Le diverse teorie riguardanti la corretta gestione dell’impresa, hanno progressivamente dato vita al dibattito sui comportamenti eticamente corretti e doverosi dell’imprenditore e del management nella gestione fiduciaria di interessi di altre categorie di soggetti (lavoratori, azionisti, risparmiatori). Questo si inserisce in un più ampio contesto riguardante i comportamenti etici nella conduzione degli affari, postulando un’esigenza di etica di impresa (business ethics) che partendo dagli Stati Uniti si è allargata dal mondo di common law fino all’Europa di civil law. Le ragioni di fondo del manifestarsi dell’interesse a questo tema sono, sostanzialmente, dovute da un lato alla progressiva globalizzazione dell’economia e del mercato che rischia di essere pregiudicata dall’assenza di regole giuridiche comuni e riconosciute in tutti i paesi riguardanti i principi per operare in un mercato globalizzato; dall’altro, all’esigenza delle grandi imprese di
(26) I problemi di agenzia non sembrano risultare del tutto risolvibili. Come sottolinea
G.ROSSI, Il conflitto epidemico, 2003, Milano, la situazione che si descrive è quella di un «capitalismo avanzato, in cui tutte le società di una qualche rilevanza sono costrette a separare la proprietà dal controllo dei manager (…) e quindi sopportare i costi di agenzia derivanti dal prevedibile comportamento opportunistico di questi ultimi. E il semplice fatto che tali costi esistano indica che nelle società di grandi dimensioni il conflitto di interessi viene considerato in qualche misura fisiologico». Per ulteriori approfondimenti sull’impossibilità di risolvere completamente i problemi di agenzia si veda K.J.ARROW, The Limits of the Organization, in W.W. Norton, 1974, New York.
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presentarsi sul mercato con un grado adeguato di affidabilità che risulta fondamentale per il loro sviluppo, soprattutto quando (ed è il caso delle società quotate, che stiamo prendendo in esame) esse si finanziano ricorrendo al mercato dei capitali e per questo motivo devono ottenere la fiducia dei risparmiatori che, diversamente, potrebbero essere disincentivati a investire nelle stesse. Per queste ragioni la ricerca di vincoli etici assume rilevanza poiché identifica una garanzia al principio della libera competizione. Si propongono pertanto, regole che hanno il fine di ridurre le asimmetrie informative e i conflitti di interesse descritti precedentemente che risultano rilevanti per le categorie dei soggetti menzionati.
Nasce dunque un’etica della responsabilità riferita ai comportamenti umani nell’agire economico e professionale, le cui origini possono essere individuate nei caratteri distintivi del capitalismo fondato sull’idea del lavoro e della professione come perfezionamento dell’uomo quindi alla sua responsabilità verso la propria coscienza (27).
Come si è detto fino ad ora, a causa di questa serie di interessi da bilanciare ed equilibri da mantenere la corporate governance ha assunto un ruolo centrale nei mercati dei capitali e, più in generale, nel sistema economico di cui gli stessi sono espressione. È ampiamente diffusa l’opinione che un buon sistema di governance migliori la
performance delle imprese, garantisca un più elevato grado di
trasparenza del mercato e tuteli maggiormente gli investitori che rappresentano generalmente la controparte “debole” del contratto di investimento. Per favorire lo sviluppo di sistemi di governance virtuosi in linea con le migliori prassi internazionali, in molti paesi sono stati sviluppati e adottati codici di autodisciplina.
Sebbene siano stati numerosi gli interventi normativi atti a disciplinare la materia della corporate governance nel tentativo di
(27) «L’idea di un dovere che l’individuo deve sentire e sente nei confronti del
contenuto della sua attività “professionale”, quale che possa essere… proprio questa idea è caratteristica dell’“etica sociale” della civiltà capitalistica, anzi in un certo senso ha per essa un significato costitutivo.» così M. WEBER, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, Milano, 2005, p. 77.
