed alla riforma delle norme vigenti in materia di salute e sicurezza delle lavoratrici e dei lavoratori nei luoghi di lavoro. Esse mirano ─ precisamente ─ a garantire l’uniformità della tutela sul territorio nazionale attraverso il rispetto del livello essenziale delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, anche con riguardo alle differenze di

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F. Ferrante, La tutela della salute e della sicurezza sui luoghi di lavoro, in Il diritto dei lavori, Cacucci, 2017, pp. 63-70.

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genere, di età e alla condizione delle lavoratrici e dei lavoratori immigrati. Tra le novità più rilevanti si segnala che ─ a differenza del passato ─ l’attuale normativa non si rivolge unicamente al lavoratore subordinato, ma a tutte “le

persone che, indipendentemente dalla tipologia contrattuale, svolgono un’attività lavorativa nell’ambito dell’organizzazione di un datore di lavoro pubblico o privato” (art. 2, co. 1, lett. a); essa enuncia per la prima volta la

nozione di dirigente (lett. d) e di preposto (lett. e), come anche di azienda (lett. c), di addetto al servizio di prevenzione e protezione (lett. g), di sorveglianza sanitaria (lett. m), di salute, intesa come “stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, non consistente solo in un’assenza di malattia o d’infermità” (lett. o), di sistema di promozione della salute e della sicurezza, inteso come “complesso dei soggetti istituzionali che concorrono, con la partecipazione delle parti sociali, alla realizzazione dei programmi di intervento finalizzati a migliorare le condizioni di salute e sicurezza dei lavoratori” (lett. p), di valutazione dei rischi (lett. q), di pericolo (lett. r), di rischio (lett. s), di norma tecnica (lett. u), di buone prassi (lett. v), di linee guida (lett. z), di formazione (lett. aa), di informazione (lett. bb), di addestramento (lett. cc), di modello di organizzazione e di gestione (lett. dd), di organismi paritetici (lett. ee), di responsabilità sociale delle imprese (lett. ff). L’art. 3 del decreto legislativo riguarda il Campo di applicazione (in precedenza regolato dall’art.1 d.lgs. n. 626 del 1994). Viene stabilito che le norme del decreto legislativo si applicano a tutti i settori di attività, privati e pubblici, e a tutte le tipologie di rischio (art.3, co. 1), nonché a tutti i lavoratori e lavoratrici, subordinati e autonomi, ed ai soggetti ad essi equiparati (art. 3, co. 4). Rimangono esclusi gli addetti ai servizi domestici e familiari (art. 3, co. 8); mentre per alcune categorie, come le Forze Armate, la Polizia di Stato, i Vigili del Fuoco o nell’ambito delle strutture giudiziarie, penitenziarie etc. la legge rinvia la disciplina ad appositi decreti. Nel medesimo articolo, vengono disciplinati gli obblighi di sicurezza in presenza di un contratto di

Nel documento Il lavoro agile (pagine 54-72)