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raggiungere una disciplina unitaria (28), spesso si è giunti alla conclusione che principi di autoregolamentazione potessero risultare più efficaci per la definizione di un modello di efficiente gestione dell’impresa. Un intervento legislativo, infatti, risulta spesso complesso e impossibile da applicare in modo uguale in tutte le situazioni politiche, sociali e culturali, e ciò ha in qualche modo facilitato la creazione di principi etici che riguardano i comportamenti da tenere nel governo dell’impresa, non vincolanti e non sanzionati, liberamente adottabili dalla società.
In Europa tali principi sono rappresentati dagli Standard etici proposti dall’Agenzia Europea di Investimenti Standard Ethics, nonché il Libro Verde della Commissione Europea sulla responsabilità sociale delle imprese presentato nel 2001. Sulla base di quanto espresso nei detti documenti, è possibile individuare alcuni principi generali che dovrebbero orientare l’etica delle imprese di società di capitali: tra questi figurano, ad esempio, l’indipendenza degli amministratori rispetto alla proprietà dell’impresa con l’adozione di pratiche di buon governo societario (good corporate governance practices); una politica di trasparenza con i portatori di capitale alle imprese; la libertà di accesso e diffusione del capitale delle imprese societarie, con identità sostanziale dei poteri azionari (29).
Pertanto, poiché è ormai evidente ed assodato che nell’esercizio dell’attività di impresa sono ampiamente diffusi comportamenti
(28) Con particolare riguardo alle società che ricorrono al mercato del capitale di
rischio, la corporate governance risulta un tema senza tempo. Per attrarre capitali infatti le società devono avere una struttura di governo societario che risulti affidabile agli occhi degli investitori e questo è possibile se le società agiscono con trasparenza, sono attente alle esigenze degli investitori e dispongono di un management adeguatamente professionale che agisce perseguendo l’interesse sociale. Questi gli obiettivi che risultano essere comuni alla maggior parte degli ordinamenti economicamente più sviluppati. A riguardo cfr. R.LENER, Il ruolo della corporate governance nell’economia globale, in Banca impresa e società, 2017, pp. 3 ss.
(29) Cfr. A. GUACCERO, Il ruolo della corporate governance e delle regole di
responsabilità nella condotta societaria, in Il mercato giusto e l’etica della società civile, a cura di S. Semplici Annuario di etica, 2005, 2, Milano, pp. 181 ss., che individua i principi per l’etica delle imprese, oltre a quelli citati ai fini del presente lavoro, in: rispetto dei diritti umani coinvolti nell’esercizio dell’impresa, con particolare attenzione ai diritti dei lavoratori; la tutela dell’ambiente; il contributo allo sviluppo sostenibile e al progresso sociale; l’assunzione di una posizione (non anti) concorrenziale e la tutela dei diritti dei consumatori; il rispetto della legalità nei rapporti con la pubblica amministrazione e degli obblighi tributari.
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opportunistici da parte degli amministratori espressione del gruppo di controllo, poiché sono stati trattati i temi e i conseguenti problemi derivanti dal rapporto di agenzia, a causa della presenza di interessi confliggenti ben visibili nelle società che ricorrono al mercato dei capitali dovuti ad un azionariato diffuso, probabilmente assenteista ed apatico si è assistito allo sviluppo dei codici di comportamento.
Si giunge dunque ad una progressiva codificazione della soft
law (30), ossia di norme che fondano la propria efficacia più sulla diffusione di modelli culturali di riferimento, a cui corrisponde sul piano sanzionatorio la punizione sociale della vergogna.
La legge, le norme, ciò che viene generalmente inteso come etero-regolamentazione può fornire una struttura di base, uno «scheletro» (31) per far sì che la direzione della società di capitali avvenga in maniera efficiente, efficace e in modo tale da massimizzare il rendimento dell’investimento dei soci, ma tramite l’autoregolamentazione la corporate governance di una società può trovare una migliore espressione, poiché i principi etici e morali di riferimento dipendono dal contesto in cui l’impresa opera e pertanto, saranno espressione di quella che è l’identità della società che, ovviamente, non può del tutto essere la medesima e non può essere regolamentata asetticamente con norme applicabili indistintamente all’una o all’altra impresa.
Con riferimento alle problematiche discusse, la codificazione di principi etici e l’adozione di tali codici da parte delle società, risulta condizione rilevante per cercare di risolvere tematiche centrali riguardanti la corporate governance. L’adozione di codici di comportamento diventa per la società garanzia di qualità del prodotto collocato sul mercato finanziario dalla stessa (nel caso specifico azioni, strumenti finanziari) attraverso il quale l’impresa finanzia la sua continuità o il suo sviluppo.
(30) Idea che si deve agli inglesi, che per primi hanno proposto un codice di corporate
governance.
(31) Cfr. L.ENRIQUES, Codici di “corporate governance”, diritto societario e assetti
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Si viene dunque a configurare una sorta di complementarietà tra etero-regolamentazione e autoregolamentazione, tra norme e principi “etici”, tra imposizione e scelta. Il principale pregio di questa forma di autoregolamentazione è la flessibilità (32) che essa preserva a favore di ciascuna società. Essa è importante perché ogni impresa, a seconda del settore industriale in cui opera, dei suoi assetti proprietari e anche delle personalità stesse dei suoi massimi esponenti, avrà bisogno di muoversi in modo diverso dalle altre e si potrà trovare dunque a dover sviluppare in misura maggiore o minore aspetti diversi. Al tempo stesso, un codice di corporate governance rappresenta una pietra di paragone, presumibilmente espressione delle best practices condivise sul mercato, utile al mercato per giudicare le scelte di corporate governance di ciascuna società. È evidente che anche questo nuovo strumento che si è prospettato come una (possibile) soluzione a problemi interni di
corporate governance non può essere sostitutivo delle norme e non può
essere completamente estraneo al quadro giuridico sottostante: è necessaria dunque una buona e forte connessione tra normativa vigente e codici di autodisciplina che permetta una sorta di complementarietà tra leggi e codici in modo che, dove fosse carente la regolamentazione intervenga l’autoregolamentazione (il cui intervento non è necessario se esiste già un solido supporto normativo) e viceversa.
I codici di comportamento, hanno dapprima rappresentato una risposta a diversi casi eclatanti di fallimento di grandi società quotate inglesi, accompagnati da forti scorrettezze da parte dei soci di controllo o degli amministratori che comportano il sorgere nell’opinione pubblica un certo malcontento sulla conduzione delle società quotate. Successivamente sono stati accolti con entusiasmo e sono stati oggetto di imitazione in vari stati europei (Olanda, Belgio, Germania, Spagna e
(32) Così P.SCHLESINGER, Il codice di autodisciplina per le società quotate, in
Corriere Giuridico, 1999, pp. 1455 ss. che afferma in riferimento alla scelta degli strumenti di autoregolamentazione per disciplinare la corporate governance che «appare preferibile un sistema di regole non eccessivamente rigido, dotato di adeguata flessibilità, che lasci pertanto alle singole imprese margini apprezzabili di scelta in ordine a concreti problemi che possono profilarsi nel governo d’azienda»
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Italia) e, in generale in tutti i paesi che hanno o cercano di avere un mercato dei capitali ben sviluppato (33).
Questo nuovo prodotto non è stato tuttavia esente da critiche: i codici infatti formano oggetto di raccomandazioni e non un obbligo giuridico e qui può essere individuata la loro debolezza. L’adesione a tali codici è volontaria e, come già detto, rappresenta uno strumento per accrescere l’affidabilità della società nei confronti degli investitori. L’adozione quindi di codici di comportamento, che hanno funzione di prevenire i conflitti di interessi che possono verificarsi tra i soggetti operanti in una società, comporta un costo elevato che può incidere sulla competitività stessa dell’impresa. Da questo derivano le proposte di trasferire i principi etici e i codici di comportamento in regole giuridiche per fare in modo che tutte le imprese operino sul mercato a parità di condizioni. Se questa traduzione dell’etica in diritto non avviene i codici possono risultare ripetitivi e limitanti per le imprese compromettendone la competitività e di conseguenza pregiudicando gli stessi investitori. Tra le principali critiche mosse a tali codici vi è quella di essere una sterile ricerca di una soluzione ai problemi di conflitti di interesse con un «ossessionante richiamo all’etica» attraverso il quale «senza badare allo sforzo di parole e concetti decine di migliaia di imprese in tutto il mondo si stanno dotando di propri codici di comportamento, impeccabili nella forma quanto eludibili nella sostanza» (34). In quest’ottica l’emanazione dei codici, privi di rilevanza giuridica viene definita come nient’altro che «un’operazione di cosmesi» che porterebbe verso un’affermazione esclusiva degli interessi dei managers facilitata dall’assenza di controllo
sull’osservanza delle regole autodeterminate.
(33) Negli anni immediatamente successivi alla nascita di codici di comportamento,
la percezione che la corporate governance sia importante si può desumere da un sondaggio realizzato dalla McKinsey tra 216 investitori istituzionali latino-americani, statunitensi, europei e asiatici mostra che per il 39 per cento di questi investitori, nel decidere se investire in una data società tiene in considerazione il profilo della governance tanto quanto quello strettamente finanziario; per il 25 per cento del campione, tale profilo risulta più importante dell’aspetto finanziario.
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C
APITOLOS
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UTOREGOLAMENTAZIONE EC
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OMPORTAMENTO2.1. Origine e sviluppo dei codici di comportamento.
A partire dagli anni settanta è stata dedicata una crescente attenzione al ruolo che la corporate governance svolge nei mercati dei capitali e, più in generale, nel sistema economico. Come già detto, i motivi per cui nel tempo si è sviluppato un così forte interesse ai temi del governo societario sono legati da un lato al sempre crescente sviluppo dei mercati, dall’altro al succedersi di scandali finanziari che, coinvolgendo i spesso anche i risparmi degli investitori, hanno diminuito l’affidabilità degli stessi. Tutto questo ha probabilmente contribuito alla particolare attenzione alla struttura di esercizio dell’impresa che si è sempre più definita come la necessità di una corretta, efficiente ed efficace governance, in modo particolare per le società quotate, soprattutto se fortemente capitalizzate in borsa. Proprio per favorire lo sviluppo di sistemi di governance virtuosi, in linea con le migliori prassi internazionali, in molti paesi sono nati e si sono successivamente sviluppati insiemi di regole di soft law, definiti come codici di comportamento, volti ad integrare e riempire di significato gli interventi normativi finalizzati ad una gestione efficiente della società, conforme all’obiettivo di massimizzare il rendimento degli investimenti dei soci in quanto tali.
Il primo caso di codificazione di norme di soft law si verifica nel 1991 in Inghilterra. Anche in quel contesto infatti si erano verificati fallimenti di grandi società quotate, accompagnati da forti scorrettezze da parte degli amministratori o da parte dei soci di controllo. Simili situazioni di malcontento ed effettivi problemi dal lato del mercato finanziario rischiavano di stimolare, come è successivamente accaduto,
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la produzione di nuove regole che avrebbero comportato imprese più rigide e, conseguentemente, maggiori costi per le stesse. Pertanto, venne promossa la costituzione di un comitato che si occupasse degli aspetti finanziari della corporate governance, che prende il nome di Cadbury Committee, dall’omonimo presidente Sir Adrian Cadbury, membro di numerosi consigli di amministrazione di società quotate inglesi. Si giunge dunque nel 1992 alla produzione di un codice di best
practice. In seguito, si sviluppò il lavoro promosso dall’Associazione
dell’Industria Britannica presieduto da Greenbury. Nel Codice Greenbury vengono elaborati, in particolare, principi riguardanti gli amministratori (35), con particolare attenzione al tema delle
remunerazioni: è previsto, infatti, che la determinazione del compenso sia di competenza di un comitato appositamente costituito, formato da amministratori non esecutivi (36). Il terzo e “definitivo” intervento su
quella che era la base del code of best practice inglese fu successivo ad una raccomandazione contenuta nel Cadbury Report. Venne istituito il comitato Hampel che aveva il compito di rivedere i codici precedentemente emanati, considerata l’esperienza applicativa, al fine di «promuovere elevati standard di corporate governance nell’interesse della protezione degli investitori e al fine di preservare ed accrescere lo standing delle società quotate nella borsa di Londra (37)». Venne quindi elaborato in seguito il Combined Code che costituiva una sorta di raccolta dei codici di corporate governance che erano stati emanati sino a quel momento, che divenne parte delle regole di ammissione alla quotazione poiché le società quotate devono dichiarare l’adesione, in tutto o in parte, al codice.
(35) Il tema del consiglio di amministrazione, come si vedrà in seguito, risulta centrale
anche nell’edizione del Codice di autodisciplina delle società quotate. I codici di corporate governance dei vari paesi europei dedicano un ampio spazio ai vari aspetti che riguardano il consiglio di amministrazione ed il motivo di tale attenzione può essere ricondotto al conflitto di interessi, tematica centrale di corporate governance. Gli amministratori hanno molto spesso interessi confliggenti con quelli dei soci e, pertanto, le norme di soft law prodotte per garantire una buona governance sono da sempre e in grande parte riferite a loro.
(36) Anche la tematica dei comitati interni al consiglio di amministrazione, che nel
Codice Greenbury appare per la prima volta, sarà un leitmotiv dei vari codici di comportamento, progressivamente potenziata e sempre più rilevante.
(37) Come riportato nel rapporto Hampel «the committee will seek to promote high
standards of corporate governance in the interests of investor protection and in order to preserve and enhance the standing of companirs listed on the Stock Exchange».
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Il rapporto Hampel – o Combined Code – risulta essere una sorta di testo unico derivante dalla combinazione dei due precedenti codici (Cadbury e Greenbury). Il codice prevedeva, nella sua stesura originale aggiornata poi nel 2003, disposizioni riguardanti le società quotate alla borsa di Londra. Era inoltre previsto che le stesse dovessero pubblicare un documento, detto relazione sulla corporate governance, che dichiarasse l’adozione alle disposizioni contenute e, qualora non si aderisse in tutto o in parte al codice, le motivazioni per giustificare tale scelta. Questo introduce un altro principio cardine che verrà ripreso successivamente nella redazione di altri codici, il c.d. comply or
explain.
Il Combined Code si presenta suddiviso in due parti, la prima dedicata alle società quotate, la seconda agli investitori istituzionali. La parte dedicata alle società quotate si struttura su raccomandazioni che evidenziano la centralità del consiglio di amministrazione. Il Combined Code prevede che esso sia alla guida dell’impresa, che ci sia una distinzione tra chi ricopre ruoli ai vertici dell’impresa e il consiglio di amministrazione, evitando così che qualcuno abbia un potere decisionale incondizionato. Compare per la prima volta la tematica dell’equilibrio tra componenti esecutivi e non esecutivi del consiglio di amministrazione e si inizia a considerare la presenza di amministratori indipendenti che risulteranno poi centrali in altri codici di comportamento. Viene poi esaminata e definita la procedura per la nomina dei nuovi membri del consiglio che deve essere – come previsto dal Combined Code – una procedura formale, rigorosa e trasparente. Si esamina poi il tema delle informazioni che il consiglio di amministrazione riceve, che devono essere tempestive in modo tale da permettere agli amministratori di svolgere efficacemente il loro lavoro, e si prevede l’aggiornamento periodico degli amministratori per migliorare le competenze possedute. Il consiglio è poi tenuto ad introdurre un processo formale e rigoroso di valutazione della propria
performance, compresa quella dei sottocomitati e dei singoli
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presentarsi per la propria rielezione, condizionata al mantenimento di una performance soddisfacente. Il consiglio stesso deve inoltre pianificare e garantire un graduale ricambio dei suoi membri. Proseguendo si tocca il tema delle retribuzioni degli amministratori, più volte ripreso in seguito non solo dal codice inglese, prevedendo che le stesse siano tali da motivare i consiglieri con le competenze richieste a governare l’azienda con successo ma, tuttavia, non troppo elevate. È previsto inoltre che sia istituita una procedura formale al fine di definire le politiche per le retribuzioni dei manager e dei singoli consiglieri ed è previsto, ovviamente, che nessun consigliere possa partecipare alla determinazione del proprio compenso.
Altri aspetti che figurano nella “prima” versione del codice inglese riguardano l’audit e l’accountability e, a tal proposito, si prevede che il consiglio debba presentare un’equilibrata e ragionevole valutazione della situazione dell’impresa e delle sue prospettive. Il consiglio deve poi mantenere un efficace sistema di controllo interno,